L'autolesionismo dell'Occidente
Non avevo un
buon rapporto con i libri di Federico Rampini, ma da qualche anno a questa
parte ho cambiato idea. In Suicidio occidentale (Mondadori, 2022), l’Autore
descrive come l’Occidente si stia annientando aderendo in maniera acritica al
pensiero politicamente corretto, visto come una forma di censura, che passa dall’oblio
sui social al licenziamento di docenti universitari. Alcune opinioni possono
risultare forti se applicate al contesto europeo, ma Rampini scrive dagli Stati
Uniti, dove l’attenzione per i diritti delle minoranze (etniche, sessuali,
etc.) ha raggiunto forme grottesche.
Il politicamente
corretto diventa strumento dell’establishment per cancellare le proprie responsabilità
nei confronti del ceto medio, impoverito crisi dopo crisi. La questione sociale
è scomparsa e, al suo posto, trovano spazio i diritti delle minoranze e l’ambientalismo.
Non si parla più di disuguaglianze economiche e di ingiustizie nell’accesso
alla ricchezza, se non nei periodici report statali che non si traducono mai in
azione concreta di cambiamento.
Rampini entra nel merito di alcuni temi della nostra epoca. Per esempio, lo schiavismo. Oggi, puntare il dito contro “il Bianco” è diventata una pratica comune, che non tiene conto di elementi storici basilari, come il fatto che la schiavitù fosse una pratica condivisa anche da popolazioni come gli Inca, i Maya e gli Aztechi. Ne parlano nel dettaglio anche l’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengrow in una recente pubblicazione, L’alba di tutto (Rizzoli, 2022). Alcuni di questi popoli praticavano il sacrificio umano in tempi storici relativamente recenti. Attraversando l’Atlantico, gli stessi imperi precoloniali erano soliti avere degli schiavi, per non parlare del traffico di esseri umani praticato dagli Arabi, a partire dagli slavi rapiti sulle coste del Mar Nero.
Rampini
conclude: «“Così fan tutti”
non è una scusa, non procura un’assoluzione etica: alla nostra coscienza
moderna ripugna lo schiavismo sia che lo praticassero gli ateniesi o i
persiani, i romani o i saraceni, gli africani o gli aztechi. Condannarlo anche
sui banchi di scuola è sacrosanto; così come è giusto ricordare che dopo la
colonizzazione delle Americhe fece un salto dimensionale, per la vastità della
sua applicazione. Ma è un falso ideologico ciò che s’insegna nelle scuole
medie, nei licei e nelle università dell’America progressista, sulla
specificità dell’Uomo Bianco come supremo artefice dello schiavismo.»
Un altro tema è l’ambientalismo irrazionalista,
che si basa su una presunta Arcadia spazzata via dal progresso. Ma non è così:
già le civiltà precolombiane realizzavano la manipolazione genetica e la
civiltà maya collassò anche per aver sfruttato troppo le risorse naturali,
devastando l’ambiente.
Quel fittizio paradiso terrestre non
esisteva nemmeno a livello sociale: i nativi americani formarono molti imperi e
regni, combatterono in modo feroce l’uno contro l’altro. I Comanche erano talmente
spietati da allearsi con gli Europei, commerciare in armi da fuoco, con lo
scopo di sterminare i loro nemici Apache. Per certi versi, erano tutt’altro che
barbari incoscienti, o “buoni selvaggi”: conoscevano l’arte della diplomazia e costruivano
intrighi politici. Come nel resto del mondo: «Questa è la storia vera, non la
favola per bambini in cui tutti i buoni sono da una parte e i cattivi
dall’altra.» Per assurdo, il politicamente corretto finisce così per
etichettare le minoranze di oggi come “diverse”, come se fossero qualcosa d’altro
dal resto dell’umanità.
Secondo Rampini, il grottesco emerge anche
osservando la figura del presidente Joe Biden – un vecchio maschio bianco
cattolico – che ha scelto una vicepresidente che è il suo esatto opposto: donna,
più giovane di lui, discendente da due minoranze etniche (indiana e
afroamericana).
In un primo tempo, questa etichettatura
superficiale l’aveva resa “rivoluzionaria” per definizione, eppure la realtà
era ben diversa. La madre era stata una brillante ricercatrice medica all’Università
di Berkeley e proveniva dalla casta privilegiata dei bramini tamil; il padre
giamaicano era una celebrità accademica in àmbito economico: «la storia dei
suoi genitori è l’apoteosi di un American Dream costruito da élite di
immigrati iperqualificati che diventano classe dirigente e adottano le regole
del gioco anglosassoni […].»
Un focus importante riguarda la cancel
culture, definita come una forma di pensiero unico, che attua campagne di
boicottaggio a difesa di chiunque si dichiari – a torto o a ragione – “offeso”.
