Un approccio umanistico al rapporto tra governo, economia e concetto di potere
Hans Haacke, Les must de Rembrandt (1986) |
Partiamo
dalle basi. Il Presidente del Consiglio propone i ministri, il Presidente della
Repubblica li nomina. Quest’ultimo – è nelle sue facoltà – può rifiutare una o
più nomine. Fatta questa doverosa precisazione, sarebbe ridicolo da entrambe
gli schieramenti (pro e contro Mattarella) perdersi in dispute di diritto,
quando la Costituzione è abbastanza chiara su questo, compreso l’ampio margine
di discrezionalità che compete al PdR.
Ciò
su cui vale la pena porre l’attenzione, anzi, è il contenuto della decisione di
Mattarella più che la forma, con tutte le conseguenze del caso.
Il
messaggio che filtra al cittadino medio – corretto o scorretto che sia – è che
su pressione dei mercati finanziari il PdR ha scelto di rifiutare il governo di
Conte.
Molti
accusano Mattarella di aver attentato alla Costituzione, di essere stato
eversivo e affermano che in Italia si viva sotto dittatura. La prenderemo
larga. Il filoso Theodor Adorno scriveva:
Quanto
più totale la società, tanto più reificato lo spirito e tanto più paradossale
la sua impresa di svincolarsi dalla reificazione con le sue sole forze. Persino
la più lucida consapevolezza dell’imminente catastrofe rischia di degenerare in
chiacchiera inane. La critica della cultura si trova davanti all’ultimo stadio
della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un
atto di barbarie e ciò avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto
impossibile oggi scrivere poesia.
(T.
Adorno, Critica della cultura e società,
1949, pubblicato per la prima volta nel 1951, in Prismi nel 1955)
Ora,
dalla seconda guerra mondiale anche parlare di dittatura è diventato pressoché
impossibile, se non citando i vari Kim Jong-un di turno. “Perché la dittatura è
un’altra cosa”; “Avreste dovuto vivere in quegli anni” e via discorrendo. Senza
però comprendere che la dittatura assume varie forme e connotazioni. Come muta
la democrazia e sviluppa i propri anticorpi, così il sistema di potere (il
filosofo Louis Althusser parlò di Apparati Ideologici Statali, AIS) muta i propri
schemi di controllo.
Questo
non è complottismo, ma analisi di un fenomeno da sempre esistito, che è il
potere. Il potere è una realtà ed esso può essere declinato in forma
egualitaria oppure elitaria (ne abbiamo accennato già qui). Dopodiché si potrebbe discutere a lungo (ma anche no) di
coloro che accusano una dittatura nel nostro Paese e poi vorrebbero riportare
alla luce il fascismo. Non si tratta altro che di una reazione viscerale alla
mancanza di potere l’illusione di organizzarlo intorno ad un leader che
contrasti chi di quel potere ci aveva privato.
Alla
luce di questo, è forse il caso di sgombrare il campo da alcuni tabù
contemporanei. Innanzitutto: no, non viviamo in una dittatura, poiché abbiamo
probabilmente la più ampia gamma di libertà che qualunque altra civiltà abbia
mai sperimentato, nel bene e nel male. Ma sì, è evidente che soprattutto il
sistema finanziario, ad oggi, condizioni pesantemente le scelte politiche di
qualunque Paese nel mondo. Se dunque è opportuno segnalare le debite differenze
tra le dittature della prima metà del Novecento e la situazione dell’attuale
mondo occidentale, non possiamo per questo eliminare alla radice ogni confronto
sul tema del potere superiore (che potremmo anche definire “totale”) a livello
statale e extrastatale.
Il
messaggio che vogliamo trasmettere in questo testo è proprio di metodo,
dopodiché ciò che quella discussione potrà comportare è un altro capitolo. Il
fatto è che sappiamo come molte multinazionali abbiano una tale influenza, un
tale potere da poter persino “comprare” intere piccole nazioni. Siamo
consapevoli che una piccolissima porzione di persone detenga la maggior
parte della ricchezza di questo pianeta, insieme al controllo diretto e
indiretto delle relative risorse. Questi sono dati oggettivi, alla luce del
sole, che evidenziano un potere sul quale è difficile trovare qualcuno che non
concordi. Tuttavia, nel momento in cui si suggerisce che, forse, quel genere di
potere stia facendo pressioni sullo Stato italiano, una parte dei cittadini
sembra ribellarsi; schernisce i creduloni e i complottisti; nega ogni potere
che non sia palese, istituzionale e non.
