L'amante fedele di Massimo Bontempelli
Copertina dell'edizione del 2023 di Utopia Editore |
Scritti
tra il 1940 e il 1946, i racconti de L’amante fedele di Massimo
Bontempelli vennero pubblicati nel 1953, anno in cui lo scrittore vinse il
Premio Strega.
Quindici
titoli, di lunghezza differente, con l’ultimo racconto che adotta una struttura
da romanzo breve e una suddivisione in capitoletti. Un’altra distinzione
riguarda il passaggio dalla prima alla terza persona, tuttavia, pur intuendosi
come i testi siano stati scritti in diverse fasi, lo stile risulta omogeneo. Un
tratto che mi ha colpito, e che mi ha riportato alla mente gli scritti italiani
dell’epoca, è l’alternanza dei tempi verbali passati con quelli presenti, anche
all’interno dello stesso periodo, e l’utilizzo del passato remoto laddove oggi
si preferisce il passato prossimo.
Bontempelli
è poi il maestro del realismo magico all’italiana e la maggior parte dei
racconti de L’amante fedele lo dimostra. In una nuova edizione del 2023,
Utopia Editore ci restituisce questa opera in cui si esaltano temi come la
scoperta, o epifania, il doloroso percorso dei rapporti umani, la sorpresa e il
concetto del ritorno a casa, declinato in varie forme. Di seguito, riporto
alcune considerazioni sui racconti e, trattandosi ormai di un classico, ne
scriverò non senza alcuni spoiler.
Nitta
Nitta
è una creatura notturna, non sembra fatata, ma più un’anima in pena che non può
fuggire la notte. Il racconto è narrato in prima persona da un uomo alla guida
di un’automobile. Egli sente rumori e sospiri nella vettura e vi scopre una
ragazza addormentata. I due vagano per le strade, l’uomo è sempre più incuriosito
da lei: «Le “presenze invisibili” farneticavano accelerando: ricordo
che da ragazzo per un certo tempo questa frase mi piacque molto. È un peccato
che al ginnasio non mettano in programma un poco di demonologia, avrei imparato
qualche esorcisma. Ma chi può sapere se questa presenza sia maligna o benigna?»
Bontempelli
sarebbe forse stato contento di scoprire che oggi, nel Regno Unito, esiste un
master in scienze magiche e occulte. Il mistero intorno a Nitta rimane comunque
tale. La creatura svia le domande e alla prima occasione scompare. Prende avvio
il gioco delle prospettive, o dei punti di vista, che segna molti racconti
della raccolta. Infatti, ciò che per il narratore è un’incredibile epifania, potenziale
fonte di significato esistenziale, per Nitta è una notte qualsiasi, forse
persino più inutile del solito.
Il
ladro Luca
Qui
siamo dalle parti dei dilemmi morali. Un ladro è in fuga su un tetto, un
poliziotto lo raggiunge, ma scivola e rischia di precipitare: il ladro Luca
decide di salvarlo e se ne va con la refurtiva.
La
domanda è: il poliziotto viene salvato perché Luca teme di essere accusato di
omicidio? Oppure è un autentico gesto d’umanità? Non basta questo passaggio: «D’improvviso
qualche cosa d’ignoto brillò nell’animo del ladro Luca, ed era assai diverso
dal delirio di quella prima felicità.»
Sì,
perché sulle prime, vedendolo scivolare, l’uomo aveva riso della sua sorte. L’istinto
si manifesta come primo motore dell’azione, ma – a pensarci bene – il senso di
umanità prevale. A volte, il caso stimola le persone a una buona azione prima
che sopraggiunga il rimorso dell’irrevocabile. Non sempre, però, abbiamo questa
fortuna.
La
violetta
Il
senso di umanità torna nel racconto successivo. Il ritmo è concitato, con Rosa
che cerca di uscire silenziosamente da casa, ancora una volta in un’ambientazione
notturna. Leggete che bella prosa, dai vocaboli ai tempi verbali, fino alla
punteggiatura: «Poco più su è la maniglia, la
prende, la gira; e in quell’atto chi sa perché rivolse un poco la testa e a
stento riuscì a non mandare un grido; lo sguardo le era caduto verso il basso
d’un uscio e là sotto appariva una pallida striscia di luce.»
