Il fantasy e le sue razze da un punto di vista simbolico
Questa riflessione prende le mosse dalla lettura dell’interessante
articolo di Luca Pappalardo, intitolato È
tempo che il fantasy abbandoni le razze? (e che trovate qui, sul sito di N3rdcore).
Ci siamo così confrontati con gli antichi miti e con
il significato che essi hanno avuto nel contesto di una società tradizionale,
per poi analizzare come questa eredità sia stata recepita nel presente. In tal
senso abbiamo seguito l’articolo di Pappalardo per proporre ulteriori sfumature
al suo discorso.
In quanto al metodo, imposteremo il discorso non tanto
in termini storici, quanto simbolici, altrimenti l’intero genere fantasy
rischierebbe di perdere terreno rispetto alla realtà storica e sociale, con il
rischio di subordinarsi ad essa. Al contrario, dal momento che riteniamo che il
fantasy sia parte di un’eredità più antica (persino di origine sacrale), sosteniamo
che quando esso sia cosciente del proprio passato e delle possibilità presenti,
possa offrire utili contributi alla società stessa.
Gustave Doré, Scripture Reader in a Night Refuge (1872) |
Partiamo con
ordine, analizzando il concetto di “razza” espresso dalla cultura fantasy.
Innanzitutto, qual è la distanza tra reale e immaginario? Esiste un peccato
originale del genere o siamo noi ad aver frainteso quella differenziazione,
ormai troppo legati a discorsi politicamente corretti?
Il concetto di
razza è una categoria che nel fantasy determina l’appartenenza a Uomini, Elfi,
Orchi e via discorrendo. Che si tratti di un dogma – come suggerisce l’autore
dell’articolo – è un fatto successivo: in origine non era ritenuto tale, poiché
esisteva la coscienza di un’esistenza non solo in senso orizzontale, ma anche
verticale. Questa origine era di tipo sacro e coinvolgeva la sfera spirituale.
Le dottrine
sacre trasmesse oralmente hanno attraversato i secoli sotto due forme molto
diverse: una forma sacerdotale, come quella conservata nella Bibbia o nei Veda, e una forma popolare rimasta orale
fino ai nostri giorni e che si esprime nei racconti e nei miti, questi simboli
incompresi. I contenuti delle leggende non sono, come si crede, favole
infantili, ma un insieme di dati di natura dottrinale che celano la saggezza
delle età antiche sotto una favola preservata, dalla sua stessa oscurità, da
ogni deformazione. Queste narrazioni non provengono, come ipotizza una teoria
di moda, da un inconscio collettivo,
ma costituiscono una memoria ancestrale,
una sovramemoria, si potrebbe dire,
poiché questa memoria immanente forma il residuo incompreso di una coscienza
antica. (Luc Benoist, L’esoterismo,
Luni Editrice, Milano, 2015, p. 36)
D’altra parte,
in tutte le tradizioni si riconoscono temi iniziatici, che alludono soprattutto
a qualcosa di nascosto (Benoist ricorda il soma
degli indù, il sacro Graal, la Pietra Filosofale degli alchimisti e molto altro).
L’eroe si mette in viaggio e può subire sfide e metamorfosi, di cui la più
estrema è la morte, ma al contempo gli è concesso di interagire con il
soprannaturale e di utilizzarlo come strumento.
«È facile
costatare che ciò che invecchia in un’opera, ciò che appare datato, è la sua “psicologia”,
troppo legata alla classe sociale, ai costumi del tempo e alla sua storia. Ciò
che invece resiste e che dura è la sequenza dell’azione, cioè quella dei riti.
La storia d’un uomo, il suo cammino e la sua caduta attraverso gli ostacoli
sono il soggetto eterno dei racconti e dei romanzi». (Benoist, p. 38)
J. R. R. Tolkien
non fu affatto estraneo a questa “ritualità” e a questo “codice” narrativo,
tanto più che anche nell’àmbito della suddivisione per razze, viene definito come
il punto di partenza simbolico da parte di Pappalardo. Lo scrittore britannico visse in
effetti in un’epoca che era molto interessata ad indagare il legame tra
biologia, fisiognomica e razza. Gli esempi sono molteplici: senza scomodare
Cesare Lombroso, basti ricordare tra i tanti il cugino di Darwin, Francis
Galton, che catalogò diversi ritratti fotografici nel vano tentativo di
individuare gli elementi distintivi di un criminale.
Dunque, questo
razzismo ritenuto scientifico non indagava solo razze diverse, ma persino
individui all’interno di una stessa razza, con la conseguenza di aggiungere un’ulteriore
discrimine nella società. Se tuttavia tale era il background, scrittori come Tolkien attinsero a modelli e categorie
che avevano una ragione prescientifica.
Detto ciò, qual
è l’obiettivo di questa categoria? Bisogna distinguere un prima e un dopo. E si
può considerare l’Illuminismo come uno spartiacque storico.
Abbiamo quindi
ricordato che l’origine di queste figure (Elfi, Nani, etc.) risieda nel mito e
nel folklore, declinato in varie forme (fiaba, favola, ma anche in forme legate
ad altri generi come la letteratura odeporica). Queste creature rappresentano
evidentemente un mondo “altro” rispetto a quello umano, in cui è coinvolta
soprattutto la magia.
