Note sul Silmarillion

 


Il Silmarillion è l’opera più ambiziosa e articolata di J.R.R. Tolkien, e forse può essere considerata la sua vera eredità letteraria. Pubblicato postumo nel 1977 a cura del figlio Christopher, Il Silmarillion non è un romanzo nel senso tradizionale, ma un corpus mitologico che narra la creazione, l’ascesa e la caduta delle antiche stirpi della Terra di Mezzo.

Diviso in cinque parti principali, il libro inizia con l’Ainulindale, la “musica degli Ainur”, in cui Tolkien immagina la creazione del mondo attraverso una sinfonia cosmica. Segue il Valaquenta, una sorta di “pantheon” che descrive i Valar e i Maiar, entità divine che vegliano (o tramano) sul destino del mondo. Il cuore dell’opera è il Quenta Silmarillion, la storia delle Silmaril, gemme di luce pura create dall’elfo Feanor, e delle guerre devastanti che queste scatenano. Il testo si chiude con l’Akallabeth, il racconto della caduta di Numenor, e con Gli Anelli del Potere e la Terza Era, che collega la mitologia de Il Silmarillion agli eventi de Il Signore degli Anelli.

 

La lettera a Milton Waldman del 1951, scritta da Tolkien ma mai spedita, è uno dei documenti più importanti per comprendere la visione d’insieme che l’Autore aveva della propria opera. Conservata e poi pubblicata nel volume The Letters of J.R.R. Tolkien, questa lunga e densa missiva rappresenta una vera dichiarazione di poetica tolkieniana, nella quale l’Autore riflette sul senso del suo “corpo mitologico” e sulla relazione tra mito, linguaggio e letteratura: «Ma una delle mie passioni egualmente fondamentali ab initio è stata quella per il mito (non per l’allegoria!) e per la fiaba, e soprattutto quella per le leggende eroiche sul crinale fra appunto fiaba e storia, di cui nel mondo (a me accessibile) vi sono davvero troppo pochi esempi in grado di saziare il mio appetito.»

Tolkien scrisse a Waldman, editor della Collins, per spiegare l’unitarietà dell’universo che aveva creato e per difendere la necessità di pubblicare Il Silmarillion insieme a Il Signore degli Anelli. Waldman era perplesso davanti alla vastità e all’apparente eterogeneità del materiale e Tolkien risponde con una riflessione che va ben oltre la questione editoriale: «Il mito e la fiaba debbono, come tutta l’arte, riflettere e contenere, fusi assieme, elementi di verità (e di errore) morale e religiosa, ma non in maniera esplicita; vale a dire non in quella forma nota che è propria al mondo “reale” primario.»

 

Tolkien insiste sul fatto che Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion, le cronache dei Re di Numenor, le genealogie, le mappe e persino le lingue non siano opere separate, ma tessere di un unico grande mosaico. Questo universo è stato progettato con la maggior coerenza interna possibile, a partire dalle lingue inventate (soprattutto il quenya e il sindarin), che sono il cuore pulsante della sua opera. I miti e le storie sono nati per dare un contesto e una memoria a quei linguaggi: la narrativa, dunque, è funzionale al linguaggio, non viceversa.

Tolkien esplicita il suo antico desiderio di creare una mitologia che potesse colmare il vuoto lasciato nella cultura inglese dalla cristianizzazione, che aveva fatto perdere l’eredità pagana sopravvissuta altrove: «[…] mi sono sempre, sin dal principio, rammaricato per la povertà del mio beneamato Paese: esso non possedeva racconti davvero propri (tutt’uno con la sua lingua e con il suo territorio), né della qualità che io cercavo e che trovavo (come elemento) in leggende di altre terre. Ce n’erano di greci, di celtici, di romanzi, di germanici, di scandinavi e di finnici (che mi hanno influenzato molto), ma nulla d’inglese, a parte cose impoverite degne solo di libricini a buon mercato.»

