Politica Netflix. Un libro di Will
Nel 2021, Will ha realizzato Politica
Netflix, un testo a più voci che indaga un fenomeno particolare: il titolo
fa riferimento a quella presa di posizione su temi politici da parte di
influencer, digital creator e aziende. Questi soggetti, grazie alla loro
visibilità sociale, sono in grado di rendere centrale un dato tema, benché per
poco tempo, a causa di un “palinsesto” molto frammentato, vario e volatile: «il
nostro interessarci alla cosa pubblica, nell’ecosistema mediatico di oggi, non
si lega a visioni del mondo ampie e strutturate, ma si realizza invece
attraverso fiammate improvvise di attenzione su un singolo “titolo”.»
Si potrebbe dire che prestiamo il nostro tempo un po’ a tutto, in particolare a
ciò che ci trattiene in una comfort zone, ma che non prestiamo davvero
attenzione o partecipazione attiva alle stesse cose. Il libro riporta i dati Istat
secondo cui solo il 3% degli italiani ha partecipato a una manifestazione
politica nell’ultimo anno, e solo il 5% dei giovani (18-34 anni) parla almeno
una volta al giorno di politica. Emerge anche che l’informazione proceda
soprattutto attraverso i social, o comunque in rete.
Possono però i creatori di contenuti considerarsi un’alternativa alla politica?
Un punto debole della politica Netflix è che le persone, pur ritenendo positivo
che un influencer si esponga su certi temi, tendano a essere diffidenti sulle
reali motivazioni che alimentano la campagna. Un secondo elemento critico è l’ipersemplificazione,
necessaria a tenere insieme un «confuso ecosistema che vive a metà tra
informazione, sensibilizzazione e attivismo.»
La semplificazione comporta una scelta
mirata sui temi, scindibili in bianco e nero: si può quindi parlare di
legalizzazione delle droghe leggere, di eutanasia e di inclusione, ma sono
esclusi dal dibattito i discorsi su tasse, condizioni del lavoro e giustizia
sociale. La politica Netflix ha messo al centro la battaglia sull’identità, ma
ha escluso il confronto tra le classi: è arduo, se non impossibile, uscire dal
recinto delle identity politics per esplorare anche altre versioni dell’attivismo
progressista (un tempo basato sulla class politics, l’identità
collettiva).
Inoltre, la politica Netflix ha gioco
facile quando si tratta di pagare le conseguenze di una campagna che si rivela
sbagliata: dato che il personaggio non si espone (quasi) mai nei termini di una
questione di principio o di vita e di morte, è facile – in caso di fallimento –
volgere lo sguardo altrove, con l’appoggio di una fanbase pronta ad assorbire
qualsiasi altro contenuto.
La politica tradizionale risente di questo
svantaggio, in quanto essa è fondata sul compromesso e in genere finisce, per
sua stessa natura, per scontentare qualcuno (un tema ben affrontato dal saggio Antipolitica
di Vittorio Mete, per Il Mulino, 2022).
Il volume di Will parte da questi
presupposti per descrivere come le aziende cerchino di rendersi popolari con
scelte politiche a costo zero, che dietro a una facciata morale (o
moralistica?) consenta loro di fidelizzare una determinata fetta di mercato. In
tutto ciò, si pone l’accento sui “costi” dell’attivismo, ovvero sull’impatto
inconsapevole che molti influencer hanno sul mercato: «Non è una novità il vip
che si espone politicamente; è una novità la modalità con cui si esprime oggi,
scegliendo di volta in volta la battaglia per cui esporsi, senza rendere conto
a nessuno. A nessuno, fuorché al proprio pubblico. La Netflix Politics,
insomma, è molto lontana dal concetto di “egemonia culturale” di Gramsci; in
compenso, ricorda molto da vicino le leggi del mercato.»
Il saggio approfondisce poi alcuni singoli
casi degli ultimi anni, come la nascita e gli sviluppi del movimento #MeToo, che al suo interno
ha conosciuto anche forme di non inclusione (per esempio la minore visibilità
data a donne nere impiegate in settori a basso reddito, oppure alle donne
repubblicane vittime di molestie, etc.).
Il punto portato avanti nel libro non è
certo il discredito del movimento in sé, di cui si riconoscono invece i
risultati positivi, quanto il fatto che molte donne non abbiano avuto le stesse
opportunità di raccontare le proprie storie e che questo sia dipeso proprio dal
fattore della visibilità social o dalla non aderenza a una precisa identità
sociale.
Tra gli altri casi approfonditi dagli autori,
cito ancora il ddl Zan e il film The Social Dilemma, che ha aperto a una
regolamentazione europea all’avanguardia riguardante le aziende high tech.
Ampio spazio è poi dedicato al trittico di documentari Cowspiracy, What
the Health e Seaspiracy, che hanno polarizzato il dibattito sull’inquinamento
legato all’alimentazione, convincendo molte persone a seguire diete vegane o
vegetariane.
Ancora una volta, il punto non sono le
libere scelte alimentari fatte dal singolo, ma il modo in cui lo spettatore
venga manipolato nella comunicazione, facendogli credere che esista un’unica
soluzione a problemi in realtà molto strutturati: «Quello che accomuna tutti e
tre i documentari, ovviamente, non è che i loro produttori abbiano fabbricato
immagini completamente scollate dalla realtà. Ma che abbiano deciso di dare un
taglio preciso e semplificato della realtà, lasciando deliberatamente fuori
alcuni aspetti e piegandone altri alle necessità della propria narrazione. La
priorità di questi documentari non è né esclusivamente tratteggiare il
problema, né cercare soluzioni. È anzitutto presentare il problema come il più
grande, il più serio, il più importante che la nostra società debba affrontare.
Per poi dire: il mondo sta cospirando per non farci realizzare che l’unico modo
per risolverlo sia diventare vegani. E così, in un circolo logico che si
autoalimenta, gli accademici e gli esperti che offrono soluzioni o punti di
vista alternativi o supplementari dimostrano di essere parte della
cospirazione.»
Questi documentari puntano dunque sul fattore shock, sui toni apocalittici e
sulla spettacolarizzazione o drammatizzazione di un problema. Il pericolo è
proprio che, con questo schema comunicativo, si finisca per ottenere un’azione
controproducente, come stiamo osservando con le azioni nazi-ambientaliste degli
ultimi anni. D’altra parte, si ritiene che una narrazione pacata, lucida e
completa non possa avere lo stesso impatto sul pubblico: si finisce così per
sacrificare realtà, dialogo e complessità sull’altare del messaggio, su un
modello classico per cui il fine giustifichi i mezzi, ovvero la menzogna e l’imposizione.
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