L’azione di questi gruppi è espressione d’intolleranza
moralistica, sono coloro che affibbiano la “lettera scarlatta”, in maniera
analoga a quanto facevano le Guardie rosse di Mao Zedong o i pasdaran della rivoluzione
islamica, fenomeni alimentati non a caso da giovani.
Il fanatismo della cancel culture è
un nuovo risveglio puritano: «Nell’antirazzismo radicale di Black Lives Matter e
nel fervore di riscrivere tutta la storia americana demonizzandola all’insegna
del “peccato originario” dello schiavismo; nelle forme estreme di sessuofobia
femminista di #MeToo; nella “polizia del linguaggio” con cui i militanti transgender
censurano la parola altrui: in tutto ciò è palese il ritorno di forme di
puritanesimo, intransigente e punitivo, intollerante e antidemocratico.
Condanna, richiesta di pentimento pubblico e quindi espiazione costituiscono il
trittico che ricorre nei riti della “cancellazione”.»
Rampini cita la scrittrice Margaret
Atwood, che ha paragonato la cancel culture a una religione e chi non vi
si adegua a un eretico. Non a caso, la vecchia generazione di femministe è
stata spesso criticata o cancellata dal nuovo femminismo radicale. L’inquisizione
fanatica avvicina la cancel culture all’intolleranza bigotta dei secoli
trascorsi.
Ciò è curioso proprio a fronte dell’eccessivo
storicismo della nostra epoca, che è però selettivo. Il passato viene attualizzato
di continuo e così l’individuo contemporaneo perde la sua identità e viene
etichettato: al mussulmano vengono imputate tutte le atrocità commesse nella
storia da mussulmani; al bianco quelle compiute dai conquistadores. Da questa
ossessione per il passato – scrive Rampini – si può uscire solo con un dialogo
che sia riportato agli individui del presente, pronti a spogliarsi dei giudizi
storici. Che non significa dimenticare.
L’Autore continua scrivendo degli snowflakes,
quei giovani incapaci di affrontare la dura realtà dell’esistenza, che si
sciolgono al sole come fiocchi di neve, appunto, poiché sono stati coccolati per
anni da famiglie e sistemi scolastici accondiscendenti.
La tendenza odierna a modificare i testi
originali della letteratura, o a cancellarli del tutto dai libri di testo, è
parte di questo problema (ne ho parlato qui). Tale neopuritanesimo si traduce nella manipolazione
del linguaggio, nel tentativo di renderlo “inclusivo”, ovvero un anestetico
incapace di esprimere sentimenti o pensieri negativi.
Un aspetto correlato, poiché speculare, riguarda
gli ottimi risultati dei giovani studenti di origini asiatiche, non solo negli
Stati Uniti. Le famiglie incentivano i figli ad affrontare un duro cammino
scolastico e universitario, senza sconti, e ciò li fa crescere sul piano sociale,
rendendoli l’élite di domani.
La cosiddetta woke culture si
lancia in battaglie civili che funzionano più come slogan che come soluzioni
efficaci. È un caso lo slogan Defund the Police, promosso a Minneapolis,
affinché le forze dell’ordine smettessero di operare sul territorio cittadino. La
campagna per delegittimare la polizia ha paralizzato la situazione a tal punto
che Minneapolis ha visto un aumento del 25% di omicidi, stupri, aggressioni,
rapine a mano armata: «Ancora peggiore è il bilancio nei quartieri attorno alla
ribattezzata George Floyd Square, la zona più afroamericana di Minneapolis, che
i militanti hanno definito “uno Stato libero”: +66 per cento di crimini
violenti.»
In quanto irrazionale, la woke culture
agisce prima di pensare, o di soppesare le alternative. Il risultato della
campagna per smantellare la polizia ha portato, nel 2020, a un aumento del 30%
degli omicidi in tutta l’America. Nel 2021, ci sono stati i primi ripensamenti:
sollecitati dalle classi meno abbienti, sulle cui spalle era caduta la scure di
questo esperimento, molti sindaci hanno ripristinato i presidi delle forze dell’ordine.
Ampio spazio è poi dedicato alla questione
climatica. Gli scienziati concordano a grande maggioranza su quanto espresso
nel saggio Unsettled (2021) del fisico Steven Koonin: la temperatura
media del pianeta sta aumentando e ciò dipende anche dall’attività umana;
dobbiamo quindi frenare questo processo. Koonin però non scrive di scenari
apocalittici e non usa toni allarmistici. Gli ambientalisti radicali, al
contrario, si nutrono di questo.
Koonin spiega che i media occidentali siano
antiscientifici quando attribuiscono ogni evento atmosferico estremo ai
cambiamenti climatici. Un esempio riguarda gli incendi in California: non è
vero che lo Stato bruci a causa del cambiamento climatico; è vero invece che
gli incendi si scatenino sui tralicci elettrici tenuti in pessime condizioni di
sicurezza, nonché per l’atto criminale di qualcuno. Nemmeno la frequenza degli
incendi è cambiata di molto rispetto al passato: sono però diventati più
dannosi, questo perché i centri abitati si sono avvicinati sempre più alle foreste.
