Gengis Khan. Spietato genio militare e modernizzatore
Ci troviamo su una distesa stepposa, sotto
un cielo stellato, a metà del XII secolo d.C. Il vento sibila tra l’erba alta e
un piccolo accampamento si erge isolato. Il fumo danza leggero su un fuoco
morente. All’interno di una modesta yurta, Hoelun è in travaglio. A un tratto,
con un pianto vigoroso, Temujin annuncia la sua presenza. Il primogenito viene
mostrato al padre Yesugei, capo del clan Borjigin, e sùbito si nota un primo
presagio: un grumo di sangue nella mano del neonato, simbolo di un futuro leader
guerriero, che sarà conosciuto con il nome di Gengis Khan.
L’ascesa al potere
Il giovane Temujin imparò presto a
cavalcare e a tirare con l’arco. Quando il padre morì per mano dei Tatari, la
sua famiglia venne abbandonata nelle steppe dalle fazioni che costituivano il
clan. Crescendo, Temujin uccise il fratellastro per assicurarsi la leadership,
si sposò con Borte e strinse un’alleanza con i capi Toghrul e Jamukha,
divenendo vassallo del primo, sulle orme del padre.
Un giorno, la moglie venne rapita dalla
tribù dei Merkit: la pratica dell’esogamia incentivava il rapimento delle donne
di altre tribù e ciò, nel sistema mongolo, perpetuava lo scontro interno. Con
l’aiuto degli alleati, Temujin liberò la donna, la quale partorì un figlio,
Joci, la cui paternità rimase per sempre incerta. Ciò nonostante, Temujin lo
crebbe alla pari degli altri figli avuti da Borte, ovvero Cagatai, Ogodei e
Tolui. Per tutta la vita, la moglie ebbe un ruolo cruciale in molte decisioni
prese dal condottiero e, a dispetto delle numerose concubine, Temujin le
riservò sempre un affetto particolare.
Con la sconfitta dei Merkit, si rafforzò
l’amicizia con Jamukha e i due strinsero un patto giuridico, detto “anda”, che
li rendeva fratelli. Si costituiva così una diarchia destinata a vita breve.
Verso la fine del secolo, Toghril perse il
controllo del proprio popolo, i Kereyit. Temujin gli rimase fedele e lo riportò
al potere, ma i rapporti di forza con quello che definiva “khan padre” si erano
ormai invertiti. L’ascesa di Temujin era solo all’inizio. Per prima cosa,
sconfisse i Tatari e massacrò gli uomini, vendicando così il padre. Poi, a uno
a uno, uccise i prìncipi mongoli dell’area, assumendo il controllo della
Mongolia orientale.
Nel frattempo, Jamukha era stato nominato
“khan delle tribù”. Insieme a Toghrul, Temujin si oppose con successo al
vecchio compagno, tuttavia, proprio Toghrul, vedendo crescere il potere del
vassallo, si scontrò in campo aperto con Temujin, sconfiggendolo. Questi operò
una serie di manovre diplomatiche e, con astuzia comunicativa, tentò di
appianare le divergenze, ricordando i servigi prestati da lui e da suo padre.
Al contempo, riorganizzò le forze e, nel celebre “Giuramento di Baljuna”,
garantì ai fedelissimi prestigio e ricchezza. Del gruppo facevano parte
cristiani, musulmani e buddhisti, uniti dalla fedeltà al condottiero.
Toghrul venne sconfitto e morì poco dopo.
Temujin dissolse l’unità politica del popolo kereyit; separò le famiglie,
trasformandone i membri in servitori o clienti. Con la vittoria, prese il
controllo della Mongolia centrale. In quel periodo, era già stato nominato
Gengis Khan, un appellativo dall’origine incerta, che forse rimandava all’idea
di una sovranità universale.
Le conquiste proseguirono ai danni dei
Naiman, sostenuti dal fuggitivo Jamukha. Con la loro sconfitta, Gengis ottenne
la Mongolia occidentale: il vecchio amico perse tutto e condusse una vita
misera da diseredato.