Eppure,
nel momento in cui si ha la consapevolezza di un sistema di potere, come si può
escludere che esso possa agire per favorire i propri interessi? Questa appare
piuttosto una negazione della realtà, a meno che non si voglia affermare che
questo potere sia immaginario oppure che non abbia interesse a condizionare le
politiche di uno Stato sovrano.
I
più scettici, ad ogni modo, escono da questo schema, per cui esiste – certo –
il potere delle multinazionali, ma esso non ha nulla a che fare con i debiti di
uno Stato e – anche se fosse – quello Stato ha dei vincoli che deve rispettare.
Certamente, esso non può continuare a vivere sopra le proprie possibilità, ma per
quanto possa attuare politiche per risanare tale debito, quest’ultimo non sarà
mai estinto o ridotto ad un livello accettabile, perlomeno non a questo stadio
e con tutti i vantaggi che tale dipendenza comporta.
La
prospettiva, dunque, è quella di rimanere condizionati da chi ha in mano il
debito, con la consapevolezza che questo limite avrà sempre conseguenze sul
reale sviluppo del Paese. L’alternativa è quella di rifiutarsi di pagare il
debito o di trovare scorciatoie: una prospettiva allettante, ma impraticabile e
autodistruttiva in questo particolare sistema globale (una via "umanistica", dunque utopica ad oggi, l’abbiamo proposta qui).
Qual
è la soluzione? Non è facile individuarla. In sistemi sociali più piccoli
rispetto allo Stato, come in quello famigliare, i debiti non ricadono sui figli
a meno che questi non li assumano sulle proprie spalle o che i genitori glieli
impongano. A livello statale, le nuove generazioni italiane hanno invece
ricevuto un debito che essi non hanno contratto e che non li riguarda. Questo,
tuttavia, a patto di rinunciare al tenore di vita medio che il presente sistema
garantisce. Altrimenti – è inevitabile – quel debito sarà non solo accettato
“di riflesso”, ma anche incrementato.
Ciò
di cui non ci rendiamo conto è che allo stato delle cose non è più possibile
sostenere questo stile di vita, se non vivendo continuamente in uno stato di
mendicanza. Che, certo, ci garantirà un consumo di beni pressoché illimitato,
ma ci renderà moralmente sottoposti ai desideri di ogni genere e, di fatto, ai
detentori di quel debito.
Che
cosa fa in tutto questo la politica italiana? Tenta vie assurde su più fronti.
Da un lato, si ostina a trattare i cittadini come degli infanti incapaci di
comprendere le necessità di alcuni obblighi, per cui non parla chiaro ai
cittadini, ma cede allo scontro con l’avversario politico ponendosi come parte
culturalmente superiore. Dall’altro, propone facili soluzioni figlie
dell’illusione che si possa ottenere ancora più di quanto si abbia, sul modello
di Stati che vivono anch’essi al di sopra delle proprie possibilità, ma che in
quanto nazioni storicamente egemoni si permettono di agire da una posizione di
forza (di potere) che a noi non appartiene.
In
pratica, da un lato c’è una sottovalutazione del cittadino medio; dall’altro
una sopravvalutazione. Nel mezzo – e questo è il problema italiano – il nulla.
Mancano prima di tutto il realismo politico e il legame di fiducia tra politica
e cittadino, frutto di decenni di degenerazione di cui siamo ben consapevoli.
Queste
due polarità sono solo nominalmente costruttive, ma in definitiva delineano due
percorsi autodistruttivi. Per il semplice fatto che la soluzione sarebbe
rifondare la fiducia interna al tessuto sociale e rispetto ai suoi rappresentanti;
fiducia che deve tradursi in uno schietto discorso e che necessita di una
riduzione del divario tra ricchi e poveri, perlomeno in termini di opportunità. Non solo. Se mai questo discorso
avrà luogo, esso racconterà di come dovremo rinunciare all’eccesso capitalista
in nome di valori umani di gran lunga più importanti.
Riprendendo
il brano di Adorno (oltre che una terminologia ripresa di recente dai giornali d'Oltralpe), ci domandiamo questo: quale barbarie si cela sotto la
vernice della cultura e del potere? Ed esiste un’alternativa a quella cultura e a quel potere che non scada
in una barbarie ancora peggiore? Quando quei due poli politici in antitesi
sapranno rispondere a queste domande, allora si potrà discutere di fiducia, di
uguaglianza e di valori. E di come fondare su di essi una società umana più
virtuosa e meno materialista e crudamente razionale.
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