Egittomania e femminismo insieme a Bram Stoker

 

Copertina di The Jewel of Seven Stars di Bram Stoker,
nell'edizione del 2022 di ABEditore


Nel 1882, gli inglesi occuparono l’Egitto, esercitando un’influenza sul Paese e subendola a loro volta. In epoca vittoriana, e poi edoardiana, crebbe il fascino degli europei per questa terra, a seguito di scoperte archeologiche come la Stele di Rosetta e di un vasto commercio di manufatti. Era esplosa l’egittomania, con oggetti richiesti dai collezionisti e dai musei, talvolta persino donati dalle autorità egiziane, come nel caso dei due obelischi noti come Ago di Cleopatra, offerti al Regno Unito e agli Stati Uniti.

Le mostre e gli studi archeologici alimentarono la letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento, dal racconto Some Words with a Mummy (1845) di Edgar Allan Poe, attraverso i racconti Lost in a Pyramid; or, The Mummy’s Curse (1869) di Louisa May Alcott e Lot No. 249 (1892) e The Ring of Toth (1894) di Arthur Conan Doyle, fino al più tardo Imprisoned with the Pharaohs (1924) di H. P. Lovecraft.

L’accademico britannico Roger Luckhurst ha parlato di gotico egizio per quell’«insieme di credenze o conoscenze in una struttura vagamente occulta», che si sviluppa intorno al tema della maledizione della mummia e dei manufatti trafugati (e anch’essi maledetti).

 

In particolare, vi era enfasi riguardo alle mummie femminili, in ottimo stato di conservazione, che accrebbero la fantasia degli scrittori in merito a una bellezza intramontabile. Un esempio fu la mummia della regina Hatshepsut, che governò dal 1479 a.C. al 1458 a.C.: fu una delle prime donne governanti; sposò il fratellastro Tuthmose II, ma, anziché fare da reggente al loro figlio ancora bambino, si dichiarò sovrana. A livello iconografico, trasformò la sua raffigurazione in chiave maschile (spalle larghe, fianchi snelli, niente seno), ma un ventennio dopo la sua morte, la sua immagine subì la damnatio memoriae e venne rimossa dai templi e dai documenti.

La tomba della regina venne scoperta all’inizio del 1903, nella Valle dei Re, da Howard Carter: in quello stesso anno, lo scrittore irlandese Bram Stoker, celebre autore di Dracula (1897), pubblicò The Jewel of Seven Stars, romanzo dell’orrore uscito per Heinemann. Il libro è edito in Italia da ABEditore, in un’edizione del 2022 dall’ottima veste grafica interna, con una copertina ricca di simboli, una postfazione di Elisa Frassinelli e la proposizione dei due finali alternativi, che Stoker scrisse rispettivamente nel 1903 e nel 1912.

 

Stoker e Wilde

 

L'egittologo Gaston Maspero toglie le bende a una mummia a Il Cairo, nel 1886

Non è certo se la scoperta di Carter abbia influenzato il personaggio immaginario della regina Tera, mummia intorno alla quale si costruisce la vicenda, ma vi sono alcune somiglianze: «In quel passaggio era esposto chiaramente che l’odio dei sacerdoti fosse, lo sapeva [Tera], in serbo per lei e che, dopo la sua morte, avrebbero cercato d’occultare il suo nome. Debbo specificare che si trattava d’una vendetta terribile nella mitologia egizia, dato che senza un nome nessuno poteva essere presentato agli Dèi dopo la morte, o avere qualcuno che pregasse per lui.»

Certo Stoker aveva una discreta conoscenza dell’antico Egitto: nella sua libreria, si trovavano testi come Narratives of a Voyage to Madeira di William Wilde, Easy Lessons in Egyptian Hieroglyphics di Wallis Budge, Egyptian Religion: Egyptian Ideas on the Future Life e Egyptian Tales Translated from the Papyri di Flinders Petrie.

 

Forse non sarà sfuggito al lettore attento il primo autore che ho citato. Stoker studiò al Trinity College di Dublino, che prevedeva un notevole programma di orientalismo, e fu amico di Sir William Wilde, padre di Oscar, un appassionato di egittologia con cui condivideva storie sul tema. Nel 1837, Wilde scoprì una mummia fuori da una tomba vicino a Saqqara e la portò a Dublino: racconti di prima mano come questo potrebbero trovare eco nella scoperta e nel trasporto del sarcofago di Tera.