 

Uno dei passaggi più toccanti è quello in cui Tolkien riflette sul senso tragico e malinconico della sua mitologia: la bellezza ferita, la caduta, il dolore che accompagna ogni grande impresa. È una mitologia post-edenica, consapevole della corruzione del mondo, ma non priva di speranza: «Comunque, tutto questo materiale riguarda principalmente la Caduta, la Mortalità e la Macchina. […] Con questa espressione [Macchina] intendo infatti indicare l’uso di qualsiasi schema o di qualsiasi strumento esterno (insomma, i congegni meccanici) in alternativa allo sviluppo delle proprie potenzialità e dei propri talenti interiori, o anche l’uso di questi talenti per una malvagia intenzione di dominio: demolire il mondo reale o costringere le volontà altrui. La Macchina è la più evidente forma moderna di Magia che possediamo, e le due sono più strettamente correlate di quanto comunemente si ritenga.»

E ancora, per chiarire la terminologia: «Ma gli Elfi sono lì (nei miei racconti) proprio per dimostrare la differenza [tra magia e azione degli Elfi]. La loro “magia” è Arte, liberata da molte delle sue limitazioni umane: più facile, più veloce, più completa (il prodotto e la sua ideazione in corrispondenza perfetta). E il suo scopo è precipuamente l’Arte, non il Potere; la subcreazione, non la dominazione e il ri-facimento tirannico della Creazione.»

 

Pur non essendo un’allegoria religiosa, il legendarium di Tolkien è profondamente intriso di spiritualità cristiana, con non pochi elementi gnostici. Nella lettera si percepisce il tentativo di riconciliare la creazione mitopoietica con una visione del mondo cristiana, non dogmatica ma ispirata.

La lettera è fondamentale per gli studiosi, per i lettori in cerca di una guida autorevole, per gli scrittori, in quanto è un esempio sublime di worldbuilding e, infine, per la cultura inglese, poiché testimonia il tentativo straordinario di voler restituire al proprio popolo un’identità mitica perduta. Con la lettura de Il Silmarillion, assistiamo a tutti gli effetti alla nascita di un mito moderno.

 

Ainulindale

 

L’Ainulindale, ovvero la “Musica degli Ainur”, è il racconto mitico dell’origine dell’universo tolkieniano, ed è posto in apertura de Il Silmarillion come una cosmogonia. Il testo si apre così: «Esisteva Eru, l’Unico, che in Arda è chiamato Iluvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altra cosa fosse creata. Ed gli parlò loro, proponendo loro temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto. Ma a lungo cantarono ognuno da solo, o solamente pochi assieme, mentre gli altri ascoltavano; ciascuno di loro penetrava infatti soltanto quella parte della mente di Iluvatar da cui proveniva e nella comprensione dei propri fratelli essi crescevano solo lentamente. Tuttavia, semplicemente ascoltando pervenivano a una comprensione più profonda, e accrescevano l’unisono e l’armonia fra loro.»

 

L’Uno che esiste prima del tempo crea gli Ainur, spiriti potenti generati dal pensiero stesso di Iluvatar. A ognuno di essi egli dona una parte della propria sapienza, ma nessuno conosce tutto. Per esprimere la propria volontà creatrice, Iluvatar propone agli Ainur una grande musica, un’armonia cosmica che rifletta e realizzi il suo disegno.

Gli Ainur cominciano a cantare insieme, e dalle loro voci nasce una melodia sublime, ma presto uno di loro, Melkor, il più potente, introduce motivi dissonanti, desiderando imporsi sugli altri e creare secondo la propria volontà. Melkor semina caos nella musica, tentando di oscurare l’armonia con il proprio canto ribelle. Tuttavia, Iluvatar risponde introducendo nuovi temi musicali, più profondi e belli, che inglobano anche la dissonanza e la trasformano. Alla fine, interrompe la musica con un gesto, dichiarando che tutto ciò che è stato cantato avrà esistenza reale, e che anche la ribellione sarà ricompresa nel suo disegno più vasto.

 

Iluvatar mostra quindi agli Ainur una visione del mondo che hanno contribuito a creare con la loro musica: «Poi Iluvatar parlò e disse: “Potenti sono gli Ainur, e potentissimo tra loro è Melkor; ma affinché egli sappia, e tutti gli Ainur sappiano, che io sono Iluvatar, le cose che avete cantato io le mostrerò così che voi possiate vedere ciò che avete fatto. E tu, Melkor, vedrai come non sia possibile eseguire alcun tema che non abbia la propria ultima origine in me e come nessuno abbia il potere di alterare la musica a mio dispetto. Poiché colui che vi tenterà non farò che provare di essere mio strumento nel concepire cose maggiormente meravigliose, cose che egli stesso non aveva immaginato.”»

