La psicologia della diversità in Notre-Dame de Paris

Nono appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 46. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.



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AG: Vorrei partire da un appunto su Mercoledì (2022), la recente serie Netflix. La diversità, oggi, quella mercificata, come la vediamo in quel prodotto, non è la vera diversità. È una serie che si rifà agli outsider, ma che in fondo non sono tali. In terapia, spesso la diversità è vissuta dal paziente sottoforma di stigmatizzazione da parte della società. In quel caso, la diversità è incapacità di far parte di un gruppo: nella serie, invece, i cosiddetti “strambi” fanno gruppo.

 

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AS: Uno che non sa fare gruppo è Quasimodo, un outsider effettivo. Oggi l’essere alternativo è diventata una cosa mainstream, di conseguenza chi adotta uno stile di vita “sobrio” può essere non solo considerato noioso, ma essere messo all’angolo sul piano sociale. Quella persona magari è molto ricca dentro, ma non sente il bisogno di esprimere esteriormente la propria moltitudine interiore.

In Notre-Dame de Paris è facile capire chi sia il mostro, almeno dal punto di vista esteriore. Nell’Ottocento, si collegavano facilmente i caratteri fisiognomici a tipi psicologici; in letteratura lo vediamo anche in Rosso Malpelo di Giovanni Verga, benché lì il giudizio sociale sia fatto dipendere da un credo popolare.

Quando si legge la descrizione di Quasimodo, non si ha dubbio che sia un outsider, che sia un personaggio che crea repulsione, perché ha tutto fuori posto. Il romanzo è ambientato a cavallo tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, con la centralità che assumerà il corpo umano proporzionato. Quasimodo perciò è anche fuori dal suo tempo.

Hugo è però scrittore moderno e fa capire al lettore che gran parte della cattiveria di Quasimodo non sia attribuibile alla sua fisicità, e che si possa essere orripilanti pur avendo buon cuore. Ciò che può generare invece la cattiveria è la sofferenza prodotta dal non sentirsi compresi. Così la deformità fisica può tradursi in deformità dell’animo, oppure ti può rendere una persona sola, che soffre, forse anche una vittima.

 

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AG: Questa idea frenologica, per cui il fisico rispecchi l’animo, si ritrova anche ne Il dottor Jekyll e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson. L’idea cioè che la fisicità sia l’espressione massima dell’interiorità dell’individuo. In termini genetici, questo dipende forse dalla nostra conformazione neuro-cognitiva: tra le nostre sei emozioni di base c’è il disgusto. A partire da questo – come ci ricorda Darwin – sviluppiamo una parte di corteccia prefrontale che ci permette di distinguere il noto dal non-noto, in termini di relazioni sociali. Hugo si spinge oltre questo pensiero frenologico sbagliato.

 

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AS: Hugo ebbe una fase politica conservatrice; fu però progressista sotto vari punti di vista. La scorsa volta abbiamo parlato di Jack London e della sua lotta contro la pena di morte: anche Hugo tratta il tema, tanto in Notre-Dame quanto ne L’ultimo giorno di un condannato a morte.

Fu inoltre contro la tortura. Lo scrittore ci descrive la tortura di Esmeralda con un stile gotico, che recupera pure atmosfere dantesche: vari titoli dei capitoli riprendono citazioni di Dante. Hugo critica la tortura ancora prima, quando Quasimodo viene sottoposto al pubblico ludibrio e alle frustate, dopo che il giudice, in un episodio tragicomico, aveva persino aumentato la pena.

In quel brano, lo scrittore ci mostra anche come la legge, nelle mani di certi individui, non sia più giustizia. Quando poi Esmeralda esclama di voler confessare le proprie pene, uno dei torturatori esulta per aver strappato da lei una confessione fittizia. La giustizia rimane allora nominale e la bestia umana opera con le spalle coperte.

 

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AG: Ci siamo evoluti in termini di società civile per evitare che certe cose accadano. Il filone illuminista ci ha fatto capire la barbarie della tortura: la nostra vita, usciti da una tortura, potrebbe essere peggio di una condanna a morte. E tutto questo appare oggi inimmaginabile.

 

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AS: Il giudice che rispetta la legge si giustifica con essa. L’autogiustificazione è la stessa che ha retto fenomeni come la banalità del male durante il nazismo. Certo l’atto concreto del torturatore è altra cosa, perché o apre al sadismo dell’aguzzino o alla presa di coscienza dell’errore profondo insito nel gesto.

