Starman. Un Carpenter amoroso

 


Non capita spesso che un regista come John Carpenter, maestro dell’horror e della tensione urbana, scelga di raccontare una storia d’amore venuta dallo spazio. Eppure Starman (1984) è anche questo: un film di fantascienza malinconico, dove l’alieno non rappresenta una minaccia, ma un riflesso tenero e straniante dell’umano. È una storia che discute il modo in cui affrontiamo il lutto e i progetti di vita falliti per uno scherzo del destino.

 

La storia prende avvio da un incidente spaziale: una sonda terrestre lancia un messaggio di benvenuto nello spazio profondo, e qualcuno risponde, ma l’atterraggio non va come previsto: le autorità militari colpiscono l’astronave e l’essere a bordo è costretto a rifugiarsi in una casa sperduta nel Wisconsin. Lì, per sopravvivere e per farsi comprendere, assume la forma del marito defunto della donna che vi abita: Jenny Hayden (Karen Allen), una donna fragile ma mai passiva, vedova da poco e ancora piena di dolore.

L’alieno – il “clone” – ha il volto e il corpo di Jeff Bridges, qui in una delle sue prove più singolari. Il suo Starman è comprensibilmente disorientato, curioso, privo di malizia: impara lentamente a usare le parole, i gesti, perfino l’umorismo. Ma ha anche una missione: raggiungere un punto di estrazione in Arizona, dove una navicella verrà a prenderlo. Ha solo tre giorni a disposizione e da qui parte un road movie sospeso tra inseguimenti governativi e una crescente intimità. Sulle prime Jenny è ostile, ma alla fine si lascia coinvolgere dalle peculiarità di una creatura che gli ricorda suo marito, ma che al contempo è qualcuno di molto diverso.

 

Carpenter racconta la meraviglia attraverso piccoli gesti: una scena al ristorante dove Starman scopre il piacere del cibo terrestre; un momento commovente (che vi invito a guardare) in cui entra in contatto con un cerbiatto ucciso dai cacciatori. L’alieno ha un grande potere, ma è al contempo innocente, incapace di compiere gesti malvagi.

La pellicola ha anche una sottotraccia politica. La macchina governativa vuole catturare l’estraneo, sezionarlo, capirlo con la violenza: Carpenter riprende un topos del genere horror e lo inserisce in un contesto differente, raccontandoci come la paura sia una risposta primitiva e che talvolta dovremmo fermarci ad ascoltare l’Altro prima di alzare una barricata.

 

Jeff Bridges, con i suoi movimenti goffi e lo sguardo limpido, riesce a non scadere nella caricatura, restituendo all’alieno una grande dignità. Karen Allen è intensa e misurata: non si abbandona al melodramma, ma costruisce il personaggio giocando su una tenerezza trattenuta. È lei l’àncora emotiva, la parte più luminosa di questa storia: l’unico personaggio capace di accogliere il dono che l’alieno le ha portato.

Visivamente essenziale, potente sul piano emotivo ma mai smielato, il film ha tutto il cuore di una certa filmografia anni Ottanta.

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