Si tratta di Ea, l’universo materiale che ora esiste nel tempo: «Ma quando giunsero nel Vuoto, Iluvatar disse loro: “Guardate la vostra Musica!”. Ed egli mostrò loro una visione, conferendo agli Ainur vista là dove prima era solo udito, ed essi videro un Mondo nuovo reso visibile davanti a sé, e il mondo era sferico in mezzo al Vuoto, ed era sospeso in esso, ma non faceva parte di esso. E mentre guardavano e si meravigliavano, questo Mondo incominciò a svolgere la propria storia, e sembrò loro che esso vivesse e che crescesse.»

Alcuni Ainur decidono di scendere nel mondo per plasmarlo e vegliarlo, diventando i Valar e i Maiar. Melkor scende a sua volta, ma per dominarlo e corromperlo. La creazione è compiuta, ma il conflitto tra ordine e disordine, armonia e dissonanza, è appena cominciato.

L’Ainulindale affronta la creazione artistica come atto divino, la libertà e la ribellione, il male come parodia del bene e l’idea che ogni dissonanza, per quanto tragica, possa essere infine ricomposta in una bellezza più grande. È una narrazione teologica, in cui la musica – arte “invisibile” per eccellenza – gioca un ruolo fondamentale.

 

Valaquenta

 

Il Valaquenta, il “racconto dei Valar”, è il secondo testo de Il Silmarillion e ha una funzione quasi liturgica: dopo la creazione del mondo narrata nell’Ainulindale, qui Tolkien introduce le potenze divine che lo abitano, ne descrive la natura, i ruoli e i rapporti. Si tratta di un elenco mitologico strutturato, ma mai arido, che mostra l’impronta profondamente mitopoietica del progetto tolkieniano.

Al centro ci sono i Valar, gli Ainur più potenti che scelsero di entrare in Ea per portare a compimento il disegno di Iluvatar. Sono quattordici: sette Valar e sette Valier.

Tra loro spiccano Manwe, signore dell’aria e del cielo, e Varda, regina delle stelle: la loro unione rappresenta la sublimazione spirituale del potere. Varda è particolarmente venerata dagli Elfi, che la chiamano Elbereth. Ulmo, signore delle acque, è più distante dagli altri Valar ma profondamente connesso al mondo, perché tutte le acque conservano la sua voce. Aule, il fabbro, crea le forme e le sostanze della terra, ed è colui che darà origine ai Nani, seppure con l’approvazione successiva di Iluvatar. Sua moglie Yavanna è la forza della crescita, della natura viva, colei che genera gli alberi e le piante. Seguono Namo (chiamato Mandos), giudice dei morti, e Nienna, sorella dei Feanturi, spirito della compassione e del dolore: «Così grande fu la sua pena, quando la Musica si dipanò, che il suo canto si mutò in lamento assai prima che terminasse, e il suono del gemito fu intrecciato nei temi del Mondo prima che questo avesse inizio. Ma ella non piange per sé, e coloro che la odono, imparano la pietà e a perseverare nella speranza.»

Troviamo poi Tulkas, la forza bruta e gioiosa; Orome, il cacciatore, che per primo scopre gli Elfi; e Vana e Este, legate al riposo e al rinnovamento.

 

Chiudono l’elenco i Maiar, spiriti minori («il popolo dei Valar, nonché i loro servitori e i loro aiutanti»), tra cui Eonwe e Ilmare, ma anche figure oscure come Sauron (Gorthaur il Crudele), che era un Maia di Aule prima di essere corrotto.

Melkor, il più potente degli Ainur, è l’unico escluso dal novero dei Valar, e la sua figura domina in ombra il Valaquenta. I Noldor, Elfi che soffrirono più di tutti la sua malvagità, lo chiamano Morgoth, l’Oscuro Nemico del Mondo: «Cominciò con il desiderio della Luce, ma quando non riuscì a possederla esclusivamente per sé, calò, tra fuoco e ira, dentro un grande incendio, giù nell’Oscurità.» Tra i Maiar che gli rimasero sempre fedeli si trovano anche i Valaraukar, «i flagelli di fuoco che nella Terra di Mezzo furono chiamati Balrog, i demoni del terrore.» Melkor non è solo il ribelle, ma l’archetipo della caduta per superbia, colui che desidera possedere, non partecipare. La sua presenza suggerisce che il male non è solo una forza contraria, ma una deviazione del bene originario, un’ossessione per l’ordine e la potenza, svincolata dalla compassione.

