Il Lucifero contemporaneo di Ethel Mannin
La copertina di Agenzia Alcatraz nell'edizione del 2021 |
Jenny Flower è una bambina nata nel giorno
di Halloween del 1924, che vive in una grigia casa londinese degli anni Trenta.
In un’escursione domenicale in una foresta, incontra una figura oscura, uno
straniero che la affascina con le sue corna da diavolo. Negli anni, l’uomo le
rivela i segreti del mondo naturale, mentre la vecchia Ma’ Beadle, che ha nomea
di strega, la avvicina al soprannaturale, che «è semplicemente il naturale con
qualcosa in più», come viene detto con ironia in un dialogo.
Jenny si convince che l’uomo sia Lucifero
e che la vecchia abbia reali poteri magici. Con il tempo, la convinzione
diviene fede, ma il lettore non abbandona mai la sensazione che forse, per
quella bambina cresciuta in un contesto sociale svantaggiato, quella grande
illusione rappresenti una fuga. Nella seconda parte del libro, ciò emerge
apertamente: «Strofinare i pavimenti, lavare i panni, aspettare il proprio
turno in puzzolenti botteghe di pesce fritto […] tutto questo era banale, non
era un’esperienza rilevante. Ciò che contava era la liberazione dello spirito
in mondi invisibili […]. A quel punto veniva a conoscenza del significato del
Potere Assoluto, e poi, essendo diventata tutt’uno con il potere del Principe
delle Tenebre, si sentiva uguale a Dio.»
Ethel Mannin è stata una scrittrice
prolifica ed eclettica, morta nel 1984, che ci ha lasciato scritti
giornalistici, autobiografici, di narrativa. Fu una socialista militante, ma
nel tempo prese le distanze da quella “sinistra borghese” che parlava di un
proletariato che aveva visto soltanto tra le pagine dei testi universitari. E
così Mannin continuò a esplorare i temi sociali della sua epoca in una forma
molto libera, non disdegnando nemmeno i confronti con il mondo religioso. Per
certi versi, Lucifer and the Child (1945) appartiene a questo filone
della sua narrativa, un libro il cui contenuto sensibile spinse la Censorship
of Publications Board, in Irlanda, a bandire il romanzo.
La maestria della scrittrice si esplica in
un gioco sottile di allusioni: non si capisce mai, per davvero, se lo
sconosciuto sia Lucifero o un uomo qualunque, benché tenebroso. Ai fini del messaggio
del romanzo non è però importante sciogliere questo nodo, come specifica Mannin
in una nota finale. L’elemento soprannaturale è vero nella misura in cui
influenza l’agire concreto delle persone. Esso però viene letto attraverso la
lente di una critica sociale che prevale sull’elemento magico. Il narratore
racconta che, forse, Jenny discende da Margaret e Philippa Flower, arse sul
rogo in quanto streghe nel 1618. Mannin però si interroga se Jenny si avvicini
all’occultismo perché erede di un certo destino familiare, oppure perché si
identifica in quella storia e la fa propria. È una differenza non da poco,
quella che intercorre tra il libero arbitrio e il fato.
A volte lo sconosciuto si mostra con le
corna, altre volte no. Questi però sono giochi con il lettore. Ben più
pregnanti sono i rapporti umani di Jenny con i suoi familiari e con
l’insegnante Marian Drew.
La madre biologica, Nell, la affida al
fratello Joe e alla cognata Ivy. Jenny pensa che Nell sia sua zia: la adora per
la sua libertà e indipendenza, per la sua contrapposizione a una madre che
invece la opprime e tenta in ogni modo di irregimentarla nel buoncostume
dell’epoca.
Ivy è una donna timorata di Dio, che ha a
cuore il senso della dignità, al di là dell’estrazione sociale della persona,
ma più volte questo concetto sfocia in un eccessivo interesse per il giudizio
altrui. Non si accorge che Jenny è diversa, che avrebbe bisogno di attenzioni
differenti e che le andrebbe concessa una maggiore libertà d’azione.