Rosa
pensa, medita, riflette, a un certo punto sentenzia: «Nessuno sente più […].» Aveva
trascorso una serena giornata di primavera con gli amici; aveva raccolto una
violetta da spedire all’innamorato. Il fiore scompare e il suo umore cambia,
viene colta da incubi e rimorsi: «Che cosa ho fatto di male per trattarmi così?
[…] È saltato fuori dalla siepe, il nemico cattivo, t’ha dato un colpo feroce
sulla testa. (“Colpa tua, colpa tua.”) Era dentro te, nel fondo, e solo ora è
venuta a galla, la cosa che ti rodeva dentro e non la riconoscevi: sentire
oscuro, che ora a tradimento è diventato un pensiero preciso.»
A
un tratto mi sono chiesto: l’amore di cui parla esiste davvero? E lei chi è,
che cosa sappiamo della sua identità? Forse è una paziente psichiatrica? Altri racconti
e dinamiche della raccolta non lo escluderebbero. La sua fuga notturna, di
soppiatto, lo confermerebbe. Inoltre, Rosa tenta di continuo di evadere, sia
fisicamente che con il pensiero, tra sogni e viaggi di fantasia. La scrittura
della sua lettera è ossessiva e si protrae per tutta la notte: quando arriva l’alba
cade nel sonno. In quel nuovo giorno, le ombre sono svanite. Che cosa rimane
del suo tormento?
I
pellegrini
Perché
non chiamare la raccolta Notturni? Un uomo racconta in prima persona l’incontro
casuale con una congrega di pellegrini. Si unisce a loro, attraversano una
foresta al buio, tra immagini diaboliche e infernali, infine celesti e
angeliche. Il cammino è periglioso e si rivela, al termine, circolare. È l’emblema
dell’elemento assurdo che coinvolge le nostre vite e che si presenta con
maggiore facilità nelle ore notturne. All’alba, l’uomo non è certo che ciò che
abbia vissuto sia avvenuto per davvero.
Credo
che il racconto abbia un doppio valore, positivo e negativo, che si riassume
nella perplessità del protagonista, che non capisce chi dia ordini al gruppo, né
perché tutti vi si adeguino a priori. Comprende che chiedersi “chi” sia
superfluo, che esistono momenti della vita in cui l’intuito ti rende partecipe
di una verità che devi solo vivere e non descrivere. Da un’altra prospettiva, però,
più materialistica, quella resa al principio di autorità indiscutibile può
divenire metafora della sudditanza al potere, come testimoniato dall’epoca
fascista durante la quale vennero scritti questi racconti.
Pietro
e Domenico
L’elemento
politico e sociale torna qui in forma esplicita. Nel corso della seconda guerra
mondiale, l’anziano e malato Pietro trascorre le notti insonne, sebbene il
servitore Domenico tenti di farlo coricare. Suona l’allarme aereo, i due escono
in giardino, sotto le stelle, e dopo un dialogo arriva la presa di coscienza: «Invece
a furia di avere paura gli uni degli altri, non guardano in alto, non guardano
intorno, non vedono e non sentono, l’umanità è una masnada di sordi. Pensa, io
fino a poco fa non avevo il coraggio di alzare la testa, invece vedi quante
stelle.»
Il
racconto è attraversato da un sentimento “cristiano” che abolisce la dialettica
servo-padrone in nome di un ecumenismo apolitico, in cui ciascuno si fa
servitore del prossimo: «Ti dicevo, dire padrone è una cosa falsa. Tutta la
vita è falsa, Domenico. Nella vita tutti dobbiamo, sì, aiutarci gli uni con gli
altri, dunque servirci, ognuno come può, più che può; e allora non ci sono più
né padroni né servi. Abbiamo sbagliato tutto, ma fino dai primi tempi. La colpa
non era soltanto mia, è stata di tutti gli uomini. Bisogna capirlo a tempo e
cambiare. Io ho avuto fortuna, ho ancora qualche minuto, per cambiare; per
questo ti prego di non dirmi padrone e di chiamarmi Pietro, in questo modo mi
aiuti. […] Quando il mondo intero sarà all’ultimo, ad aspettare che la casa gli
cada addosso e lo schiacci, allora anche lui cambierà, non credi? Ma il mondo
ha tempo, non muore, lui rinasce e continua, è eterno, pare.»