Un altro falso mito riguarda la convinzione
secondo cui rimarremo senza cibo a causa di carestie globali o per l’aumento
della popolazione: la produttività agricola mondiale continua a crescere e al
momento siamo in grado di sfamare dieci miliardi di persone, ben più dell’intera
popolazione umana. Il problema risiede nella distribuzione della ricchezza, ovvero
nell’incapacità dei popoli più poveri di accedere al cibo.
Le alternative scarseggiano; gli
estremismi si alimentano a vicenda. Da un lato la destra che promuove ignoranza
a suon di fake news antiscientifiche; dall’altro una sinistra radical
chic ultra-ambientalista che è altrettanto dogmatica e non obiettiva. Il risultato
sul piano globale è il tentativo di voler convertire i Paesi più poveri a un “imperialismo
verde”, che li condannerebbe alla rovina (e lo Sri Lanka ne ha già fatto
esperienza, con la complicità di un governo dinastico corrotto).
Fuori dall’Occidente, Stati autoritari
come Cina e Russia prendono appunti e rincarano la dose sul concetto di degenerazione
della civiltà occidentale, facendo propaganda in aree del mondo come l’Africa,
ma anche negli stessi Stati Uniti. Qui il canale russo Radio Sputnik invita
ospiti che si dichiarano marxisti, ma che con quella ideologia non hanno niente
a che spartire. Nemmeno la Russia putiniana neoimperialista è ancora marxista,
se non per quei caratteri stereotipati utili al potere. Eppure il marxismo è di
moda tra i giovani statunitensi, che popolano Radio Sputnik, voce di un regime
omofobo e reazionario, che ha provocato stragi in Cecenia e ne sta provocando
in Ucraina. Tutto questo sembra non interessare i giovani intellettuali statunitensi
che si alimentano di antioccidentalismo.
Finiamo col parlare talmente male di noi
stessi, in quanto occidentali, che nel resto del mondo non possono fare altro che
approfittarsene. Chiusi nella nostra autoreferenzialità e convinti di essere
ancora il centro del mondo, non ci stiamo accorgendo che quel mondo progredisce
nonostante le nostre incertezze e i nostri patemi.
Uno dei problemi è la sfiducia nella
collettività. In questo senso, ci stiamo rendendo simili ai cittadini di quei
sistemi totalitari come l’Urss, in cui gli individui si trattavano quali spie o
delatori, e si pensava che il governo mentisse a prescindere.
Se non siamo in grado di reagire a questo
stato di cose con le nostre forze, forse una scossa dall’esterno potrebbe risollevarci.
La guerra in Ucraina scatenata dalla Russia ha costituito una messa in
discussione della filosofia pacifista europea, proprio mentre Cina e Russia (e
Turchia e Iran) portavano avanti programmi di riarmo e modernizzazione degli
eserciti. La guerra in Ucraina ci ha dimostrato come non ci si metta «al riparo
dalle autocrazie con le manifestazioni per la pace, facendo sit-in di
solidarietà con le vittime dei dittatori.»
Rampini conclude che ciò che negli anni
Sessanta era considerata controcultura è oggi cultura ufficiale, che le élite
finanziarie abbracciano per opportunismo. Élite e minoranze si uniscono, e
talvolta sovrappongono, distorcendo la realtà: secondo i più recenti sondaggi
Gallup, lo statunitense medio ritiene che la percentuale di afroamericani sulla
popolazione nazionale sia del 33%, mentre è appena del 12%. La sovrastima
riguarda anche la popolazione Lgbtq+, ritenuta del 25% del totale, quando in
realtà consta solo del 3,8%. L’errore di percezione è comprensibile di fronte
al crescente peso della rappresentanza di queste minoranze nei media, in
politica e nello showbusiness.
Un ritorno al principio di realtà, al metodo scientifico, alla proporzionalità potrebbe forse portare a un nuovo equilibrio sociale. A patto che si torni a discutere di questioni sociali e non più soltanto identitarie, e che l’Occidente cessi di avere un atteggiamento autolesionista: «L’Occidente moderno è stata la prima civiltà autenticamente mondiale e per questo la sua espansione ha toccato ogni angolo del pianeta. Ma gli espansionismi altrui – quello persiano, arabo-islamico, cinese, ottomano, russo – nelle rispettive età auree avevano avuto caratteristiche simili. Quando invece le civiltà si ripiegano su se stesse, battono in ritirata, scelgono la rinuncia, allora la decadenza è garantita. La decadenza include degrado morale, edonismo ed egoismo, nonché l’incapacità di sacrificarsi per difendere la civiltà dai suoi nemici esterni.»
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