Pappalardo cita
a proposito lo scrittore e politico Joseph Addison, quando afferma che bisogna
evitare di far parlare le fate come persone della specie umana, poiché è vero
che questi esseri possiedono l’intelligenza, ma la applicano ad un altro contesto
che non è umano. Era il 1712, l’Illuminismo doveva ancora affermarsi, ma la
guerra civile inglese aveva posto le prime basi di una generale rivoluzione nel
pensiero occidentale.
Quando l’Illuminismo
si diffuse, si ritenne che la ragione avrebbe potuto vincere le tenebre dell’ignoranza
e della superstizione, coinvolgendo troppo spesso in queste categorie fenomeni
che erano tutt’altro che ridicole speculazioni primitive. Nel caso del mito e
del folklore, si trattava di un sistema di codici, di segni e di significati,
da rapportare non solo all’esistenza terrena, ma ai diversi piani dell’essere.
Tuttavia, nei
secoli successivi, questa razionale distinzione ridusse le stesse “razze”
soprannaturali a semplici metafore materiali, individuando in esse il nemico storico
di turno.
Se è vero che
nel fantasy magico e umano rientrano in un medesimo discorso, questo – aggiungeremo
– avviene proprio perché (se non altro in origine) vi è la convinzione che oltre
all’Uomo possano coesistere ulteriori manifestazioni dotate di intelligenza. E
che queste, esprimendo diverse caratteristiche della manifestazione, agiscono
non solo in modo diverso, ma appaiono
all’Uomo anche in forme diverse. In questo senso, la distinzione “fisica” è
riflesso di una funzione e non di una banale appartenenza di genere, come può
essere quella di razza in àmbito scientifico.
Giungiamo così
ad affermare per vie diverse che il concetto fantastico di “razza” non esprime
una divisione in sé, ma – se così si può dire – una distinzione di ordine “pratico”.
Certamente,
rimane un problema di fondo, ovvero la particolare connotazione assunta dal
termine “razza” all’indomani dell’ascesa del nazismo.
Ma – lo ribadiamo
– nel fantasy questa distinzione esprime una caratteristica, una funzione
particolare della manifestazione. Così, per esempio, otteniamo Nani dotati di
maggiore forza, personificazione delle forze della terra, oppure Troll, simboli
dell’aspetto selvaggio della natura.
L’Uomo, invece,
appare spesso caratterizzato in una molteplicità di forme, ma questo risponde a
due ragioni: da un lato, l’accesso diretto alla propria forma, che permette di coglierne
più caratteri; dall’altro, il fatto che l’Uomo – quale essere centrale nella
manifestazione – non possa che risultare al centro di un discorso particolare
come quello del fantasy (questo sempre in linea generale).
Ad ogni modo, ritenendo
che il mito e il folklore siano prima di tutto espressioni sacrali, siamo
consapevoli che il fantasy – così come si è definito nell’ultimo secolo – sia stato
circoscritto soprattutto all’espressione narrativa (nell’ampio senso a cui fa
riferimento Pappalardo).
Ancora una
volta, però, giungiamo a conclusioni in comune, pur partendo da strade diverse.
Nel fantasy, le diverse razze – in base alla loro specifica funzione narrativa –
partecipano come strumenti alla trasmissione di un messaggio, che riguarda
tanto l’essere umano nello specifico quanto la manifestazione nel complesso.
Riprendendo l’esempio di Tolkien e dei suoi protagonisti Hobbit, egli si
allontana solo apparentemente dal proprio antropocentrismo. Gli Hobbit,
infatti, sembrano declinare un’umanità edenica, “fuori dal mondo” e per questo
così pura e sincera in tutti i suoi aspetti di vita. Non a caso vengono
chiamati spesso in modo dispregiativo “mezzuomini”, rifacendosi appunto ad una
categoria fisica, esteriore, che viene respinta dagli stessi Hobbit attraverso
la bontà e la determinazione delle proprie azioni. Almeno in tal senso, essi
fungono dunque da modello all’umanità coinvolta nella sfida tra bene e male.
In definitiva,
nel fantasy non esiste alcun “peccato originale”, poiché il termine “razza” si
rifà ad una distinzione che non ha nulla a che fare con la biologia e la
scienza moderna. Mescolare questi due aspetti, al massimo, può essere l’errore.
L’unico vero limite
di questo termine, dunque, sembra essere di ordine sociale. Dal momento che il
fantasy è sempre più partecipe del mondo, questo stesso mondo tende a
reificarlo. Tuttavia, sostituire quel termine con altri come “genere” e “etnia”
vorrebbe dire confermare l’idea di un errore originario dal quale invece
sarebbe bene distaccarsi. Se il pensiero scientifico dovesse egemonizzare anche
l’àmbito del fantasy, allora si ridurrebbe ancora di più lo spazio per poter
trattare, anche in forma ludica e non per forza esistenziale, del rapporto che
l’Uomo ha non solo con i sensi, ma anche con l’immaginazione e l’intuizione.
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