Inoltre, Stoker fu amico dell’esploratore e orientalista Sir Richard Francis Burton, che scrisse resoconti di viaggio in Medio Oriente e in Africa, di cui lo scrittore fu a conoscenza.

 

Il romanzo di Stoker si inserisce in un altro sottogenere, il gotico imperiale, espressione dell’ansia britannica per il declino dell’Impero. In esso si combinano morte, sessualità e occultismo, in un più ampio discorso sulla percezione di un’invasione della civiltà da parte di forze demoniache e sull’idea che, nel mondo moderno, vi siano sempre meno occasioni d’avventura e d’eroismo.

Stoker era affascinato dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, ma nei suoi scritti esponeva anche la sensazione di essere in balìa di forze primitive. Non solo, nel capitolo sedicesimo, dal titolo Poteri vecchi e nuovi, si paventava l’ipotesi che la società egizia fosse più evoluta di quella britannica, allora considerata culmine della civiltà mondiale: «Rammentate anche che gli egizi conoscevano scienze delle quali oggi, nonostante tutte le agevolazioni che abbiamo, siamo profondamente ignoranti. […] alla luce di scoperte recenti emergeranno nuovi stadi dell’antica saggezza che forniranno le basi per nuovi ragionamenti. […] Anno dopo anno, giorno dopo giorno, ora dopo ora, apprendiamo; ma la conclusione è lontanissima. A mio giudizio ci troviamo adesso in quella fase del progresso intellettuale in cui avviene l’invenzione del prototipo d’una macchina che permette di fare delle scoperte. […] Allora, forse, raggiungeremo la perfezione dei mezzi, ciò che gli studiosi del Nilo antico hanno ottenuto al tempo in cui Matusalemme ha iniziato a vantarsi della sua età […].»

Non a caso, il capitolo venne eliminato nella seconda versione del romanzo e il finale venne cambiato: la possibilità che Tera potesse resuscitare tramite forze occulte scardinava le convinzioni del monoteismo cristiano e generava apprensione per l’incapacità di prevedere le conseguenze del suo potere.

 

Arte del collage

 

Scultura conservata a Leida, raffigurante Hatshepsut,
spogliata di alcuni elementi distintivi dei sovrani egizi

Di che cosa parla dunque The Jewel of Seven Stars? Di un archeologo, Abel Trewlany, che aspira a far rivivere la regina Tera, da lui trovata in un sarcofago. La vicenda è narrata in prima persona dal giovane avvocato Malcolm Ross, convocato nella notte a casa dell’egittologo, su richiesta della figlia di Abel, Margaret, di cui è innamorato.

Abel è in stato di trance e, in una lettera, chiede di non essere spostato dall’abitazione. Un gruppo di conoscenti veglia quindi a turno sul corpo, in una stanza piena di manufatti antichi, tra cui risalta il forte odore di una mummia, che ha uno strano effetto sui presenti. Il gatto di Margaret, Silvio, lancia un segnale inascoltato, quando si scaglia contro la mummia del gatto di Tera. Durante le notti di veglia, accadono strani eventi. Viene chiamato il dottor James Frere, specialista del cervello, ma non può nulla di fronte all’impossibilità di spostare il paziente.

 

Giunge poi Eugene Corbeck, egittologo che porta alcune lampade antiche richieste da Abel. Egli racconta delle sue avventure nella Valle dello Stregone, dove trovarono la tomba della regina e dove morirono diverse guide arabe.

L’uomo consegna a Malcolm un libro particolare: il racconto di viaggio di Nicholas van Huyn, un esploratore olandese che aveva esplorato la stessa terra. Emergono dati affascinanti, come le sette dita che compongono una mano di Tera e l’anello di rubino a sette punte, che sembrano stelle, a cui fa riferimento il titolo: «Il libro era uno di quelli che, già all’apparenza, richiedeva un’attenzione particolare. Era un volume in formato in-folio in olandese, stampato ad Amsterdam nel 1650. Qualcuno ne aveva fatto una traduzione letterale, perlopiù scrivendo la parola inglese sotto a quella olandese, cosicché le differenze grammaticali tra le due lingue rendessero persino la lettura della traduzione una faccenda complicata. […] Appena iniziai la lettura, tuttavia, si fece strada dentro di me un’impressione, come d’un’inquietante influenza. Una volta o due guardai se l’infermiera si fosse mossa, poiché avevo la sensazione che ci fosse qualcuno vicino a me.»

