Il barone rampante come viaggio iniziatico
Sono scampato alla lettura de Il barone
rampante ai tempi del liceo. Per fortuna. Leggendolo in quel periodo,
avrebbe alimentato il mio carattere ribelle, o alternativo: chiamatelo come
volete. Il fatto è che leggevo già abbastanza opere in quella direzione e in
Cosimo Piovasco di Rondò – il protagonista – non avrei trovato nulla di nuovo.
Anzi, l’ultima parte del romanzo mi avrebbe quasi annoiato.
A distanza di undici anni dalla fine del
liceo, complice anche la lettura di Garcia Márquez durante l’università, ho
potuto apprezzare a pieno Il barone rampante.
Cosimo ha un padre ossessionato dalle
genealogie e dalle successioni: per lui, l’unica cosa che conta è il
mantenimento del potere e del rispetto connesso. Vive su binari prestabiliti e non
concepisce i comportamenti non ortodossi.
La madre, invece, è cresciuta sui campi di
battaglia e si anima al pensiero degli eserciti in guerra. In realtà, il suo
atteggiamento duro e imperioso è l’unico linguaggio che conosce: donna
sensibile, cela la sua fragilità dietro quella armatura.
Nel complesso, sono due figure ancorate al
passato, in un momento storico – la seconda metà del Settecento – che richiedeva
invece una forte capacità di adattarsi ai cambiamenti.
In quest’ottica, il narratore Biagio,
fratello di Cosimo, sembra essere l’erede più capace di rispondere alle sfide
del periodo storico, dato che il primogenito, un giorno, fugge da casa e si
rifugia su un albero. A dire il vero, la fuga di Cosimo non lo porta davvero
“fuori dal mondo”, ma gli consente di avere una visione dall’alto, più nitida
sulle cose.
La sua più grande sfida è d’amore. Il
primo incontro con Viola anticipa già la natura tossica del loro rapporto: lui
si dichiara un ladro, ma lei lo prende in giro; Cosimo sostiene allora di
essere un brigante, per darsi delle arie. Inoltre, rischia di essere bastonato
dai servi della ragazza, ma si rifiuta di dichiarare il suo titolo nobiliare,
distinguendosi dal padre. Cosimo rivendica la proprietà dei territori sugli
alberi, ovvero una conquista data non dalla rendita, ma – si potrebbe dire – da
un merito d’originalità. La sua è una nobiltà d’animo, che scopriamo a poco a
poco: «Un gentiluomo [...]
è tale stando in terra come stando in cima agli alberi [...] se si comporta
rettamente.»
Nei primi tempi, non è chiaro perché
Cosimo rimanga sugli alberi. D’altra parte: «Le imprese che si basano su una tenacia interiore
devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto
appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.»
Quando Viola finisce in collegio, egli
mantiene la propria posizione, dimostrando che non si trovava lì per il patto
siglato con la ragazza, che stabiliva che non sarebbe mai sceso, pena il
diventare suo schiavo. Cosimo si fa guidare dall’intuito, o dall’ispirazione. Con
il tempo, inizia a notare cose, lassù, che non aveva mai notato a terra: per
esempio, osserva i lavoratori dei campi e si interessa a loro.
Cosimo conosce il brigante Gian dei
Brughi, in cerca di letture per passare il tempo. Il giovane finisce per
appassionarsi alla lettura, in cerca di qualcosa che piacesse al brigante.
L’amicizia comunque dura poco, perché questi viene giustiziato, non prima di
aver chiesto a gran voce di conoscere la fine della storia.
In seguito, Cosimo si interessa alla
difesa della foresta dagli incendi dolosi. Chiede aiuto agli abitanti della
zona e si rende conto del potere dell’associazione: scopre di essere un buon
leader, ma non abusa del suo potere, convinto che sia meglio essere un uomo
solo, che un capo. Il padre lo sprona a usare il suo titolo e le sue capacità,
ma Cosimo risponde che comandare significa mettere a disposizione le proprie
idee, quando queste sono più acute che negli altri.
Con il tempo e le avventure vissute, tra
cui una battaglia contro gli invasori turchi, Cosimo matura e inizia a essere
molto apprezzato dalle donne. Girano anche certe voci, secondo le quali ogni
donna incinta senza marito sarebbe dovuta a lui. Cosimo ignora le dicerie; la
sua mente è tutta rivolta a grandi progetti, come la teorizzazione di una Repubblica
Arborea. L’idea viene sottoposta persino a Diderot, che gli risponde con una
lettera di apprezzamento.