Nel maggio 1206, divenuto unico sovrano
della steppa, tenne una grande assemblea dei capi nota come kurultai,
con la quale proclamò la nascita dell’impero mongolo. Lo sciamano Kokechu sancì
la proclamazione con la sua autorità: il potere di Gengis Khan derivava infatti
dall’Eterno Cielo Azzurro, la somma divinità degli antichi turchi e mongoli.
Era il punto di svolta per questi nomadi, che da tribù disorganizzate si
trasformavano in una forza unificata sotto un leader carismatico e visionario.
Uno dei primi atti di Gengis Khan fu
l’implementazione di un codice legale chiamato Yassa, che mirava a stabilire
l’ordine sociale all’interno delle sue terre. Tali leggi includevano pene
severe per il furto e per l’omicidio, ma promuovevano anche la tolleranza
religiosa e le norme di ospitalità. Il livello più alto della gerarchia mongola
era occupato dalla famiglia del leader, chiamata altan uruq, “famiglia
d’oro”. Sotto di loro c’era l’aristocrazia precedente alla fondazione
dell’impero, sopravvissuta alle epurazioni.
Gengis Khan rivoluzionò anche l’esercito e
organizzò l’armata mongola in unità decimali, rompendo il sistema tradizionale
delle alleanze tribali, per formare un esercito basato sul merito e sulla
lealtà diretta al khan. Questi aumentò il gruppo delle guardie del corpo
personali, detto keshig, passando dal consueto migliaio a diecimila
uomini. I membri del keshig svolgevano anche funzioni domestiche e
amministrative e provenivano dalle famiglie dei comandanti militari. Erano una
garanzia per il khan e potevano godere di privilegi speciali e di un accesso
diretto al capo. Con queste premesse, i mongoli predisposero una macchina da
guerra che avrebbe cambiato il profilo del continente asiatico.
L’impero si espande
Per un lustro, Gengis Khan affrontò le
sfide interne che provenivano dai fratelli e dal potente sciamano Kokechu, che
Gengis venerava. Fu la moglie Borte a convincerlo a uccidere l’uomo e a
sostituirlo con un altro sciamano.
Dopo la fase di consolidamento del potere,
il condottiero svolse nuove campagne di annessione, che coinvolsero anche i
territori degli Uiguri, la prima popolazione sedentaria che si sottomise ai
mongoli e che ne influenzò l’amministrazione: infatti, in gran parte dell’Alta
Asia, il turco uiguro, con il relativo alfabeto, divenne il linguaggio adottato
dalla cancelleria.
Nel 1209, Gengis guidò un’invasione su
vasta scala nella Xia occidentale e, per ben due volte, catturò la fortezza di
Wulahai. Avanzò verso la capitale Zhongxing, ma venne sopraffatto; così simulò
una ritirata, che colse di sorpresa i nemici e li portò alla sconfitta. Non
potendo conquistare la capitale per la mancanza di adeguate macchine d’assedio,
formalizzò un trattato di pace e l’imperatore Xiangzong divenne tributario dei
mongoli.
Nel 1211, Gengis Khan mosse guerra contro
la dinastia Jin, nel nord della Cina. L’esercito Jin poteva contare su un
rapporto di forze di otto a uno, ma molti soldati defezionarono. In
particolare, Gengis ottenne il favore degli Onggut, un popolo seminomade, di
fede nestoriana, che presidiava il confine per i Jin.
Varcata così la Grande Muraglia,
iniziarono le prime razzie, sospese l’anno seguente, quando Gengis venne ferito
da una freccia durante l’assedio fallito di Xijing. Ciò lo convinse a istituire
un corpo di ingegneri che potesse migliorare le capacità mongole di assediare
città. Nonostante le fortificazioni e l’esercito numeroso dei Jin, la rapidità
e l’astuzia tattica degli invasori portarono a numerose vittorie. Le città
chiave, come la capitale Zhongdu (oggi Pechino), caddero nel 1215, a seguito di
duri assedi che avevano mostrato la ferocia del capo mongolo, ma anche la sua
capacità di offrire una resa onorevole ai nemici che sceglievano di
sottomettersi.
Con la conquista della Cina
settentrionale, Gengis comprese l’importanza di riuscire a mantenere le
posizioni, che altrimenti venivano reinsediate dagli avversari. Di ciò si
convinse anche grazie all’ingresso a corte di un sapiente, Yelu Chucai, che aveva servito i Jin. Egli era un
medico, un letterato e un astrologo di fede taoista, che Gengis consultò per
tutta la vita.