 

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AG: Se vieni cresciuto in un ambiente dove torture e violenze sono all’ordine del giorno, non svilupperai avversione verso quelle pratiche, perché si attua una normalizzazione del processo. E chi compie atti di tortura ha un comportamento antisociale. Può anche esserci del narcisismo maligno: se l’atto ti piace, sviluppi una perversione; adotti una struttura sadica. Altrimenti, ti puoi nascondere dietro la negazione del dolore, sminuendo, minimizzando il gesto persino di fronte alla vittima.

 

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AS: A proposito di perversione, c’è un episodio con Claude Frollo che mette in luce la sua ossessione per Esmeralda. Egli avrebbe fama di sapiente, ma rimane bloccato dal pensiero di lei che lo respinge. Non riesce a farsene una ragione e adotta un comportamento vendicativo. Prima del carcere si era comportato da stalker; aveva mandato Quasimodo a rapirla: agisce sempre in forma indiretta.

Quando però la sa fragile, in cella, si presenta a lei di persona e le rivela la trama che aveva intessuto. Lei gli ride in faccia e, a quel punto, Frollo mostra di non essere in grado di controllare i propri impulsi. Quando, più avanti, Esmeralda riesce a sfogarsi su di lui, Frollo chiede con piacere di essere picchiato sempre più forte. Quell’episodio mi fa pensare che se Frollo non avesse seguito la via ecclesiastica, che tende a reprimere sulla carta certi istinti, forse avrebbe potuto essere un buon boia, o un torturatore al servizio del re.

 

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AG: In psicologia, l’ascesi è considerata un meccanismo di controllo, come l’intellettualizzazione. Sono sistemi di difesa: chi intellettualizza diventa insopportabile. L’interlocutore percepisce una grande noia e ascolta continui giri di parole. Questo si ritrova in Frollo.

Inoltre, egli assume un atteggiamento persecutorio nei confronti di Esmeralda anche perché lei è una zingara. In un suo discorso interiore, Frollo la sottomette sul piano sociale; respinto, nasce in lui la frustrazione, che lo porta a farla torturare, perché l’Altro rappresenta in questo caso un limite.

 

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AS: Frollo diventa quasi un omicida. Nella prima parte del romanzo, per i suoi interessi, può anche sembrare una figura positiva. Per esempio, nei confronti del fratello, Frollo si mostra clemente. Dopo averlo cresciuto, cerca di aiutarlo, vedendo che si sta trasformando in un furfante. Al principio, ho fatto un parallelismo con Il flauto magico di Mozart, su libretto di Schikaneder. Nel primo atto dell’opera, il personaggio di Sarastro viene mostrato come figura negativa, contrapposta alla Regina della Notte, alla quale ha rapito la figlia, Pamina. Nel secondo atto, però, si scopre che Sarastro non è il cattivo che si pensava, tanto che alla fine fa convogliare a nozze la coppia di giovani protagonisti. Tuttavia c’è un punto, quando Pamina tenta la fuga, in cui Sarastro le dice che non intende farle del male, ma che non la lascerà fuggire. Nell’opera sussiste un ordine sotteso alle vite dei singoli: si potrebbe chiamare destino o – come fa Hugo nel suo romanzo – ananke, ovvero “necessità”. Sarastro è più che umano: conosce il destino di lei; si fa odiare, ma poi la storia ha un lieto fine. Leggendo il rapporto iniziale tra Frollo ed Esmeralda ritenevo potesse accadere qualcosa di analogo, confidando che Frollo non potesse essere una figura del tutto malvagia.

 

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AG: Riprendo la diade di Frollo e di suo fratello. Questi è un fallito, che rappresenta la pulsionalità esplicita; quella di Frollo invece è implicita. Quest’ultimo è clemente verso il fratello non per amore: aiutandolo, sta in realtà alimentando un rapporto disfunzionale. Frollo è un maligno che vive anche a spese del fratello più piccolo, alimentando quel circolo vizioso. Nella sua testa, infatti, il fratello è un fallito perché lui è un vincente.

 

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AS: Hugo non crea tipi psicologici; crea archetipi. Prende una storia, un dramma, e la mette in funzione di un’idea, come l’opposizione alla tortura e alla pena di morte, o l’ingiustizia della legge nelle mani di un corrotto. L’analisi psicologica dei personaggi di Hugo permette di collegarli tra loro, poiché, tratteggiandoli come archetipi, ne fa emergere la forza universale. Permette di creare schemi validi, che si ramificano con l’interazione tra personaggi. Uno scrittore della prima metà del Novecento ci avrebbe detto di più sul particolare, ma meno sull’universale, influenzato magari dalla filosofia freudiana. Hugo è un’altra cosa.