L’umanità
è sorda e costruisce il suo dio nel tempo, ma Pietro è stanco di questa
menzogna e il suo irenismo è l’auspicio che le persone, dopo il ventennio di
regime, possano liberarsi di queste catene, ripartendo da ciò che i
totalitarismi avevano cancellato della Rivoluzione francese: l’uguaglianza. Gli
alberi vengono divelti, la casa crolla, ma a differenza di quella degli Usher,
qui non muore solo una maledizione, ma, attraverso le ultime parole dei due, sopravvive
la speranza di una ricostruzione.
Convegno
Si
torna alla prima persona: il protagonista è affascinato dal mondo
ultrasensibile, pur partendo da basi materialistiche. A suo dire, ogni
impressione troverebbe una spiegazione di natura fisica e materiale. E così
tenta di codificare le percezioni notturne di una donna, Livia, che nell’etere
parla con l’amato, rievocando una tragedia che non è solo personale. Paolo e
Francesca, Romeo e Giulietta: i parallelismi sono infiniti. Le anime dei due
amati si erano promessi eterno amore, anche dopo la morte, e tentano di congiungersi
in un unico essere, abolendo l’individuo, quell’Io che «è la sola cosa eterna.»
Qualcosa però interferisce e forse non è solo la presenza, ora avvertita, del
protagonista: le entità svaniscono all’alba e forse il loro desiderio è ancora
al di là di quel piano fisico (per quanto sottile) in cui sopravvivono.
Luci
Le
animelle. I fuochi fatui. La luce in fondo al tunnel. Sono tutte immagini
analoghe, differenti solo nei particolari. Tornano le riflessioni sul genere
umano, sulla moralità perduta: «È triste sentirci tanto spesso fraintesi nei
nostri sentimenti più semplici; perché mai l’umanità, che a pensarla tutta
insieme è così ricca di motivi divini, appena la sfiori nei suoi elementi la
trovi carica di veleno?»
Il
protagonista scende in strada nella notte, ed è spinto a seguire delle strane
luci. Una voce gli dice che una di quelle è la sua. Ai bivi, è chiamato a
scegliere, in quella che diventa un’indagine di sé. Non esiste una luce giusta
a priori, sembra dirci, ma una che è più adatta alla propria indole. Peraltro,
il protagonista non esclude cambi di rotta: «In questa scelta non debbo
aspettarmi chiamate o aiuti di sorta ma affidarmi alle sole mie forze,
all’esame della mia propria natura, sia pure confortato da qualche attrazione
spontanea. […] E poiché i cammini sono due, il mio per ora è questo. Poi, si vedrà.
E mi buttai risolutamente per il sentiero di sinistra, rimettendomi a marciare
di buon passo.»
Tra
le righe, ci sono le scelte di tanti italiani durante il fascismo, a volte
spinti dal vento o dall’istinto, simili in questo ai pellegrini dell’omonimo
racconto precedente: «Debbo accettare questo effetto come una mia scelta? Fu un
impulso intimo, o un trascinamento dal di fuori e poco più che una facile
curiosità? Davvero ho sentito come se fossi spinto da un vento. È dunque
qualche cosa di somigliante al puro caso; e io ho sempre gridato che il caso è
tra i moventi degli atti umani il più immorale. Tornare indietro? Ecco una cosa
che all’uomo ripugna; ma tale ripugnanza è un sentimento terrestre. Intanto che
a questo modo in me polemizzavo, procedevo anzi salivo.»
Non
è solo questione di libero arbitrio. Talvolta, vi è la nitida certezza di ciò
che sarebbe giusto fare, ma le circostanze indeboliscono la nostra azione
morale. Porsi le domande adeguate, problematizzare la propria bussola morale è
pur sempre un modo non solo di andare avanti, ma di migliorarsi, appunto: di
salire.
La
Bella Addormentata
Un
uomo entra in un caffè e trova una donna addormentata. Non riesce a svegliarla,
ma – con un’attribuzione perentoria – si convince che essa sia la Bella Addormentata.
Perché così se l’era immaginata e non si capacita di come gli altri non l’abbiano
riconosciuta. Un gran volo pindarico, che convince l’uomo di poter divenire un
principe, se solo riuscisse a svegliarla. E subito dopo il vortice dell’estasi:
l’uomo prende il corpo della donna e balla con lei, tra musiche festose e
solenni. È forse tutto nella sua testa? È un delirio? Egli non riesce a
guardare la Bella Addormentata per quello che è: una probabile vittima di
avvelenamento. Certo, il dubbio lo sfiora, ma è nella fantasia del simbolo che
protegge se stesso dalla cruda realtà.
