L'uomo che ride, simbolo di una società di miserabili

 

La mia edizione de L’uomo che ride (1869) di Victor Hugo conta poco meno di seicento pagine, che ho divorato nel corso di due settimane di trasloco, in quella fase in cui l’appartamento si svuotava e i libri finivano in scatoloni.

Ne L’isola del dottor Moreau di H. G. Wells, di cui ho parlato di recente su Instagram e su YouTube, Moreau si riferisce all’opera di Hugo per spiegare la natura dei suoi esperimenti. Questo passaggio si era sedimentato, anni fa, ed è riemerso ad agosto, quando ho notato un certo interesse per l’opera, credo grazie a un gruppo di lettura che mi è sfuggito. Complici gli sconti fuori dal comune di Liberamente (è una casa editrice, una libreria che recupera classici? Mistero! Ma fanno un gran lavoro), ho acquistato l’opera di Hugo, l’ho scelta per istinto da una pila pronta per l’inscatolamento e… ho scelto bene.

 

Avete presente Notre-Dame de Paris? L’analisi storica degli ambienti e dei costumi è ancora più minuziosa; qualcuno – forse annoiato – direbbe persino “pedante”.

Lo scrittore ci racconta con piglio enciclopedico le consuetudini e la storia dell’Inghilterra a cavallo tra Seicento e Settecento, ma – che vi devo dire? – io, quando Hugo parte per la tangente e scrive un saggio di storia dentro al romanzo… be’, lo adoro. È talmente respingente e antimoderno (oggi), che non posso che gioire di quelle opere del passato che ci raccontano ancora come si possa raccontare molto di più attraverso la forma del romanzo e che lo storytelling non è uno standard da apprendere, ma una traccia da personalizzare con il proprio sentire.

 

Bisogna poi considerare che Hugo scrisse il libro in un anno e mezzo, da esiliato, e che aveva qualcosa da rimproverare alla monarchia. L’uomo che ride è anche questo: confronto e scontro tra il parassitismo dei nobili e la condizione degli umili. È una continua messa alla gogna, non del popolano, ma del lord, colui che nel suo titolo altisonante scimmiotta persino il divino.

Eppure, in questa nobiltà c’è chi conosce il popolo e ne vorrebbe tenere conto; aristocratici d’animo nobile che seguirono Cromwell e certe idee repubblicane. Anche questo traspare in Notre-Dame, ma qui è esaltato e reso esplicito in termini politici, laddove nell’opera precedente Hugo si concentrava più sui miglioramenti sociali e giuridici post-rivoluzionari.

 

Da qui finiamo alla trama vera e propria, al racconto dei personaggi. In apertura e in chiusura, il mago, erborista, poeta e filosofo Ursus, accompagnato dal lupo Homo: sintesi – i loro nomi – della massima di Hobbes e anticipazione di quanto leggeremo.

Segue il protagonista, Gwynplaine, “l’uomo che ride” per una deformità inflitta dalla mano dell’uomo, affiancato alla bellissima e cieca Dea. Non è il rapporto tra Quasimodo e Esmeralda, prima di tutto perché Gwynplaine trae il meglio dal suo male e si fa amare dai suoi cari per la sua spontaneità. Certo, il padre adottivo Ursus è un precettore ben diverso da Frollo: un uomo sensibile e sapiente, che proprio per saggezza ha scelto la miseria, la strada non battuta, il ritiro dai drammi della società. Drammi che hanno davvero del ridicolo nella figura di Josiana, affascinata dal volto deforme di Gwynplaine e che aspira a possederlo come un qualsiasi oggetto di una Wunderkammer.

 

Non vi svelo i dettagli della trama. Aggiungo soltanto che Hugo adotta un certo stile teatrale nella sua opera. Non solo nelle farse della Green-Box, il carro su cui si esibisce il protagonista, ma anche nei dialoghi ampollosi alla Camera dei Lord o in quelli patetici e romantici tra Gwynplaine e Dea. Da un lato, la ricostruzione storica dettagliata; dall’altro, l’inverosimiglianza dei dialoghi che strabordano dalla pagina, diventano monologhi fiume, ricchi di sententiae, di citazioni in altre lingue e di sentimentalismi variamente ispirati.

La narrazione di Hugo è come un meccanismo a incastro. Leggi i primi capitoli; poi la storia prosegue con altre voci e altri episodi, all’apparenza sconnessi. Attendi cento, duecento pagine: ancora ti domandi “come” e “perché”. Qualcuno abbandona la lettura; altri saltano di pagina in pagina. Poco importa: chi ha fiducia assorbe tutto. Lo splendido racconto di un naufragio; la terribile storia dei Comprachicos; la seduttività di Josiana, novella De Sade; l’emancipazione e la caduta luciferina, di cui Gwynplaine è l’emblema. Il simbolo, anzi, della società, come scrive lo stesso Hugo: i potenti che ridono per tracotanza e senso di impunità; i miserabili che preferiscono la sudditanza ridanciana alla ribellione. Tutti angeli caduti nell’abisso per incapacità di comunicare, o di ascoltare.

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