Dolore e sofferenza nella relazione con il male
Il dolore: il polo negativo
Guardando il film di The House That Jack Built (qui il trailer), ultima fatica
di Lars von Trier, non abbiamo potuto fare a meno di ricollegarci a quanto
detto in passato su questo blog a proposito del male (qui e qui).
Il film è ambientato negli Stati Uniti degli anni
Settanta. Il protagonista è Jack, un ingegnere ossessivo compulsivo all’apparenza
piuttosto introverso. Con il tempo si trasforma in un serial killer, ma dal suo
punto di vista è più corretto parlare di un “artista”. Per Jack, infatti, ogni
omicidio è un’opera d’arte, da curare in modo maniacale. Nonostante la
pressione della polizia, il suo obiettivo è di realizzare l’opera d’arte
definitiva, costituita da una casa arricchita dai “cimeli” degli omicidi.
Ci colleghiamo così a quanto
detto nel primo dei due post che avevamo scritto. Lars von Trier ci propone per
l’ennesima volta una narrazione del dolore attraverso l’arte cinematografica e
nel farlo parla in buona parte di sé (delle sue paure, pulsioni, ossessioni),
mettendo a nudo l’umanità stessa.
Jack descrive i propri
pensieri con Verge – probabile rimando a Virgilio – un personaggio che ha la
funzione di specchio. Egli mette in bella mostra il proprio ego; anche quando
sembra colpevolizzarsi, in realtà lo fa in modo infantile e non perché sia tale,
ma perché ha scelto di esserlo come logica conseguenza del proprio egocentrismo.
Il film è diviso in cinque
capitoli, metodicamente tematici, e prevede scene piuttosto pesanti, che riguardano
la mutilazione di donne, la tortura di bambini e animali. Insomma, soprattutto
nel secondo caso, il regista ha scelto di portare sullo schermo uno di quei
tabù del cinema (e nello specifico dell’horror) e di farlo con la consueta verve.
Abbiamo già parlato di black humor, quale mezzo di espressione “consentito”
delle pulsioni umane (sempre qui), ma oltre a questo
aspetto – che è pur presente in von Trier – vogliamo ribadire la dimensione
sociale. Perché in una scena
del film vediamo Jack che con ironia intima ad una vittima di gridare e ad
un’altra cerca persino di dare “aiuto”, gridando fuori dal motel. Eppure
nessuno risponde.
Lars von Trier ha l’abilità di
prendere i nostri schemi mentali e di farne carta straccia; agisce in modo
radicale (ma non per questo “d’avanguardia”) e ci prende in giro con un’ironia
estremamente macabra.
Veniamo dunque al vero artista
dietro l’artista-serial killer: il regista. Non racconteremo della sua
particolare infanzia e delle sue fobie, di come la vita… No. Per chi non lo
sapesse, Lars von Trier è quella persona che nel 2011, all’indomani della
presentazione del film Melancholia,
fece in diverse occasioni dichiarazioni filo-naziste. Affermò di essere
contrario alla seconda guerra mondiale, ma anche contro lo stato di Israele,
definito senza mezzi termini “un dito nel culo”. Ammise di essere nazista e di
provare una certa simpatia per Hitler: certo, aveva fatto cose sbagliate, ma in
fondo lo comprendeva. In un’intervista del settembre dello stesso anno, tornò
ancora una volta sull’argomento, asserendo di non essere dispiaciuto, se non
per il fatto di non aver chiarito che si trattava di uno scherzo.
In quell’intervista,
rilasciata a GQ, disse inoltre: «Non penso che ci siano cose giuste o sbagliate
da dire. Penso si possa dire qualunque cosa. Questo sono io e lo stesso è con i
miei film – ogni cosa può essere fatta in un film. Se qualcosa può essere
immaginato dalla mente umana, allora può anche essere detto e mostrato in un
film».
Nella sua prospettiva, l’arte
è al di là del bene e del male; in definitiva essa non è una questione di
morale. Se ammettiamo questo, ci chiediamo dunque quale sia la funzione di
questa narrazione. Rappresentare le cose per quello che sono? Dire che vale
tutto? La risposta non è così semplice. Perché è condivisibile l’idea che l’arte
non debba essere sottoposta alla morale; è condivisibile una poetica del realismo
(benché non sia l’unica possibile), che lasci poi al fruitore la possibilità di
scegliere per sé.