Il 1219 segnò l’inizio di una nuova fase
espansionistica verso ovest. Il motivo che portò all’invasione dell’impero di
Khwarezmia – un vasto regno che si estendeva dall’Iran all’Afghanistan odierni
– fu il massacro prima di una carovana commerciale mongola e poi di
un’ambasciata.
La risposta di Gengis Khan fu implacabile:
l’invasione venne condotta con forze schiaccianti, impiegando strategie di
guerra complesse, che includevano finte ritirate e attacchi a sorpresa. Caduta
la città di Otrar, il governatore – che aveva eseguito il massacro dei mongoli
– venne ucciso con una colata di argento fuso negli occhi e nelle orecchie. La
vendetta era compiuta, ma la razzia era soltanto all’inizio.
Città come Bukhara e Samarcanda
capitolarono con tattiche che spaziavano dalla guerra psicologica alla
devastazione totale: durante gli assedi, la prima linea d’attacco era
costituita da prigionieri, mandati letteralmente al macello come scudi umani.
Entrati nella città, i mongoli trucidavano i soldati nemici, riducevano in
schiavitù le donne e gli artigiani venivano risparmiati per le loro capacità.
In preda a un folle terrore, il sultano
Muhammad II si diede a una fuga rocambolesca, inseguito dai due comandanti
mongoli Jebe e Subutai, che non gli diedero tregua finché il regnante,
disperato, morì di sfinimento su un isolotto del Mar Caspio. Gengis Khan
comandò ai due un’ulteriore spedizione, che coprì oltre settemila chilometri:
il cosiddetto “Grande Raid” durò quattro anni e portò i mongoli a contatto con
l’Europa, fino in Crimea.
In parallelo, il figlio più giovane di
Gengis, Tolui, distrusse alcune delle più grandi città del mondo, tra cui
Nishapur, Merv e Herat. A Nishapur, a causa della morte di un genero di Gengis,
la carneficina durò quattro giorni: morirono tutti gli abitanti e persino gli
animali; i cadaveri vennero decapitati, perché alcuni sopravvissuti si erano
nascosti tra i corpi senza vita. Si salvarono soltanto gli artigiani, deportati
in Mongolia. Secondo gli storici persiani dell’epoca, le vittime complessive
dei tre assedi superarono i cinque milioni, una stima forse esagerata, ma che
denunciava l’impatto psicologico (e demografico) che avevano avuto gli
invasori.
Incalzando senza sosta l’esercito
khwarazmiano in fuga, Gengis Khan raggiunse la regione del Punjab. Nonostante
alcuni successi, il clima e la complicata logistica impedirono un’avanzata più
a sud. La guerra, comunque, era ormai conclusa.
Le successive rivolte esplose in
Afghanistan e nel Khorasan, sulla scorta di una vittoria ottenuta dai musulmani
nel Punjab, vennero represse con estrema ferocia. Città rase al suolo, canali
trasformati in acquitrini, raccolti incendiati e alberi da frutto segati alla
base: la devastazione fu totale e impedì ogni proposito di ribellione di quelle
popolazioni.
Uno degli aspetti chiave del successo
delle campagne mongole fu l’uso innovativo della cavalleria in battaglia.
Gengis Khan organizzò i cavalieri in unità basate su multipli di dieci, che
potevano operare indipendentemente o coordinarsi per formare un unico, vasto
esercito.
L’addestramento rigoroso, la velocità e la
capacità di coprire grandi distanze in poco tempo divennero il marchio di
fabbrica dell’esercito mongolo. L’introduzione di tecniche come il tiro con
l’arco da cavallo e la simulazione di ritirate strategiche, seguite da rapidi
contrattacchi, sorprendeva i nemici, meno adattabili a tattiche di guerra
mobili.
Dopo questa vasta campagna militare, i
mongoli stabilirono la nuova frontiera sul fiume Amu Darya. Tornato in Mongolia
nel 1225, Gengis organizzò una campagna contro lo Xia, che sembrava in procinto
di ribellarsi, e ne saccheggiò le città.
