Femminismo cinese e società del controllo in un libro Add di Leta Hong Fincher
Il saggio Tradire il Grande Fratello. Il risveglio femminista in Cina (Add, 2024) di Leta Hong Fincher propone
una dettagliata analisi della crescente repressione della società civile sotto
la leadership di Xi Jinping, focalizzandosi in particolare sul movimento
femminista cinese. Attraverso una combinazione di cronaca e narrazione,
l’Autrice mette in luce le sfide affrontate dalle attiviste in un contesto di
crescente controllo statale.
Il contesto storico-politico e la
repressione
Fin dalla fondazione della Repubblica
Popolare Cinese nel 1949, l’uguaglianza di genere è stata proclamata come un
obiettivo centrale. Durante la Rivoluzione comunista e nei primi decenni del
regime di Mao Zedong, il governo promuoveva l’uguaglianza tra i sessi, vantando
la forza lavoro femminile più grande del mondo. Tuttavia, con le riforme
economiche degli anni Novanta, la disparità di genere è peggiorata: nel 1990,
il salario medio annuo di una donna residente in città equivaleva al 77,5% di
quello di un uomo; nel 2010, secondo dati governativi, era sceso al 67,3%.
A partire dal 2012, questa crescente
disparità ha contribuito all’emergere di un nuovo movimento femminista
indipendente dal Partito Comunista Cinese (PCC). Le attiviste hanno iniziato a
organizzarsi autonomamente, ottenendo seguito tra le giovani di diverse città.
In risposta, il governo ha chiuso violentemente alcune ONG dedicate ai diritti
delle donne, soprattutto quelle finanziate dall’estero, e ha intensificato la
sorveglianza sulle femministe, monitorando i programmi universitari di studi di
genere e chiudendo profili femministi sui social media.
«Ad aprile 2013 il partito diramò un promemoria interno intitolato Documento n. 9, che esortava i funzionari a vigilare contro l’infiltrazione di opinioni pericolose dall’Occidente. Si elencavano sette concetti occidentali definiti i “sette innominabili” (qi ge bu jiang), tra cui i valori universali, la democrazia costituzionale, la società civile, la libertà di stampa e gli errori storici del Partito comunista. Poco dopo il governo avviò la sua feroce, costante repressione della società civile.»
Un esempio emblematico della repressione
governativa è stato l’arresto delle “Cinque femministe” nel marzo 2015. Tra di
loro c’era Li Maizi, che aveva diffuso su WeChat Una canzone per tutte le
donne poco dopo essere stata rilasciata; un brano che è diventato l’inno
del movimento femminista cinese. Le accuse mosse contro le attiviste erano
passate da “aver attaccato briga e causato disordini” a “aver radunato folle al
fine di turbare l’ordine in luoghi pubblici”, reato che avrebbe comportato una
condanna fino a cinque anni o più se si fosse svolto il processo.
Le attiviste hanno subìto umiliazioni sia
in carcere che in pubblico: Li Maizi, ad esempio, è stata portata al
commissariato, le sono state prese le impronte digitali e del palmo, le è stato
prelevato sangue e un campione di urina. È stata poi messa in una stanza non
riscaldata dopo averle fatto togliere il piumino ed è stata interrogata da
uomini senza uniforme e senza che le venissero spiegate le accuse. Le hanno
così chiesto dettagli sui finanziamenti stranieri all’ONG Yirenping, per cui
lavorava.
Un’altra attivista, Teresa Xu, è stata
arrestata e, prima del rilascio, costretta a firmare una dichiarazione in cui
affermava: «Amo ardentemente il mio Paese. Amo ardentemente il Partito
Comunista. Sostengo il lavoro del Partito Comunista. Prometto di tenermi alla
larga dalle ONG. Prometto di tenermi alla larga dall’ONG Yirenping di Pechino.»
Il controllo dei media e i
tentativi di risposta
In Cina, Internet è sottoposto a pesanti
controlli e censure, isolato dal resto del mondo attraverso il cosiddetto
“Grande Firewall”. Praticamente in tutte le aziende tecnologiche operano
censori con l’obbligo di cancellare qualsiasi contenuto potenzialmente
offensivo per il PCC o che possa turbare l’ordine sociale.