 

Dopo una serie di ulteriori misteri e sottotrame, che vale la pena leggere, prende vita il “Grande Esperimento”, ovvero il tentativo di resuscitare Tera. Il gruppo si sposta in una casa isolata a Kyllion, in Cornovaglia, e si ritira in una grotta sotterranea, mentre all’esterno cresce la tempesta.

Gli elementi gotici ci sono tutti e l’esperimento ha inizio, tra vapori verdi e fumo nero, una stanza immersa nelle tenebre e un finale che lascia col fiato sospeso. Perlomeno, nella prima edizione, quella più cupa, sinistra e amara. La rivisitazione del 1912 è all’apparenza più felice; suona come un “ritorno all’ordine”, ma – al contempo – potrebbe essere soltanto una sadica illusione proposta da Stoker, con lo spettro insolubile che aleggia intorno alla vera identità di Margaret dopo l’esperimento.

 

Il critico Colin Fleming ha parlato dell’“arte del collage” in riferimento alla scrittura di Stoker: sussiste una varietà di fonti, che concorre alla composizione di un testo unitario, come è evidente nella forma epistolare di Dracula. Così in questo romanzo, la storia raccontata da Malcolm è integrata dai lunghi brani tratti dal libro di van Huyn e dal racconto appassionato di Corbeck.

Sì, ci sono descrizioni sovrabbondanti, dialoghi superflui e sottotrame più lunghe del dovuto, persino per un romanzo tardovittoriano o protoedoardiano. E sì, fino a circa un terzo del libro, non accade nulla di davvero rilevante. Eppure, il corpus centrale con le voci alternative è un viaggio a ritroso nel tempo, che consente di uscire dal salotto borghese per sporcarsi le mani nel deserto, mentre l’ultima parte del libro tira i fili della trama, introduce elementi inattesi, confondendo il lettore, e lo trascina in un finale ambiguo, in entrambi i casi.

 

Nel dibattito femminista

 

Copertina della prima edizione


Uno dei punti forti del romanzo consiste nella riflessione sul tema della New Woman, in voga alla fine del XIX secolo, parte della cosiddetta “prima ondata femminista”.

Il narratore principale, Malcolm, è un uomo gentile, di buone maniere, ben inserito nel contesto sociale medio-borghese, di cui segue i dettami. Chiede a Abel il consenso per sposare Margaret e segue un codice di decoro, che include anche un forte senso di protezione nei confronti della donna.

Margaret viene raccontata da Malcolm, che pure mostra di aver colto il cambiamento che avviene in lei, da donna riservata e dolce (ma forse era la prospettiva in cui il giovane l’aveva inquadrata?) a individuo indipendente, sempre più simile alla regina Tera: «Ricordate anche che questa donna [Tera] era abile in tutte le scienze del suo tempo. Il suo saggio e avveduto padre se n’era assicurato, sapendo che, alla fine, avrebbe dovuto fronteggiare gli intrighi della Gerarchia con la sua sola saggezza.»

Di fronte all’ostinazione di Abel, che più che uno scienziato pazzo è un ricercatore spregiudicato, è Margaret a porre dei limiti: «Il sesso non è una questione di anni! Una donna è una donna, anche se fosse morta da cinquemila secoli!»

Il corpo della mummia, sbendato lentamente, viene sessualizzato dagli uomini presenti e – secondo la critica Kate Hebblethwaite – quello sguardo voyeurista sul corpo nudo è un modo per ritrovare il controllo sulla donna. È infatti Margaret a coprirlo e a permettere la prosecuzione dell’esperimento.

 

I due finali offrono diverse soluzioni al tema della Nuova Donna, una figura femminile della classe media che cercava libertà sociale e sessuale, sfidando i ruoli di genere. Nell’edizione del 1903, le catene vengono spezzate e la donna si libera: non a caso questo finale turbò il pubblico, anche perché affrontava a viso aperto l’avvento della nuova femminilità, in qualche modo normalizzandola.

Nell’edizione del 1912, invece, la conclusione indicherebbe – secondo il critico Andrew Smith – che tale femminilità potrebbe essere controllata attraverso il matrimonio. Così, d’altra parte, avviene in Dracula, con la Nuova Donna rappresentata dalle vampire, che sono però tutte mogli del conte, contrapposte comunque alla casta eroina Mina Murray.

In The Jewel of Seven Stars, il discorso sul rapporto tra potere maschile e libertà femminile è più bilanciato, aspetto che però non diminuì le critiche da parte di un pubblico maschile confuso, che poteva identificarsi nel disorientamento di Malcolm rispetto all’empowerment di Margaret.

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