Imperatrice
Ho
trovato qui il mio brano preferito del libro: «Quando si è molto felici non si
ha il tempo di ricordare. Uno ricorda quando non è contento. Io ho tutto,
madre.»
A
parlare è Cecilia. La giovane vive con la madre, fino a quando finisce in
manicomio, per quella che il dottore definisce demenza. Cecilia crede infatti
di essere l’imperatrice bizantina Teodora. Ci sarebbe una cura, sostiene il
dottore. Così la madre va a farle visita e la giovane pronuncia frasi
deliranti, che pure mostrano una gioia di vivere che forse la donna non aveva
mai conosciuto: «Prima che lui [il dottore] potesse dire una parola, con una
soffocata arida voce comandò: “Le proibisco di guarire mia figlia”.»
Tra
le righe, il lettore percepisce il peso di una storia non raccontata, legata
probabilmente a un altro uomo: il padre di Cecilia, un fratello o un
innamorato. Quando si è felici non si ha tempo di ricordare e la madre, a quelle
parole, agisce con sentimento iperprotettivo. Da un lato, la condanna a perdere
per sempre coscienza di sé; dall’altro, la preservazione dal dolore. A voi, il
giudizio su ciò che sia più giusto.
Ottuagenaria
Dal brano migliore al racconto che ho preferito. La
vecchia Daniela convoca i tre figli Celeste, Giovanni e Alberto per raccontare
la sua vita in un monologo. I tre sono accompagnati dal figlio e dalla moglie
di Alberto e da Mauro, il marito di Cecilia. La cameriera è la settima testimone.
Daniela si racconta senza peli sulla lingua, da come volesse diventare una
rivoluzionaria, finendo invece in un matrimonio claustrofobico solo per contraddire
i genitori: «Quando
fummo sposati, in breve il mio proposito [d’avvelenarlo] svanì. […] M’ero
rifiutata al viaggio di nozze. Il giorno stesso della cerimonia Paolo mi
condusse nella sua casa e riprese la sua vita. Cominciò per me un altro pozzo.
Lui tornava a casa ogni notte dal Circolo del whist, entrava nel talamo
e tre notti per settimana mi svegliava. Io accettavo i suoi amplessi con
l’indifferenza d’una vacca.»
C’è
di sicuro un po’ di Pirandello in questa concezione della trappola familiare,
che la donna definisce un “pozzo”, ovvero un vicolo cieco che passa dal
controllo genitoriale a quello nuziale. Daniela sostiene che le donne non
possano progettare la loro vita come gli uomini, e così, rimasta vedova, ha
cacciato da casa i figli maschi e ha scelto di vivere sola con Celeste, sulla
quale aveva proiettato tutte le sue speranze infrante. Eppure: «Invece tu non
eri figlia mia, eri figlia soltanto di tuo padre, biondiccia e mediocre come
lui. I tuoi occhi erano, come i miei, scuri, ma senza lampo. E non riuscivo
ancora a capire che tu eri come lui, una perfetta idiota.»
Immedesimatevi
nei tre figli, poi però leggete la forte critica di Daniela alla mediocrità, quella
ricerca del quieto vivere che, in determinate condizioni storiche, rischia di
trasformarsi in passività sociale. Disillusa, le speranze della vecchia passano
dalla proiezione nel mondo alla propria interiorità: «Un uomo che non sa fare
una follia non è un uomo, è un animale qualunque. So che ci sono degli ospedali
per le bestie, ma non ho mai sentito dire che ci siano i manicomi per le
bestie. Ha mai sentito parlare di veterinari alienisti? Il solo segno certo di
umanità è la follia.»
