La torre di Bae Myung-hoon
Copertina di Lucrezia Viperina per ADD Editore, nell'edizione del 2022 |
Bae Myung-Hoon, classe 1978, è uno degli
scrittori di fantascienza più famosi della Corea del Sud, con molteplici romanzi
e raccolte di racconti all’attivo. La torre è un’opera risalente al
2009, edita in Italia da ADD nel 2022, con la traduzione di Lia Iovenitti.
Il libro appartiene a quel filone
narrativo ambientato in poderosi edifici-mondo, che trova dei precursori in The World Inside (1971) di Robert Silverberg e in High-Rise (1975) di J. G.
Ballard. Come in quest’ultimo caso, siamo di fronte a un romanzo sociale,
benché il libro di Myung-hoon sia una raccolta di racconti con un’ambientazione
condivisa e alcuni collegamenti minori. Nella sua torre, denominata Beanstalk,
si trovano quelle atmosfere a cui ci siamo abituati, solo di recente, con serie
tv come Squid Game e film come Parasite e Everything Everywhere
All at Once (che però è una storia di cinesi immigrati e non di coreani). Vi
è infatti un elemento sociale forte, un’attenzione per le relazioni umane all’interno
di spazi chiusi e sovrappopolati, in cui a regnare è il caos o la burocrazia,
che sarebbe a dire la stessa cosa.
In tal senso, è uno sviluppo kafkiano del
discorso, non privo di alcuni connotati espressionistici e grotteschi della
scrittura di Kafka, in nome di una tragica ironia futurista, in cui l’essere
umano è ridotto sempre più a nullità: nemmeno più un ingranaggio di una Grande
Macchina sistemica, ma da essa escluso.
Molti lo definiscono un libro
anticapitalista, ma non credo lo sia: è certo critico sulle storture del
tardocapitalismo, incentrandosi sulla disuguaglianza sociale, l’impiego
indiscriminato della forza da parte della polizia o dell’esercito, il conflitto
che pare inesauribile tra classi, in questo caso riunite intorno alle categorie
degli orizzontalisti e dei verticalisti. Eppure, la conclusione del lungo
racconto Perfettamente conforme, con i critici del “modello” della torre
che fanno un passo indietro, mostra come sia sbagliato parlare di un generico “sistema”
da combattere, perché l’espressione non tiene conto del valore dei singoli
individui e della loro irriducibile umanità.
La scrittura di Myung-hoon si può definire
analitica, antibarocca e minimalista, a tratti quasi respingente, quanto
potrebbe esserlo un’indagine di mercato. Tuttavia, il suo stile trova forza proprio
in questo.
L’epifania dei tre ricercatori (con
e senza cane)
ha un approccio quasi antropologico, da case study, che potrebbe
respingere un lettore superficiale: si seguono le tracce di alcune bottiglie di
whisky pregiato all’interno dell’edificio, strumento di corruzione e indicatore
indiretto dei rapporti politici e clientelari tra residenti.
I ricercatori dell’Istituto Beanstalk per
la Ricerca sui Poteri Invisibili scoprono però una verità allucinante su chi si
trovi al vertice del potere: la rivelazione del piano 487 è paradossale, degna
di un racconto alla Bontempelli o alla Borges.
Prima di giungere alle conclusioni, però,
non mancano stoccate satiriche allo sfruttamento dei tirocinanti, ai rapporti di
amicizia che influenzano il lavoro accademico, al peso dello star system
politicizzato: «Quanto al Professore, reclutati tre nuovi ricercatori esterni
sulla trentina, continuò a starsene immerso fino al collo nel suo consueto
lavoro. In pratica a fare nulla, o quasi.» E ancora: «Viviamo in un
mondo in cui un’immagine da sola conta più dei dati scientifici.»
Collego al racconto l’appendice Intervista
assurda con l’attore P, assurda in quanto P è un cane che, per comunicare,
è costretto a far parlare la sua manager umana. Vi ho intravisto una satira del
politicamente corretto quando, alla domanda se fosse rimasto deluso per non
aver vinto premi nelle categorie competitive, il cane fa rispondere che il Premio
Speciale, da lui ricevuto in luogo del Premio come miglior attore protagonista,
significhi che «non si possono adottare gli stessi parametri per attori umani e
non-umani.»