Dopotutto Jenny è una giovane più matura
della sua età anagrafica, con interessi molto diversi rispetto ai coetanei. È
una mente intuitiva: «Non aveva bisogno di capire. Possedeva una naturale
affinità con ciò che è strano, con le cose che gli altri trovavano malvagie,
velenose, repellenti; era la conoscenza ancora inconscia di qualcosa al di
fuori della banalità della vita quotidiana.» Per esempio, a Jenny non
interessano i ragazzi e l’intera sfera sessuale appare sempre molto distante da
lei, anche quando è cresciuta e scopre qualcosa di più sull’uomo che identifica
come Lucifero: «Lo adorava fisicamente, provava per lui un amore appassionato,
ma asessuato». L’unica sensualità che emerge ruota intorno alla figura dello
sconosciuto e coinvolge anche Nell e Marian.
Nell dà mostra di quella che all’epoca si
poteva definire una sessualità sfacciata, ma il suo legame con l’uomo resta
perlopiù tra le righe, almeno fino al finale. Marian, invece, è più pudica, ma
la sua attrazione per lui presenta una forte carica erotica.
Mannin però non è una manichea, non
distingue tra bene e male, né tantomeno si accontenta di far aderire i suoi
personaggi a uno stereotipo, per cui sottolinea che Jenny discendeva forse da due
donne bruciate sul rogo per stregoneria, ma che poteva anche essere l’erede di
coloro che accendevano le pire. In un altro capitolo, scrive di Marian, specificando
come sia figlia di un parroco di campagna, un dato che – sottolinea – non
dovrebbe trarre in inganno, perché la donna non viveva un’esistenza domestica pia
e convenzionale, ma era animata da contraddizioni e da idee progressiste, come la
necessità di introdurre un controllo delle nascite e l’educazione sessuale per
le classi meno abbienti.
Ecco che il femminismo si relaziona con il
discorso di classe. Viceversa, Mannin descrive alcune femministe che si
dedicano all’educazione dei giovani, ma che guardano alle donne della classe
operaia come se queste vivessero in maniera infantile e ignara: «A queste
assistenti sociali non era mai venuto in mente che di fatto trattavano con
sufficienza le stesse persone che professavano di rispettare e ammirare, e che
i loro toni gioviali non erano altro che paternalismo, dal momento che non si
sarebbero sognate di comportarsi allo stesso modo con gente della loro stessa
classe.»
Allora Marian, che doveva invece
rappresentare un modello di irreprensibilità familiare, esce dagli schemi
dell’epoca, con una vena eretica, e si distingue per originalità.
Per esempio, contro il pensiero pedagogico
dominante dell’epoca, secondo cui alcuni bambini possedessero una cattiveria
innata, Marian ritiene che la responsabilità della condotta antisociale dei
giovani spetti ai genitori: «L’amore era l’unico modo per reindirizzare la
cattiveria e la distruttività di un bambino verso la bontà e la creatività […].
Eliminando la punizione morale o fisica si eliminava anche la paura, e di
conseguenza l’odio avrebbe lasciato spazio a un amore libero, naturale e
spontaneo.»
Mannin è abile a mescolare i temi sociali,
talvolta espressi in maniera quasi didascalica, con il fascino dell’ignoto,
alimentato dalle leggende e dalle descrizioni a tratti poetiche della natura.
In un contesto narrativo connotato da elementi di forte realismo, introduce un
senso di sospensione che non è solo proprio del mondo infantile, ma di tutti
coloro che si lasciano ancora affascinare da un’ipotesi assurda o da un
racconto di viaggio in una terra lontana.
Lo stesso finale, ambientato nella seconda guerra mondiale, durante uno dei bombardamenti nazisti sulle città britanniche, attua questa corrispondenza tra dato storico e fantasia. Lo strazio, il sangue e le fiamme di Londra si presentano come un inferno in terra in cui l’etica, la moralità e la fede precipitano senza possibilità di redenzione. Ma nel finale ho anche percepito qualcosa di diverso. Ho avuto la sensazione che, con l’ingresso prepotente della grande Storia nelle vite umane, svanisse la magia. La morte, quella vera, irrevocabile, non ha niente a che vedere con i sinistri rituali di evocazione. È solo oscurità, l’ignoto che ci lascia con una schiera di cadaveri anonimi, che sono quello che sono: la fine dell’incanto.
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