Il
compiere gesti inaspettati, che niente hanno a che vedere con la “natura delle
cose”: il tutto è un preludio al tragico finale. La vecchia racconta di come
aveva rovinato la reputazione di un noto politico, portandolo al suicidio e di
come, a seguito del matrimonio di Cecilia, si fosse chiusa in se stessa. Trent’anni
di solitudine, depressione, frustrazione e rabbia. Il finale è un crescendo. La
donna insulta Mauro in ogni modo, vomita un odio represso per decenni, chiusa
in una casa dove le notizie da fuori non filtravano nemmeno attraverso un
giornale: «Accumulavo. Sai com’è fatto l’odio? Te lo spiego. Mi pare di aver
detto che da ragazza odiavo mio padre e mia madre. Non è così. Non è quello
l’odio, quella è insopportazione, difesa accanita, come vuoi; ma non l’odio. E
quando tu sposandoti m’hai vergognosamente tradita, neanche te ho odiato, […]
era uno spaventoso disgusto, il disprezzo totale, al modo di quello che ebbi
per mio marito ma molto più disperato. […] l’odio infinito ed eterno come Dio,
l’ho rovesciato fino all’ultimo sopra lui, sì, sopra te, sopra la tua testa,
Mauro […].» Mauro che diviene idolo di un dolore cronicizzato e che può ora
solo fungere da vittima sacrificale.
L’amante fedele
Vittorio confida all’amico Mario la sua sofferenza
per la lontananza di Teresa, l’amata partita in vacanza. Invitato a casa della
famiglia Consalvo, Vittorio conosce la signora Cosima, che lo seduce in tutti i
modi, pur essendo sposata. L’uomo recita però una parte con convinzione: «L’amore è
soprattutto fedeltà; senza fedeltà, la fedeltà più intransigente, più assoluta,
non c’è amore; e dell’amore la fedeltà è l’elemento più importante,
fondamentale, per chi sa amare davvero. […] non creda ch’io faccia del
platonismo. Anche il vero grande possesso sessuale non lo conosce altro che chi
ama una donna sola e fin che ama quella non esistono per lui altre donne nel
mondo.»
Cosima si offende, ma non demorde, e il suo
obiettivo diviene quello di far cadere un tale castello di carte: «Ti illudi. Non passeranno
due giorni e ne desidererai un’altra… e allora perché non io? fedele? mi fai
ridere. In quei momenti mi guardavi, eri già dunque infedele.»
Vittorio
riceve un biglietto che lo invita ad andare in un bordello, chiedendo di una
certa Teodora. È scosso dal messaggio, si immagina le peggiori ipotesi su chi
possa celarsi dietro quelle parole, ma mi viene da pensare che, in cuor suo, lo
sapesse bene. Persone come lui hanno però bisogno di fornire una cornice morale
e idealistica alle proprie azioni, cornice senza la quale si sentirebbero nudi:
«E se verso quell’ora cambiai rapidamente fu per una ragione altamente morale,
che soltanto in quel punto mi balenò. S’io non fossi andato non avrei mai
saputo la verità, tutte le ipotesi sarebbero rimaste possibili, dunque anche la
quarta atrocissima, calunniando forse una creatura che invece a quell’ora stava
davvero tranquillamente in campagna dalla zia a smaltire il mal di testa.»
Il
racconto si era aperto con la descrizione dello strazio quotidiano, molto
romantico, di Vittorio, con la reiterazione di piccoli gesti quotidiani che fornivano
un modo per tirare avanti. Ogni azione quotidiana è vissuta con più intensità da chi soffre, ma ecco che si
introduce un elemento all’apparenza innocente: il protagonista vede in altre
donne la figura dell’amata, Teresa, e poi chiede a lei perdono per aver pensato
che qualcun’altra potesse somigliarle. Il senso di colpa lo paralizza. Cosima
definisce Vittorio l’«amante sublime», non senza ironia, e lo mette alla
prova. Ci troviamo così catapultati in un baccanale: crolla la fedeltà “ideologica”
dell’uomo e nasce una nuova ossessione, quella per Cosima-Teodora, che,
ottenuto il suo scopo, lo ignora. E Teresa? Tornerà probabilmente dalle vacanze
con un uomo che le servirà un bel piagnisteo moralistico. Per fortuna,
Bontempelli conosce l’arte del mettere il punto finale al momento opportuno.