Il condottiero si occupò anche di
amministrazione. Istituito il codice civile e penale chiamato Yassa, garantì
una stabilità tale da favorire il processo di integrazione tra popolazioni
diverse. Per facilitare le comunicazioni, Gengis sviluppò un avanzato sistema
di stazioni di posta, noto con il nome di Yam, che consisteva in una serie di
postazioni fisse, distanziate a intervalli regolari, dove merci e messaggeri
potevano essere trasportati con rapidità. I messaggeri dello Yam avevano il
permesso di requisire cibo, cavalli e alloggio, assicurando la velocità di
ricezione degli ordini imperiali.
Gengis Khan pose al centro la protezione
delle vie commerciali: salvaguardò le rotte carovaniere, tra cui la famosa Via
della Seta, e incentivò i mercanti di ogni origine a commerciare sotto la
protezione delle sue leggi. Questo portò a una nuova prosperità, allo scambio
tecnologico e culturale, in quella che venne definita Pax Mongolica.
Uno degli aspetti più rilevanti del
governo mongolo fu la politica di tolleranza religiosa. Nonostante Gengis Khan
fosse seguace della religione tradizionale mongola, che includeva elementi
sciamanici e animistici, egli permetteva e talvolta incoraggiava la pratica di
altre religioni. Cristiani, musulmani, buddhisti e taoisti potevano professare
la loro fede liberamente. In particolare, uno dei fratelli del khan era sposato
con una nestoriana, fede cristiana relativamente diffusa in Asia; i taoisti,
invece, avevano ricevuto l’esenzione dal pagamento dei tributi, complice
l’amicizia tra il condottiero e il maestro cinese Yelu Chucai.
Crocevia culturale e intellettuale,
l’impero mongolo permise la rapida diffusione di innovazioni come la polvere da
sparo e la carta. Sul fronte delle civiltà sottomesse, le campagne militari
furono caratterizzate da imponenti devastazioni. Solo in seguito, Gengis Khan e
i suoi successori si dedicarono alla ricostruzione e alla promozione di
infrastrutture, tuttavia l’impatto della distruzione lasciò ricordi indelebili.
La fine
Gengis Khan morì nel 1227, nel corso della
campagna contro gli Xia, ammalatosi a seguito di una caduta da cavallo durante
una battuta di caccia. La morte venne tenuta nascosta e la capitale Zhongxing
cadde il mese successivo. La città venne razziata con una tale ferocia da
portare all’estinzione della civiltà Xia. Nacquero speculazioni intorno alla
sua fine: morto di malaria o di peste bubbonica, colpito da una freccia o da un
fulmine, o persino pugnalato ai genitali dall’ex moglie dell’imperatore Xia.
Il corpo di Gengis venne trasportato nei
pressi del picco Burkhan Khaldun: i dettagli del corteo funebre e il sito
esatto della sepoltura rimasero segreti. La montagna venne dichiarata zona
proibita. Il luogo della sepoltura rimane un grande mistero irrisolto, protetto
da un segreto che i suoi seguaci portarono con sé nella tomba.
La sua morte segnava la fine di un’era, ma
non dell’impero che aveva creato e che continuò a espandersi con i successori.
Gengis Khan ha dato vita al più grande
impero contiguo della storia, caratterizzato da una straordinaria diversità
etnica e culturale. Il territorio venne diviso tra i suoi figli e altri membri
della famiglia reale, che stabilirono i cosiddetti khanati.
L’erede di Gengis Khan fu il figlio
Ogedei, che aveva problemi di alcoolismo e non era un grande condottiero, ma
era generoso, generalmente benvoluto dai sottoposti e legato alle tradizioni
mongole.
Negli anni seguenti, l’eredità del
condottiero si manifestò soprattutto nella dinastia mongola dei Yuan, in Cina,
fondata da Kublai Khan. Le vie della seta, sotto il controllo mongolo,
divennero sempre più sicure, aumentando il commercio tra Asia e Europa e
facilitando le esplorazioni di mercanti come Marco Polo.
Documentari, film, libri e videogiochi: molti media ritraggono vari aspetti della vita di Gengis Khan, con particolare attenzione al suo genio militare e all’impatto brutale delle sue conquiste. Despota e distruttore, o leader modernizzatore, la sua figura rimane una delle più dibattute della storia.
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