Dopo molto tempo, torna la nemesi di Cosimo,
Viola. L’uomo dichiara di aver atteso il suo ritorno, tuttavia lei è una persona
incapace di prendere decisioni nella vita e vive in un’eterna sospensione, in
cui si illude di poter essere sempre al centro del mondo.
Viola lo fa ingelosire e il fratello
Biagio lo rimprovera: Cosimo si rifiuta di vedere il libertinaggio della donna e
sembra incapace di uscire dal suo mondo per ascoltare ciò che non vorrebbe
sentire. Alla fine, però, Cosimo riconosce il significato dell’amore, ovvero il
farsi amare per ciò che si è. E si rende conto dell’incapacità di Viola di apprezzarlo
nella sua autenticità.
Tale consapevolezza non gli impedisce di
attraversare una crisi interiore, che si ripercuote sul fisico. Eppure ne esce,
fortificato.
Nel frattempo, la Storia ha fatto il suo
corso. Si diffondono le idee repubblicane, nasce e muore l’astro di Napoleone. In
paese arrivano alcuni massoni; in seguito, Biagio aderisce all’istituzione e
racconta di quella volta che i gesuiti si infiltrarono tra loro: pur eliminati
dal papato, agiscono contro il propagarsi delle idee moderne. Cosimo aiuta i
massoni a metterli in fuga e si riconosce nei loro ideali, dal momento che già
li professava: la libertà di una vita indipendente tra gli alberi; l’uguaglianza
tra gli esseri del creato, dimostrata con il rispetto e con la tutela; la
fratellanza che riconosce nel potere dell’associazione.
Su quest’ultimo punto c’è un passaggio
chiave: «Capì
questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le
doti migliori delle singole persone, e dànno la gioia che raramente s’ha
restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace
e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivere per proprio conto
capita più spesso il contrario, di vedere l’altra faccia della gente, quella
per cui bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada).»
Per Cosimo, sono questi ideali universali
a contare nella vita e segnano il culmine della sua esistenza, di una vita al
servizio degli altri, ma che in parallelo è divenuta scoperta di sé. E, nel
congedarsi dalla vita, Cosimo scopre come non morire e, in un nuovo viaggio
iniziatico – che non può che essere individuale nel suo primo passo – carpisce
la corda di Kairos, il momento opportuno, e ascende a modo suo tra le nuvole.
Cosimo incarna l’idea che non sia
necessario essere massoni per essere massonici. Il barone rampante può
così essere interpretato attraverso una lente simbolica che allude a tematiche
iniziatiche.
La salita sugli alberi ha la forma di un
rituale di passaggio: la curiosità è fondamentale, perché Cosimo non sa che
cosa lo attenda, ma intuitivamente si apre all’esplorazione. L’unico punto
saldo iniziale è la volontà di non scendere mai più, di non fare passi indietro
che lo riportino a terra: «Chi
vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.»
I personaggi che Cosimo incontra costituiscono
tappe di un percorso iniziatico, in cui ogni figura rappresenta un maestro o
una prova. La sua è comunque una vita in fertile solitudine: Cosimo è capace di
ritagliarsi momenti di meditazione e di introspezione profonda, di cui –
curiosamente – abbiamo solo un sentore nelle azioni successive, dal momento che
filtriamo la sua interiorità attraverso la narrazione del fratello.
Tra gli incontri, quello con Viola è il
più rilevante. La donna rappresenta il principio femminile che completa e sfida
il protagonista, portandolo a confrontarsi con la natura dell’imprevedibile e
dell’amore. Cosimo si misura anche con le autorità stabilite e con le rigide
istituzioni che queste difendono (il padre, la nobiltà, i gesuiti e la Chiesa,
il giustizialismo) e rifiuta di conformarsi a esse per un ritorno alla natura
che non è regressione primitivista (così invece lo rappresentano i giornali
dell’epoca), ma riscoperta di un’armonia con il cosmo.
Ora, Il barone rampante non è un
romanzo massonico in senso stretto, ma questa interpretazione ha pur un suo
fondamento. Quando lessi Cent’anni di solitudine trovai riferimenti
analoghi alla storia della Massoneria. Non più quella tipica narrazione
europea, ma quella sudamericana, di una Massoneria ancora rivoluzionaria,
imperfetta in quanto parte attiva del cambiamento, in nome di ideali che, nel
bene e nel male e per quanto ce ne siamo dimenticati, plasmano ancora oggi le
nostre società occidentali.
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