Il tutto, ovviamente, suona come una farsa
e le risposte di P si collocano sempre su una linea sottile tra la serietà, l’arroganza
e la presa in giro dell’interlocutore. Un esempio è la critica di P sul “bigottismo”
di coloro che non accettano le relazioni tra uomini e cani, facendo un «collegamento
immediato con la depravazione» di Sodoma e Gomorra. Si può dire che P,
la sua interprete e il mondo dello spettacolo, che li sostiene, abbiano davvero
fregato il “sistema”: «Per concludere, c’è qualcosa che vuole dire ai nostri
lettori?» E la risposta: «Arf! Arf!» Gli slogan funzionano sempre
sul buonsenso.
La seconda storia è Ode alla natura,
il testo che mi ha convinto di meno. Lo scrittore K, un autore critico delle
autorità, comincia a scrivere sulla bellezza della natura, un tema inusuale nella
torre, ma a cui si obbliga per autocensura, per non dispiacere al potere, ma
anche perché disilluso: «E ora la vecchia generazione sono io. Se dopo vent’anni
il mondo fa schifo come prima, non ho più diritto di criticare gli altri. È colpa
mia. Sono io che ho sbagliato. Se il mondo non è un bel posto, non ci sono
altri responsabili se non me stesso.»
Nell’appendice Estratto da “Il
pomeriggio del Dio Orso” di K scopriamo di più sulla sua svolta contenutistica.
A dire il vero, il racconto della vita di un orso artico, la cui coscienza è
iper-umanizzata, è abbastanza banale (ma attenzione, si potrebbe dire che siano
le parole di K, non di Myung-hoon!) e l’ascesi del finale sembra più la
riproduzione di un luogo comune, letto da K in qualche libro, più che un’esperienza
di cui è partecipe.
Il tema ritorna peraltro nel racconto Il
Buddha in piazza, dove l’ascesi è incomunicabile, se non proprio
fallimentare. Un segno, per K, che dimostra come sia impossibile scrivere di
qualità contro il proprio sentire: «Intanto, è disonesto, no? In fin dei conti
si scrive ciò che si è visto da qualche parte. Non a caso manca di incisività. Non
ti pare?»
Mancata consegna nel Taklamakan entra nei
dettagli delle regole e delle leggi a cui sono sottoposti i cittadini di
Beanstalk e gli stranieri.
È un racconto che mostra anche come vi sia
un senso di comunità tra quegli strani abitanti, sebbene in negativo: da un
lato l’ex fidanzata di un pilota disperso tenta di avviare una missione di
salvataggio tramite crowdsourcing (con buoni risultati), dall’altro i
militari sono restii a sprecare risorse per un caso disperato. Un intrigo
internazionale in cui nessuno ha davvero voglia di trovare una soluzione.
Le esercitazioni degli ascensori – il mio racconto
preferito per il legame con l’attualità – approfondisce il tema dei rapporti
umani nella Beanstalk. Qui compaiono le due macrocategorie dei verticalisti e
degli orizzontalisti: i primi ruotano intorno alla Cooperativa Trasporti
Verticali e rappresentano la classe più benestante; i secondi si riferiscono al
Sindacato Lavoratori Trasporti Orizzontali, che si occupa delle comunicazioni
in larghezza e rappresenta la classe lavoratrice.
Come denuncia in apertura il narratore, si
tratta perlopiù di una polarizzazione voluta da coloro che «ti devono per forza
incasellare e ti spingono a dire da che parte stai». Dopotutto, sono
categorie sterili, a cui i giovani aderiscono senza conoscerne la storia: «[…] e
hanno un concetto che i verticalisti siano tutti ricchi, e gli orizzontalisti
tutti poveri. Fosse così semplice! Voglio dire, la vita non si riduce a
scegliere tra orizzontale e verticale.»