Ma non è accettabile il
relativismo che segue a queste scelte. Non giudicheremo il regista, nemmeno
supponendo il “fascino del male” che lo caratterizza, perché non si deve essere per
forza d’accordo con il punto di vista di un artista per poterne apprezzare l’opera.
Non ha importanza chi sia Lars
von Trier, ma ciò che domanda: può un serial killer essere assimilato ad un
artista? La risposta è ovvia: no. Perché se l’opera d’arte non deve essere
sottoposta alla morale, esiste in ogni caso una distinzione di grado superiore
tra bene e male, che non ha nulla di moralistico. E sarebbe riduttivo oltre che
scorretto assimilare Terra e Cielo, come viene detto nella pellicola: «Io credo che
il Paradiso e l’Inferno siano la medesima cosa. Lo spirito appartiene al
Paradiso e il corpo all’Inferno».
Questa frase è un evidente
controsenso, perché i due periodi possono avere una logica se presi
singolarmente, ma mai insieme. Se vogliamo invece intendere che nell’Uomo sia
presente tanto il bene quanto il male, allora non era necessario scomodare in
modo improprio termini come Paradiso e Inferno.
Abbiamo quindi proseguito il
ragionamento iniziato altrove parlando di Ed Gein e del fascino per il macabro,
aggiungendo appunto il necessario aspetto distintivo, che è decisamente oltre la morale, la quale altro non è che un'applicazione del sentire comune limitato a determinati spazi e tempi (e che quindi non può valere come strumento universale).
D'altra parte, è la
grande illusione dell’essere umano quella di pensare, in una realtà duale, di
poter banalmente “unire” il bene e il male, in un processo perentorio che non
ha nulla di reale. Poiché ciò che si vorrebbe tentare non è un equilibrio dei
due poli che sia superiore al dato materiale, ma un miscuglio relativista che
anziché migliorare l’individuo lo porta all’autodistruzione. Che è esattamente
quello che accade al protagonista Jack: per quanto fascinoso e conturbante,
alla fine la sua opera, incentrata solamente sulla dissoluzione, ha coinvolto
in prima persona il suo artefice.
Introdurremo quindi una nostra
interpretazione (che completeremo nel finale), per tentare di chiarire e
riassumere questi concetti.
Il dolore può essere visto come negativo in
entrambe le sue modalità di espressione: per chi lo pratica e per chi lo
subisce; lo stesso “piacere del dolore” è pur sempre dolore, sebbene la mente
degradata lo interpreti in senso contrario. Questo avviene per una tautologia,
poiché la mente entra in un corto circuito all’interno di quel particolare
sistema, dal quale l’individuo è incapace di uscire. Questo accade quando il dolore è entrato ad una tale profondità da avere assunto l'esclusiva su ogni altra via di uscita.
La sofferenza: il polo positivo
Per descrivere, nella nostra
suddivisione, questo secondo carattere del male, di segno positivo, abbiamo
scelto due cantautori folk. Nel complesso, la nostra scelta ci ha così permesso
di parlare dei nostri interessi, dal cinema horror alla musica folk, nel più
ampio contesto di un discorso sull’essere umano. I due musicisti sono lo
statunitense Jackson C. Frank (1943-1999) e l’inglese Nick Drake (1948-1974).
Jackson C. Frank ebbe una vita
piuttosto tormentata: ad undici anni rimase ustionato per metà del corpo a
causa dell’esplosione di una caldaia; in seguito perse un figlio, ammalato di
fibrosi cistica, e il matrimonio fallì; Frank cadde in depressione a tal punto
da essere ricoverato in un istituto. I decenni seguenti furono altrettanto
tristi: ricoverato più volte in ospedali psichiatrici, finì a vivere per
strada, scomparendo nel nulla, fino a quando un fan, Jim Abbott, si mise con
successo sulle sue tracce. Frank fu colto da un’altra sfortuna: un bambino lo
colpì ad un occhio con un fucile ad aria compressa e lo rese per metà cieco. Abbott
ebbe cura di lui, ma a cinquantasei anni, provato nel fisico e nella mente,
Frank morì per un attacco cardiaco.
