I vegumani, il romanzo solarpunk di Clelia Farris

 


I cani mi hanno letteralmente mangiato gli appunti, insieme a un angolo de I vegumani (Future Fiction, 2023), il romanzo solarpunk di Clelia Farris. Questi cuccioli volevamo farmi scrivere una recensione più di cuore che di testa. E così sia.

Dell’Autrice sarda avevo letto l’articolo presente in Ecoluzione (Future Fiction, 2024) di Francesco Verso e ne avevo sentito parlare tra appassionati di narrativa scientifica, dai social alle fiere. Fin dalle prime pagine de I vegumani, ho trovato una scrittura genuina, ricca di espedienti e di trovate: una delle prime è il Baballotto, termine che designa i bibliotecari in una singolare isola mediterranea del futuro, identificabile con la Sardegna.

 

In diversi brani, ho trovato una certa spensieratezza narrativa alla Gormenghast: posto che mi sono convinto che l’universo di Gormenghast sia una realtà post-apocalittica, non è difficile leggere il romanzo breve di Farris come una lettura propositiva (non positiva tout-court) di questo mondo-post.

Le protagoniste del libro di Farris sono le piante: gli stessi personaggi umani assumono nomi di fiori e di piante, come a voler indicare una dipendenza o una coesistenza con il regno vegetale. E il testo fa trasparire un amore per la natura (e una conoscenza biologica di essa) che è evidente in ogni pagina.

In termini umani, la principale protagonista è Gazania, una giovane donna che lavora in una serra per una cooperativa agricola, la Astarte (qui i nomi sono densi di significato!), contribuendo a sfamare la popolazione. L’ambiente è tuttavia compromesso dalle passate attività antropiche, per questo le coltivazioni sono difficili e vi è un grosso problema di siccità e di radiazioni solari.

 

Gazania non si limita a produrre ortaggi, ma cerca nelle piante una soluzione ai diversi problemi che attanagliano la società. Per un caso all’apparenza fortuito, scopre che una delle sue creme solari è in grado di migliorare la vita lavorativa e il benessere generale degli abitanti, ma con un effetto collaterale non da poco: la graduale trasformazione in un ibrido vegetale-umano, il vegumano.

Com’è noto, c’è una lunga tradizione greco-romana per una tale metamorfosi, ma, restando ai nostri giorni, la tematica è stata affrontata soprattutto in Oriente. Penso – per esempio – al racconto Il frutto della mia donna della Premio Nobel 2024 Han Kang, edito in Italia da Adelphi nella raccolta Convalescenza (2019), ma anche al romanzo La foresta trabocca (Add, 2023) di Ayase Maru.

In entrambi i casi, troviamo due protagoniste e le opere condividono la rappresentazione della marginalità sociale a cui sono sottoposte molte coreane e giapponesi. Han Kang racconta di una donna che scruta l’orizzonte (che “guarda avanti”), desiderando la fuga dalla grande città sovraffollata, che fa letteralmente appassire ogni stimolo vitale. Mentre Ayase Maru narra la storia di Rui, capace di costruire un grande edificio naturale che è alieno rispetto alle avvelenate dinamiche urbane, sovente governate da una mentalità maschilista.

 

In questo contesto, non è difficile inserire il personaggio di Gazania: l’ambientazione futurista consente di slegarla dalle figure maschili che ancora limitano i personaggi di Kang e Maru, rendendola da subito fautrice del proprio destino in nome di un nuovo legame con la natura.

Un altro aspetto che mi ha portato a riflettere, e che ci porta oltre lo specifico romanzo, è come il tema della mutazione in vegetale, declinato perlopiù al femminile, faccia da contraltare a quel filone transumanista che prevede invece la definitiva separazione dell’essere umano dal suo dato naturale. I vegumani sembrano rigettare questa concezione, favorendo una nuova immersione panica nella natura. Quella di Farris può essere letta come un’utopia tecnologica, in cui però la tecnica non si sviluppa in favore dell’uomo a scapito del pianeta; è un’utopia plausibile, che necessita però di una notevole forza di volontà e di una certa visionarietà.

 

D’altra parte, le problematiche inserite nel romanzo sono strutturali e – lo ammetto – non sempre sono riuscito a adottare quello sguardo propositivo che l’Autrice continuava a suggerirmi attraverso formule chimiche e nuovi studi scientifici all’avanguardia. Non perché non creda che ciò sia possibile, ma perché tendo a essere meno ottimista sull’atteggiamento umano di fronte a tali difficoltà.

Il mio timore – e vorrei essere smentito – è che la maggior parte della popolazione, in quella situazione, abbandonerebbe la propria terra, come in effetti fanno in molti nel libro, favoriti persino dall’Organizzazione Mondiale del Clima, che, anziché proporre soluzioni, si limita a organizzare la “ritirata”. Mi chiedo anche se sarebbe sufficiente uno sparuto numero di residenti, con risorse limitate, per riuscire ad attrarre abbastanza fondi per portare avanti progetti non sempre economici.

 

Questi sono solo alcuni quesiti stimolati dal testo; come direbbe il Baballotto: «I libri non sono qui per aiutare. Sono fili essi stessi, ciascuno li usa per tessere i propri pensieri.»

Vi è poi un secondo aspetto che ho molto apprezzato: Farris evidenzia come ogni azione porti con sé delle conseguenze negative per qualcuno, anche quando agiamo con le migliori intenzioni. Nel caso specifico, si apre un dibattito sulla sperimentazione della crema compiuta sugli umani da Gazania, senza un aperto consenso, oppure sulla sorte che tocca alle lumache che permettono la creazione della crema. Che dire poi degli effetti di una mutazione in vegetale? Sarebbe completa e definitiva, o varierebbe da persona a persona (leggete per scoprirlo)?

 

La nostra intelligenza è diversa da quella delle piante. […] L’intelligenza umana si è formata esplorando l’ambiente. Ci siamo chiesti cosa c’era oltre l’orizzonte e siamo andati a vedere di persona.

 

Ecco allora che I vegumani non rappresenta un’utopia incantata, bensì un’utopia della possibilità: un obiettivo ambizioso che concretamente, nella peggiore delle ipotesi, dovrebbe comunque generare un cambiamento in positivo, a patto di rimboccarsi le maniche.

Per concludere, suggerisco questa lettura a chi sia alla ricerca di un primo approccio al solarpunk (di cui ho parlato qui), ma anche a chi cercasse un buon testo di narrativa scientifica speculativa. Nel romanzo, infatti, vengono esplorati molti scenari sociali favoriti dallo sviluppo scientifico, con conseguenze non indifferenti in termini culturali. È infine una lettura che indicherei soprattutto per l’estate, quando, di fronte alla torrida evidenza dei cambiamenti climatici, vorrete uno strumento per immaginare un futuro più verde.

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