Le due fazioni non ammettono zone grigie e
chi non si adegua viene escluso: «La gente stava diventando sempre più
estremista, e classificava tutto in due categorie precise […]. La linea di
confine non mi sembrava tanto netta. […] Ma alla fine i verticalisti misero al
bando il suo libro. E gli orizzontalisti non mi fecero più entrare alle loro
conferenze.»
Il Buddha in piazza è strutturato
come uno scambio epistolare tra due cognati, uomo e donna. Il primo ha trovato
lavoro nella torre, provenendo da fuori, e usa un tono accomodante verso la
cognata che lo critica con un forte sarcasmo, sminuendolo. Egli lavora con le
forze di sicurezza e si occupa in particolare di un elefante indiano, Amitabh (nome
preso in prestito dalla superstar del cinema indiana Amitabh Bachchan), che i
superiori vorrebbero utilizzare contro le folle di manifestanti. Il carattere
dell’uomo è pacifico; è uno di quegli individui che non si innervosiscono mai,
eppure non ho potuto non pensare che le sue lettere fossero anche un’autocensura:
egli, dopotutto, dice di non trovare sicure le chiamate. La cognata, nei suoi
toni fastidiosi, è invece molto diretta: non ha nulla da perdere stando fuori
dalla torre e dunque la manipolazione del potere non ha presa su di lei. Così,
laddove lui sminuisce il suo lavoro di controllo e l’uso dell’elefante come deterrente
per le proteste, lei lo sprona con durezza – forse per il suo bene? – a far
ritorno a casa.
Che significato attribuire poi al tema
dell’illuminazione dell’animale, che attraversa le ultime pagine? Prima di essere
chiuso nel labirinto della Beanstalk, l’elefante viveva con dei monaci
buddhisti e in qualche modo ne ha acquisito l’aura, tanto che l’uomo lo
considera un’incarnazione del Buddha stesso. L’indole pacifica dell’animale, e
forse persino la sua possibilità di raggiungere il nirvana, va però incontro al
fallimento, perché la torre è l’emblema dell’innaturalità, una struttura
artificiale che seda sul nascere ogni esplosione di coscienza.
L’appendice Café Beans Talking
contribuisce a far comprendere le dinamiche di potere nella torre. Vi si trova
un’ottima considerazione sulla riduzione del numero di parlamentari, un tema politico
che è stato anche italiano. I verticalisti tentano di ridurre il numero di
seggi, perché «più si allarga la platea di voti necessari per eleggere un
parlamentare, più aumenta l’influenza dei media.» La frammentazione dei
punti di vista è più vantaggiosa rispetto a una specifica direttiva circolata
con il passaparola.
Il racconto mostra, con un caso
particolare, come un luogo di ritrovo spontaneo, il Café Beans Talking,
favorisca lo scambio di opinioni politiche e la socialità, che si traduce poi
in voti condivisi. Il caffè però viene portato alla chiusura da una strategia
elettorale che mira a rimpiazzare i contatti personali con i mezzi di
comunicazione di massa, più semplici da influenzare dall’alto.
Perfettamente conforme è un thriller spionistico,
che mette al centro il conflitto tra Beanstalk e i Paesi limitrofi, in
particolare Cosmomafia, un’entità statale più simile a un’organizzazione
terroristica, nata dalla dissoluzione dell’Urss. Nel libro si fa riferimento di
continuo all’impiego di missili, ai piani di evacuazione e a una paura
costante, riflesso di una minaccia nordcoreana (e cinese) sempre pronta a
scatenarsi.
La protagonista del racconto, Sehriban, è
un’interprete musulmana residente da sette anni nella torre, con una passione
smodata per le borse d’alta moda, tanto che è spinta a trasformare le persone
in strumenti per ottenere una nuova preziosa borsa, la Balistica: un nome che è
tutto un programma. Nel corso della vicenda, tuttavia, i suoi sentimenti verso
gli altri conoscono un’importante svolta.
Il Glossario costituisce un
racconto a sé, qualcosa a cui Gustave Flaubert ci ha introdotto con l’ironia del
Dizionario dei luoghi comuni. Solo che, oltre alle frasi fatte,
Myung-hoon ci inserisce un guizzo da grande aforista.