Nick Drake condivideva con
Frank un carattere schivo e introverso. Aveva ottenuto un tour attraverso l’Inghilterra,
ma fu costretto ad interromperlo, poiché non era in grado di sostenere il
contatto con il pubblico dei pub inglesi. Negli anni pubblicò alcuni album, ma
a poco a poco la depressione e la dipendenza dai farmaci presero il
sopravvento, tanto da portarlo alla morte. L’opera di Drake fu oggetto di una
riscoperta postuma e diventò un modello per molti musicisti, sia a livello
tecnico che di scrittura poetica.
Entrambi i musicisti,
nonostante la loro vita difficile, ci hanno lasciato canzoni che sono prima di
tutto delle poesie musicali, quindi delle poesie nel modo originario. In questa
loro forma artistica hanno trattato temi quale l’amore e la solitudine,
componendo una miscela riuscita di melanconia e gioia di vivere.
In Half the Distance di Frank, troviamo frasi come «stiamo cavalcando
il drago»; «sii libero, sii fiducioso, sii forte»; «il sole sta nascendo, / il
tempo notturno sta volando via». In I
Want To Be Alone dice: «Canta una canzone d’amore per me, / per dire che
non devi mai essere solo» e «ho bisogno di toccare ogni
pietra, / affrontare la tomba che ho cresciuto».
Per poi citare almeno Milk and Honey, scritta da Frank e
reinterpretata da Drake: «Gira e rigira / il cerchio che brucia, / tutte le
stagioni / una, due e tre, / arriva l’autunno / e poi l’inverno, / la primavera
è nata, / il mondo è libero». E infine, ricordiamo ancora il titolo del secondo
album di Drake, Bryter Layter, forma
storpiata per dire “schiarite, più tardi”, con evidente riferimento ad una
situazione pronta a migliorare.
La loro sofferenza è
particolare; nei testi, nei suoni strumentali e nel tono di voce si avverte a
pieno quella facoltà che altrove (qui) abbiamo ricordato essere la Pazienza, nel
suo significato etimologico di colui che sopporta, quindi soffre, ma che a
lungo andare riesce a perseverare con calma e costanza.
Secondo questa accezione
originaria, la pazienza è dunque la facoltà di assumere un atteggiamento neutro
(è quindi un’operazione attiva), nonché di accettare il dolore con animo
sereno.
Abbiamo per questo definito la
sofferenza come il polo positivo del male. Lars von Trier propone una
narrazione del dolore attraverso l’arte cinematografica, che tuttavia precipita
in tautologia; Jackson C. Frank e Nick Drake, invece, propongono una narrazione
della sofferenza attraverso l’arte musicale, con la prospettiva di poter
evadere dalla prigione materiale.
In questi due generi di
narrazione, siamo di fronte ad un percorso interiore, con due strade che
corrono in parallelo, ma in senso inverso. Nel primo caso non c’è un’uscita dal
tunnel: non solo il male esiste, ma dobbiamo accettarlo a tal punto da rendere
inutile il bene, fino ad un’inevitabile autodistruzione. Nel secondo caso, la
strada è certamente in salita, e la facoltà di pazientare richiede ripetuti
sforzi, ma è la via migliore per poter comprendere il male e riuscire a
superarlo.
Si potrebbe così dire che
quando il dolore si trasforma in sofferenza, allora si è sulla strada giusta
per esorcizzarlo, per liberarsene. In fondo il dolore è immobile, conosce gradi
più o meno profondi, ma è infine statico; al contrario, la sofferenza è parte
di un processo, è dinamica nel momento in cui non si limita a parlare di sé, ma
individua una via di uscita e tenta di percorrerla fino in fondo. Il dolore è
rassegnazione, senza voler dare a questo termine una connotazione morale; la
sofferenza, al contrario, è speranza e occasione di crescita interiore.
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