 

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AG: Credo che gli archetipi non nascano in modo casuale, ma che, mancando gli strumenti per definire qualcosa, essi nascano per esprimere determinate qualità. Che per noi diventano archetipo. Gli studi freudiani danno l’idea di qualcosa: i miti greci, per esempio, diventano archetipi per noi, ma gli antichi greci non ragionavano certo in questi termini. È qualcosa che serve a noi per dare un significato e una formazione a chi viene dopo.

 

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AS: Hugo fa tanta mitopoiesi. Notre-Dame e Quasimodo sono archetipi. Altri hanno fatto qualcosa di analogo: Bram Stoker riprende il vampirismo, che ha una spiegazione storica, folcloristica, psicologica, etc., e ne crea qualcosa di nuovo, un archetipo appunto, oggi più vivo che mai. Lo stesso accade con il mito di Dottor Jekyll e Mister Hyde, particolarmente adatto al nostro tempo. Perché certo troviamo qualcosa di simile nell’antichità, per esempio nella figura di Giano bifronte, e in quell’idea non c’è identità. Lo spirito del tempo (Zeitgeist) di Stevenson gli imponeva di creare un alter ego di Jekyll collegato al mondo della scienza, della chimica in particolare.

Tornando a Hugo, il mito del gobbo di Notre-Dame è quello dell’outsider, del reietto. Una persona cresciuta per miracolo, che poteva essere uccisa o morire di malattia, e che invece resiste alla morte e ci prova fino alla fine. Quasimodo parte come figura negativa, in qualità di rapitore; subisce la sua pena e infine trova una via di redenzione. Questo processo si compie nell’amore per Esmeralda e nella volontà estrema di voler rendere eterno il suo amore per la donna.

Quasimodo è anche un personaggio solitario, i cui unici amici sono i gargoyle e le statue dei re di Francia: sono le uniche (non-)persone con cui interagisce. Frollo, invece, che avrebbe tutte le carte in regola per essere una persona rispettabile e di successo, segue un percorso diametralmente opposto, che lo conduce al baratro.

 

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AG: La volontà di voler contenere tutto nella cattedrale ha persino a che fare con la statistica: è come se i personaggi rappresentassero un gruppo sperimentale in un ambiente delimitato. La sovrabbondanza di generi in Hugo è però un’arma a doppio taglio: quando si forza la capacità astrattiva del lettore bisogna essere consapevoli che è come fare braccio di ferro.

 

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AS: Se condensi la trama di Notre-Dame e togli tutte le parti in più, hai un’opera di poche decine di pagine, che ruota intorno a una storia abbastanza comune nella commedia: tre uomini, di tre classi sociali differenti, interessate a un’unica donna. Il segreto di Hugo è il come della sua scrittura, lo stile, il modo in cui va a costruire questo edificio. Avere in mano Notre-Dame dà l’idea di avere con sé tutto ciò che ci sia da sapere. Non perché sia così, ma perché lo scrittore ti fornisce tutti gli strumenti, scientifici e non, per capire come stanno le cose. Hugo credeva nella capacità della propria scrittura di veicolare idee attraverso i personaggi.

Il titolo del romanzo fa capire sùbito che il vero protagonista sia la cattedrale, che egli definisce né romanica, né gotica. È un processo in atto, come il personaggio di Quasimodo. Nel Medioevo, la cattedrale era simbolo dell’universo, come il tempio per gli antichi greci.

La vita della cattedrale è quella dell’universo: in quanto i personaggi rappresentano archetipi, ciascun lettore ci si può rapportare con una certa naturalezza. Da un punto di vista descrittivo, lo scrittore fa un lavoro magistrale: il libro è una guida turistica, un trattato d’architettura, un romanzo, un’opera teatrale, una poesia. Tutto ciò serve a far respirare un’atmosfera, perché Parigi è un mondo, e Notre-Dame un universo.

C’è poi un ulteriore significato. In molti passaggi, la stampa viene condannata come qualcosa di pericoloso, che mina lo status quo, il potere costituito, sigillato dalle cattedrali. Hugo fa un lungo excursus storico, parlando delle grandi opere architettoniche realizzate dalle masse, per poi arrivare al libro, visto come uno strumento di democrazia. L’invenzione della stampa segna per lui il passaggio dal controllo teocratico, centralizzato, all’espressione dell’individuo in un consesso di pari.

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