Un esempio è il vocabolo “Scemo”: «Individuo
che crea scompiglio sociale non avendo acquisito il minimo indispensabile di
cattiveria comunemente accettata dai cittadini moderni.»
E “Amore” diviene, «nel caso dei più
poveri che non possono permettersi di pagare la bolletta del riscaldamento, la
sensazione di fiducia estrema, affetto, calore, desiderio ecc., che si
trasmette dalla casa accanto attraverso le pareti.»
La torre ha 674 piani e mezzo milione di
abitanti: è simile a una città-Stato con servizi e istituzioni, in cui esiste, in
teoria, un forte potere centrale, che di fatto si frammenta in potentati
locali, causa di faide che sfuggono a ogni controllo. La torre è più un’anarchia
in chiave distopica. Troppo facile paragonarla alla torre di Babele, un
paragone che gli stessi beanstalkiani rifiutano. Dopotutto il tema non è l’incomunicabilità,
né la punizione divina per un eccesso umano: è semmai l’imprevedibilità, che
nasce tanto dall’impiego di nuove tecnologie, quanto dalla cronica incapacità di
relazionarsi in forma pacifica e non prevaricatrice. E poi, come si domanda
Sehriban: «Era questo, il peccato dei beanstalkiani? Aver compreso Dio? Non le
sembrò così grave, però.»
Beanstalk è letteralmente una “Pianta di
Fagioli”: «Il nome della Torre era una citazione letterale da “Jack and the
Beanstalk”, la lunghissima e magica pianta di fagiolo di Jack, e quell’anno
avevano cominciato a montare sul tetto una struttura a forma di gigante.»
Là dentro la paura non è quella dell’altezza,
ma la suolofobia: un modo originale per definire il terrore di trovarsi a
terra, ma anche di immaginarsi al di fuori di quell’edificio-mondo
totalizzante, oltre al quale ci sono i leoni, i nemici, come Cosmomafia.
In parallelo, sembra che ogni evento sia
un gioco. Il dramma degli scontri interni, lo spettro della guerra civile, o la
trasformazione di decine di migliaia di persone in profughi: sono tutte
situazioni che si risolvono in farsa o in qualcosa di surreale, persino quando
qualcuno ci rimette la pelle. È un modo giocoso con cui parlare di cose serie
che mi ha ricordato, per certi versi, la scrittura di Kurt Vonnegut, benché l’assurdità
non sia qui veicolata da un neologismo o dalle situazioni in sé, ma da una
scrittura iperrealista che, a un tratto, sfocia nell’inatteso.
Dà da pensare come in High-Rise, al
contrario, esploda la barbarie per molto meno, una barbarie che è l’elemento
inalienabile della natura umana. Non saprei dire se l’approccio di Myung-hoon
sia diverso perché è cambiata l’epoca storica o se vi sia un fattore culturale a
differenziare i due approcci: come si dice in questi casi, dev’esserci una
concorrenza di fattori, tra cui incidono gli studi di relazioni internazionali
compiuti da Myung-hoon alla Seoul National University.
La torre è un romanzo a
mosaico, un edificio fragile, perché potrebbe scomparire da un momento all’altro
a seguito di un bombardamento, o per un’implosione dovuta a un errore di
progettazione o a una manomissione. Facili i parallelismi con una Corea del Sud
che avverte la perenne minaccia del Nord. Inoltre, Myung-hoon sembra alludere
al chaebol, il caratteristico conglomerato industriale sudcoreano (si
pensi a Samsung e a Hyundai), gestito da un proprietario o da una famiglia, che
ha un ampio potere su una moltitudine di affiliati.
Secondo alcune opinioni riportate nel libro, la torre sarebbe una «cellula cancerogena» e l’erede di Sodoma e Gomorra, pronta a essere annientata per i suoi eccessi, per la sua crescita progressiva: eppure, Perfettamente conforme offre uno spiraglio di luce, che, se non è proprio un’illuminazione, è perlomeno la presa di coscienza di una comunità sui propri demoni. Come dice uno dei personaggi riferendosi alla torre: «Chi non ci ha mai vissuto, che ne vuole sapere…».
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