Realismo magico ucraino o qualcosa di diverso? Gli Eccentrici di Taras Prokhasko

 


È facile accostare Gli Eccentrici (NeprOsti, 2002; ed. it. Utopia, 2024) di Taras Prokhasko a Cent’anni di solitudine di Márquez, ed è quanto avviene abitualmente nelle recensioni che ho trovato. Eppure, qualcosa non mi torna: accantonato l’evidente tributo allo scrittore sudamericano, mi sembra che la tradizione surrealista europea entri tra le pagine di Prokhasko con altrettanta forza.

 

Ambientato tra le montagne dei Carpazi, soprattutto al villaggio di Jalivec’, il libro racconta la storia di vari personaggi, tra cui Anna, nome che viene perpetuato di generazione in generazione all’interno di una famiglia del tutto particolare. Anna è la protagonista femminile, che incarna la continuità della vita al netto degli eventi distruttivi che la attraversano.

Franz è una figura enigmatica e contemplativa; l’archetipo dell’uomo in cerca di senso in un mondo in continuo mutamento. Persona curiosa, certo, ma che non arriva mai ad afferrare il significato compiuto di ciò che gli accade. È anche il padre di Stefania, poi ribattezzata Anna alla morte della madre omonima. Una figlia che si legherà a Sebastian, l’amico di Franz, un personaggio quantomai ambiguo, che finisce per intrattenere relazioni amorose con le nipoti. Beda incarna invece quella saggezza un po’ folle, nonché la connessione con la natura, fungendo da guida spirituale nel percorso dei protagonisti. Non si è mai certi se interpretarlo come un uomo avveduto, o come un hippie ante litteram che, a sua volta, non sa bene dove sbattere la testa.

 

Vengo così agli Eccentrici del titolo: sono «divinità terrene» che osservano e influenzano le vicende umane, rappresentando la forza narrativa che dà forma al mondo.

Nel capitolo Gli Eccentrici, che inizia a pagina 110 ma che è possibile leggere subito, vengono forniti tutti i dettagli, dai quali emerge un paradosso: gli Eccentrici sono persone che compiono il bene o il male grazie alle conoscenze innate o acquisite che possiedono. Sono «guaritori, licantropi, chiromanti, veggenti e indovini […]. ma [sic] il più importante è l’affabulatore. perché [sic] nulla è più forte ed efficace della parola, è un incantesimo.»

Gli Eccentrici raccontano storie e qui sta la loro differenza dalle altre creature: essi «governano il mondo», tessono le trame dell’esistenza «quando nasce qualcuno o nasce qualcosa», poiché «non c’è vita senza una storia» e dunque non c’è storia senza l’azione degli Eccentrici, per quanto siano figure sfuggenti all’interno dell’opera.

 

La narrazione, frammentata e non lineare, riflette la complessità della memoria umana e la tendenza a produrre una ciclicità nostalgica che non salva mai davvero dall’oblio del tempo. La traduzione compiuta da Lorenzo Pompeo non dev’essere stata per niente facile: liste di nomi di piante, caroselli di azioni assurde che si avvicendano senza soluzione di continuità, elenchi puntati di eventi e interi paragrafi che iniziano con lettere minuscole dopo i punti fermi.

La fusione di elementi quasi mitologici con eventi storici crea un universo narrativo dove il confine tra realtà e fantasia è sfumato. Le uniche coordinate si trovano a livello temporale nelle date storiche (seguiamo una serie di eventi che va dal 1913 al 1951) e a livello spaziale nella geografia. La descrizione particolareggiata dei paesaggi e della toponomastica sottolinea l’intima relazione tra l’essere umano e il suo ambiente, tra desiderio di contemplazione e di controllo (un controllo che passa dalle parole che definiscono alle azioni che lo manipolano).

 

Come Franz insegna a Sebastian, il luogo è centrale nel consentire la presenza di una storia: «Trovare il luogo significa iniziare la storia, inventare un luogo significa trovare una trama. […] e a volte basta solo pronunciarne i nomi nell’ordine corretto per impadronirsi della storia più interessante, […].»

Tra i passatempi preferiti di Franz c’è proprio la continua invenzione di voci o frasi, il cui accumulo ha prodotto diverse versioni della sua biografia. Riecheggiando un concetto espresso nella Trilogia della città di K. (1986-91) di Ágota Kristóf: «Ognuno […] nel corso della propria vita, può scrivere un libro. […] Un singolo libro a persona. Chi pensa di averne scritto più di uno si sbaglia: le opere successive fanno parte del processo di perfezionamento del primo libro.»

Secondo la “prima” Anna, invece, «la casa è il fondamento di una biografia e un effetto tangibile dell’esistenza.» La casa è il luogo dove si sofferma la memoria, permettendo di protrarre il ricordo nel tempo. Luoghi, neologismi, memorie: sono le tre parole la cui relazione nell’opera è circolare.

 

Prokhasko viene associato al “fenomeno di Stanislav”, un movimento letterario postmoderno ucraino, che ha rotto i legami con il realismo socialista e con l’idealizzazione sovietica della letteratura per mostrare gli aspetti più inspiegabili e persino malati della scrittura.

La prosa di Prokhasko è densa e meditativa, e richiama certo il realismo magico, ma la sua formazione in biologia riflette anche una meticolosa attenzione ai dettagli naturali e a una visione del mondo come un organismo vivente. È qui che sta la differenza con Márquez, i cui contenuti acquisiscono profondità in un contesto storico ben definito, che influenza o viene influenzato da persone comuni. In Prokhasko non sono le guerre o la storia a svolgere questa funzione («Di effetti concreti non ce n’erano poi molti. La guerra li aveva appena lambiti. Allora perché sempre la guerra?»), ma – si potrebbe dire – è la vita naturale a presentare elementi straordinari che trasformano l’esperienza umana in chiave surreale. In tal senso, potrei citare anche le opere di Massimo Bontempelli, un altro autore ripubblicato in questi anni proprio da Utopia, e non a caso.

 

«Le trame servono per la curiosità dei lettori. Una trama non si inventa e non scompare. Quello che c’è c’è. La si può solo dimenticare. Tutto ciò che ho imparato dalla vita, e poi ricordato, si riduce a un paesaggio che incarnava la gioia di pensare, a certi odori che erano emozioni, a certi movimenti che si adornavano di sentimento, a certi oggetti che erano l’incarnazione della cultura, della storia, della sofferenza, a certe piante che offrivano l’accesso alla bellezza, alla saggezza e a tutto ciò in confronto al quale nessuno di noi esiste davvero al mondo.»

 

Definire Gli Eccentrici un romanzo è fuorviante; è una di quelle opere non di genere che mescolano narrativa e saggistica, prosa poetica e linguaggio tecnico.

Non è un’opera facile da fruire, ma a chi apprezza il realismo magico e la tradizione surrealista europea (Breton, Desnos, Savinio, etc.) non potrà sfuggire la familiarità con questa opera di Prokhasko. Le trame sono spesso sopravvalutate: ciò che conta è saper trasmettere e ricevere quel sentimento che nasce non dalla regolarità della causa e dell’effetto, ma da un’epifania inattesa. Per fortuna, si scrivono e si pubblicano ancora opere stratificate come questa; per pochi, forse, ma a quei pochi necessarie.

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