Il segreto
Dall’amante (in)fedele a quello codardo. Canuto ha
settantacinque anni e torna al paese natale, dopo aver vissuto per cinquant’anni
in America. Prima di partire, aveva abbandonato Ilaria alla vigilia delle
nozze. È a casa di lei che giunge al suo ritorno. Vi trova una giovane uguale a
lei, in procinto di sposarsi, e l’uomo ritiene che possa trattarsi di una
nipote. All’arrivo di una signora di mezza età, questa riferisce di essere lì
per assistere la zia, ovvero la donna che sta per sposarsi: «Canuto non
rispose; e tremava. Se n’andò; non si voltò più a guardare la finestra d’Ilaria,
Ilaria che aveva saputo fermarsi, Ilaria che, sopprimendo in sé il tempo, sola
aveva scoperto il disperato segreto della giovinezza.»
Ci
sono due modi con cui Bontempelli spiazza il lettore nei suoi scritti legati al
realismo magico: o l’elemento assurdo è inserito con naturalezza nel corpo
centrale del testo, oppure arriva nel finale, dopo aver sparso falsi indizi
lungo il cammino. Nel merito, Canuto non si rende conto, se non dopo decenni,
delle conseguenze della sua azione; dall’altro, abbiamo una sorta di miracolo,
quello dell’eterna giovinezza, ottenuto da un delirio mai superato. È un
capovolgimento nel capovolgimento: non vale la pena scoprire il segreto con cui
Ilaria ha fermato il tempo, perché la sua è un’eterna giovinezza che significa
eterno dolore.
Lunarie
La lunaria è una pianta che, a livello popolare, ha
diversi nomi, tra cui “soldone del papa” e “viola della notte”. L’undicenne
Marcello aveva un compito: portare un ramo di lunaria alla madre, ma se ne è
dimenticato e, al ritorno in treno, è preoccupato.
A un tratto, nota che una donna velata ha con sé un mazzo
di lunarie: pensa di chiedergliene una, mentre la donna fuma, si mostra agitata
e, infine, getta il mazzo fuori dal finestrino. Marcello ha atteso troppo;
scoppia a piangere, la donna lo nota, ma è giunta la sua fermata e la madre già
lo chiama. La donna non saprà mai che cosa sia successo, forse lo scorderà
entro pochi minuti, ma il lettore rimane sorpreso dallo stile evocativo di
Bontempelli, che non si sa di preciso che cosa stia raccontando oltre l’evidenza,
magari il peso che le nostre azioni hanno sugli altri, anche quando pensiamo
che non li riguardino.
Gallo
Qualcosa di analogo si trova in questo ultimo
racconto breve. Una famiglia riceve in regalo un gallo. La madre, il nonno e
Sandrino ne sono ammirati. La domestica Dolores è contenta di poterlo cucinare
per loro all’indomani, eppure il gallo scompare e lei ha un crollo: «[…] si sentì sola
nel mondo grande, pieno di persone strane, di cose che non si capiscono. Era spaventata
come se avesse veduto le pareti della casa crollare per terremoto. Piangeva come
se le fosse morta al paese tutta la sua famiglia.»
Bontempelli
descrive con acume un classico attacco d’ansia, scaturito da un evento all’apparenza
banale. Il lettore è più propenso a credere che Dolores stia esagerando, ma è
perché lo scrittore non ci ha fornito elementi dettagliati sulla biografia
della donna, come a voler dire che ciò che sembra un’esagerazione e un’assurdità
potrebbe invece avere ragioni profonde che, talvolta, giudichiamo con troppa
sbrigatività.
L’acqua
Si giunge così all’ultimo racconto lungo, o romanzo
breve, suddiviso in otto capitoletti. Madina è nata sotto il segno dell’acqua,
ovvero durante un’inondazione. La madre è morta dandole la vita e lei è finita
a vivere con una famiglia di boscaioli. Si lascia cullare dalla natura, è poco
propensa a lavorare, e adora trascorrere il tempo a un ruscello. Un giorno, conosce
il pittore Grisante, che le spiega che cosa sia la pittura, ma tra i due nasce
uno screzio e Madina fugge con la tavolozza e i colori.
Raggiunti i quindici anni, diviene domestica nella
casa dei Viètina, ma quella condizione è per lei più simile a una schiavitù: «L’acqua va libera
e allegra, quando vuole scavalca gli argini e corre gridando sopra la terra. Madina
nella casa dei Viètina è schiava e triste come acqua in un secchio.»
La
prima cameriera Aglae non la aiuta e cerca di formarla alla disciplina, mentre
il rampollo di casa, Alberico, la seduce senza successo. Alla casa si presenta
Grisante e Madina, intimorita, fugge dalla residenza.