Nel 2012, dopo l’ascesa al potere di Xi
Jinping, personalità influenti su Weibo, come l’investitore sino-americano
Charles Xue, con dodici milioni di follower, sono state arrestate con accuse
pretestuose, come quella di aver fatto sesso con una prostituta. L’agenzia
Xinhua ha descritto la sua detenzione come un «campanello d’allarme in materia
di legge per tutte le Big V di Internet.»
La risposta all’arresto delle Cinque
femministe nel 2015 è stata significativa soprattutto tra la popolazione
universitaria. Un gruppo di studenti dell’Università Sun Yat-sen di Guangzhou
ha firmato una petizione a sostegno delle femministe incarcerate. La petizione,
inizialmente pubblicata su Weibo e WeChat, è stata censurata, ma gli studenti
l’hanno fatta circolare tramite canali criptati, raggiungendo un pubblico più
ampio prima che l’ateneo adottasse provvedimenti disciplinari. Petizioni simili
si sono diffuse in molte altre università, finché le amministrazioni hanno
iniziato a condurre indagini interne sugli studenti firmatari.
Nonostante la censura e la repressione,
nel gennaio 2018 ha preso piede una versione cinese del movimento #MeToo,
dimostrando la resilienza del femminismo cinese. Tuttavia, la mancanza di
libertà di stampa impedisce ai media di condurre reportage approfonditi sui
casi di molestie e di abusi sessuali. Al crescere della censura online contro
il #MeToo, la femminista Qiqi ha escogitato lo stratagemma di usare l’emoji di
“riso” (mi) e “coniglio” (tu) – due parole che in cinese suonano
come “Me Too” – per ricavare l’hashtag #RisoConiglio ed eludere i controllori
della rete.
Nello stesso 2018, però, la Cina ha
adottato uno dei sistemi di sorveglianza tecnologica più avanzati al mondo,
comprendente riconoscimento facciale, scansione dell’iride e raccolta
sistematica di dati biometrici. Questo apparato ha permesso allo Stato cinese
di trasformarsi in una vera e propria dittatura digitale, in cui ogni cittadino
è potenzialmente tracciabile e schedato. Le impronte digitali, le immagini
facciali e persino i campioni di DNA sono raccolti in un vasto archivio
centrale, che già nel 2017 aveva incluso oltre 40 milioni di persone, tra attivisti,
lavoratori migranti e membri della minoranza uigura.
Un esempio inquietante è rappresentato dal
trattamento riservato alle attiviste come Li Maizi, alla quale vennero
prelevate impronte e sangue in modo coercitivo. Queste pratiche non hanno solo
un valore identificativo, ma rientrano in un disegno più ampio di controllo
sociale e repressione selettiva. La raccolta dei dati biometrici diventa così
un atto politico, diretto a classificare e intimidire chiunque sfidi l’autorità
del partito.
Tra repressione etnica, intersezionalità
e sessismo di Stato
Il movimento femminista cinese non ha
coinvolto soltanto donne di etnia han. Le giovani tibetane e uigure hanno
iniziato a denunciare, tramite gruppi su WeChat, una doppia oppressione: da un
lato quella maschile e patriarcale delle loro stesse comunità, dall’altro
quella sistemica esercitata dallo Stato cinese. La studiosa Dilnur Reyhan ha
documentato come molte uigure si riunissero in gruppi privati, spesso
escludendo gli uomini, per discutere liberamente delle condizioni delle madri e
delle famiglie.
Tuttavia, nel 2016, l’arrivo di Chen
Quanguo come segretario del Partito in Xinjiang ha segnato un giro di vite: il
cyberspazio uiguro è stato represso e quei gruppi femminili chiusi. Questa
forma di sorveglianza colpisce tanto il dissenso politico, quanto i tentativi
di autodeterminazione culturale ed esistenziale delle minoranze etniche.
Il patriarcato autoritario promosso da Xi
Jinping ha cercato di riaffermarsi anche attraverso una retorica della famiglia
tradizionale e una reingegnerizzazione dei ruoli di genere. In una Cina sempre
più preoccupata per il calo demografico, il partito ha promosso un’immagine
della donna come madre devota e moglie obbediente. Nel 2017, la Federazione
nazionale delle donne cinesi di Zhenjiang ha lanciato corsi per “donne della
nuova era”, insegnando come truccarsi, inginocchiarsi e accavallare le gambe
secondo i canoni della cultura tradizionale.