I due uomini avviano una contesa assurda: ritengono
Madina la loro fidanzata, Grisante per averle dato uno schiaffo nella foresta, Alberico
per averlo ricevuto. Nel frattempo, la giovane incontra Ursa, che sembra
volerla aiutare. Osservano il cielo stellato, che Madina non aveva mai visto (la
foresta in cui era cresciuta doveva essere molto fitta!) e le vengono le
vertigini, come se, immedesimandosi nella volta celeste, si sentisse precipitare.
All’indomani, Ursa la accompagna in un’abitazione e le
dice che è la sua nuova casa. Il proprietario, soprannominato Conte, la
accompagna in pasticceria, dove incontrano Alberico e Grisante. Il mondo è
piccolo ed esplode la rivalità degli uomini per possedere Madina. Di sera, lei
e il Conte vanno a teatro, ma ancora una volta Madina è sopraffatta: «Non hai visto,
là, quel vuoto, quell’altro mondo, ci verrà addosso, ho paura.» In un gioco delle
parti, Madina confonde la scena teatrale con quella “altra”, la vita vera, che
appare talvolta tanto simile a una messinscena.
Il Conte organizza una festa a casa; si gioca d’azzardo,
al baccarà. Come al solito, Madina si sente estranea a quel contesto, tra
persone civilizzate, per così dire, che usano modi tanto innaturali quanto falsi.
La donna passa da una conversazione all’altra, registra tutto mentalmente e alla
fine ripete le maldicenze che aveva udito, scatenando un trambusto. Grisante la
porta via, ma non è una fuga d’amore: il conducente del carro su cui si trovano
è diretto a una cascata e Madina si illumina, abbandonando il pittore.
Lì Madina incontra dei giovani che ballano al suono
della fisarmonica. L’atmosfera è da figli dei fiori, ma mi ha ricordato anche
la scena al fiume nel film Pane e cioccolata (1973), con i giovani
svizzeri che somigliano ad antiche divinità: «Lei [la cascata] ci tiene uniti,
lei ci protegge e dà l’allegrezza. Qualche volta arrivano viaggiatori per
vederla, ma noi speriamo che non diventino troppi.»
Ciascuno di loro ha un soprannome legato all’elemento
e a Madina viene attribuito proprio il nome di Acqua, con un rifiuto che è già
un’affermazione di sé: «Io
non cambio, io sono Madina.»
Nel
penultimo capitoletto, il gruppo ripara in una capanna durante un temporale e
qui si trova una descrizione del ciclo naturale dell’acqua tra il tono scientifico
e quello poetico. Sopraggiunge la notte – e abbiamo ormai compreso la valenza
che ha per i personaggi di Bontempelli – e Madina divide il letto con il
giovane Lario e con un marinaio, nell’intento di placare un loro litigio. Nella
notte, però, i due tentano invano di baciarla e quindi lei approfitta delle prime
luci dell’alba per andarsene.
Che fare, ora? Madina incontra un uomo a cavallo, che la accompagna al villaggio, non senza aver tentato di sedurla. Madina valuta la situazione fuori da casa; riflette sugli uomini che l’hanno desiderata e verso i quali non prova attrazione. I tempi sono maturi. Torna al ruscello della sua infanzia, si spoglia e si immerge: «l’acqua che è sempre quella e non è mai la stessa, come qualcuno le ha insegnato.» È quasi sempre prevedibile, ma mai monotona. Si legge così un elogio dell’elemento, in un flusso vitalistico che si mescola al tema del ritorno a casa, in quella natura in cui sua madre le aveva dato la vita. È allora che la metamorfosi classica può avere luogo, non per una fuga precipitosa da una divinità senza scrupoli, ma per una scelta deliberata: «Madina non sente più il tremolio del rio all’orecchio, sente sé vibrare insieme con tutte le infinite gocce che fanno la fluida forma dell’acqua, la forma sua: ella e l’acqua sono un solo murmure e scintillio lungo che scende. […] Neppure il nome di Madina c’è più, è uno dei mille mormorii di questo canto che corre in gioia giù per le svolte della pendice, incontra la luce aperta del sole sul verde, taglia il bel prato, vola sulla roccia, di colpo affronta il salto e precipita sotto tra lampi d’argento, si frange e spumeggia nel deserto piano laggiù, dove una donna era morta dando alla luce Madina.»
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