Tuttavia, il messaggio non sembra aver
attecchito: nel 2017, l’indice di natalità cinese è calato del 3,5% rispetto
all’anno precedente, smentendo le aspettative del regime. Lo Stato, in un gesto
estremo, ha persino offerto la rimozione gratuita dei dispositivi intrauterini
impiantati a forza a milioni di donne durante la politica del figlio unico, ma
la risposta delle donne è stata gelida.
Un’indagine del 2021 mostra che il 30,5%
dei giovani urbanizzati tra i 18 e i 26 anni non crede nel matrimonio e di
questi il 73,4% è donna. La scelta di non sposarsi, in un Paese che lega
fortemente la cittadinanza e i diritti sociali alla famiglia, rappresenta un
atto di resistenza politica.
La rappresentanza e una
legislazione inadeguata
La Cina ha approvato solo nel 2016 la sua
prima legge contro la violenza domestica, ma la sua applicazione è largamente
disattesa. Il governo stima che una donna sposata su quattro subisca
maltrattamenti fisici, ma le attiviste ritengono che la cifra reale sia molto
più alta. Gli ordini restrittivi sono difficili da ottenere e le case rifugio
sono spesso inutilizzate. Inoltre, la legge non menziona la violenza sessuale,
e lo stupro coniugale non è considerato reato.
Molte attiviste raccontano esperienze di
violenza come evento formativo decisivo per il loro attivismo. Xiao Meili, ad
esempio, parla del suo lungo condizionamento culturale legato al “complesso
della vergine”, una forma moderna di culto confuciano della castità che riduce
il valore della donna alla sua purezza sessuale.
Uno degli aspetti più inquietanti del
sistema cinese è l’uso della propaganda patriarcale, che presenta la nazione
come una “grande famiglia” governata da un uomo forte: Xi Dada, “il grande papà
Xi”. In settant’anni di regime comunista, nessuna donna ha mai fatto parte del
Comitato permanente del Politburo, e oggi solo una siede tra i venticinque
membri dell’attuale Politburo. La rappresentanza femminile nel Comitato
centrale è invece scesa dal 6,4% del 2007 al 4,9% attuale.
Questa esclusione sistematica è frutto di
un sessismo latente e di una strategia consapevole di sottomissione delle donne
come strumento di controllo sociale. Come scrive Fincher, la leadership cinese
sembra considerare la subordinazione femminile essenziale alla sopravvivenza
del partito.
Di fronte alla repressione interna, molte
attiviste hanno scelto l’esilio o la militanza all’estero. Lu Pin sostiene che
le femministe cinesi debbano globalizzare la lotta, costruendo alleanze
transnazionali per contrastare l’autoritarismo crescente. In un’epoca di
connessione globale, la solidarietà nazionale può rappresentare l’unica
possibilità di sopravvivenza del movimento.
La protesta globale contro la detenzione
delle Cinque femministe ha dato vita a campagne come #FreeTheFive, con
manifestazioni in tutto il mondo. Anche solo il confronto con la vicina Taiwan
è significativo: lì, nel 2017, la Corte Suprema ha aperto al matrimonio
egualitario, segnando un netto distacco dalla Cina continentale. La differenza
tra i due modelli dimostra che il patriarcato repressivo cinese è frutto di una
decisione politica e non di una necessità culturale.
Anche all’interno della Cina, nonostante le intimidazioni, le donne continuano ad aprire profili femministi, a raccontarsi, a sfidare i bot e la repressione con ironia e un pizzico di astuzia, come dimostra l’hashtag #RisoConiglio.
Alcune conclusioni
Durante la Rivoluzione culturale, le donne
sono state strumentalizzate come forza produttiva; oggi vengono disciplinate
come corpo riproduttivo. In entrambi i casi sono state trattate come strumenti:
Tradire il Grande Fratello mostra che il vero pericolo per il partito
unico non è l’Occidente, ma il desiderio delle donne cinesi di vivere
liberamente.
Uno dei pregi del saggio di Leta Hong Fincher è l’uso della narrazione come strumento politico. Le storie delle donne, i loro dialoghi, le paure e le umiliazioni emergono con forza, rompendo l’anonimato imposto dal regime. Fincher non sovrasta le sue fonti, ma dà loro voce: il lettore si ritrova immerso nella quotidianità del dissenso femminile e questa immersione si trasforma in consapevolezza.
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