Il Valaquenta è un testo che mette in scena la pluralità dell’ordine cosmico: ogni Valar rappresenta un principio, ma nessuno è autosufficiente. La loro armonia è la chiave dell’equilibrio del mondo, e le tensioni tra loro (come tra Aule e Yavanna, o la distanza tra Ulmo e Manwe) non sono difetti, ma complessità necessarie. È una teologia mitica che rifiuta il monismo e abbraccia l’idea che l’unità derivi dall’accordo delle diversità.

Un aspetto che trovo affascinante è la maniera in cui le divinità vengono raccontate senza dogmi: i Valar sono fallibili, pieni di sfumature; alcuni sono fieri, altri compassionevoli; alcuni si nascondono, altri agiscono. La cosmologia tolkieniana ha il respiro dei miti antichi, ma parla all’uomo contemporaneo: dice che il mondo è un’opera collettiva, che il bene è complesso e che perfino gli spiriti più elevati devono imparare a coabitare nella differenza.

 

Quenta Silmarillion

 

Il Quenta Silmarillion è il cuore narrativo dell’intera opera: è il grande racconto delle tre Ere della Prima Età del mondo, e narra le gesta, le colpe, le glorie e le cadute delle creature di Arda. È un testo solenne e tragico, scritto in uno stile epico e arcaico, che rievoca il tono dei miti nordici o biblici. Eppure, nonostante la distanza linguistica e temporale che Tolkien impone, le vicende narrate sono colme di passioni universali: desiderio, orgoglio, vendetta e speranza.

Tutto ha inizio con la Prima Guerra, svoltasi prima che Arda fosse pienamente formata: Melkor aveva avuto il sopravvento, finché giunse Tulkas il Forte, che lo sconfisse e divenne uno dei Valar. Avviene quindi la costruzione vera e propria di Arda, ma, al suo culmine, Melkor costruisce la roccaforte di Utumno, nell’estremo nord della Terra di Mezzo, dove cominciano a formarsi fetidi acquitrini e creature mostruose. Melkor distrugge la dimora dei Valar su Almaren e termina la Primavera di Arda, ma i Valar, prima fuggitivi, creano una sorta di Eden immortale nella regione di Valinor. Qui Yavanna fece un canto che portò alla nascita dei Due Alberi: a partire dalla fioritura del più anziano dei due, Telperion, i Valar stabilirono il calcolo del tempo del loro regno. Erano iniziati i Giorni della Beatitudine.

 

Toccante il racconto della nascita dei Nani, a opera dell’impaziente Aule, che «desiderava tanto ardentemente l’avvento dei Figli». Così Iluvatar gli chiese conto del suo gesto inconsulto e Aule si rattristì: era pronto a distruggere i Nani per ottenere il perdono di Iluvatar, ma questi ne ebbe compassione e gli permise di salvarli, a patto che i Nani restassero sepolti nella montagna fino all’arrivo dei Figli.

Arrivarono poi gli Elfi, i Quendi, che vennero sùbito irretiti da Melkor, il quale ne imprigionò una parte in Utumno e «per mezzo di lente arti crudeli vennero corrotti e resi schiavi; e così Melkor generò l’orrenda razza degli Orchi che sono un atto d’invidia e di scherno verso gli Elfi, dei quali in seguito furono i nemici più irriducibili.»

I Valar mossero allora guerra a Melkor e la Terra di Mezzo ne uscì sconvolta. Tulkas sconfisse e imprigionò Melkor con la catena Angainor, forgiata da Aule. Tuttavia, i Valar non scoprirono tutti i sotterranei nascosti di Melkor e alcuni servitori riuscirono a sfuggire, tra cui Sauron. Melkor finì nella fortezza di Mandos, dove rimase per tre ere.

 

I Valar scelsero le dimore per gli Elfi, i quali in parte accettarono di spostarsi (e vennero definiti Eldar) e in parte scelsero altri luoghi (gli Avari). Vennero guidati da Orome, in sella al destriero Nahar. Tra gli Eldar, i Vanyar guidati da Ingwe, il supremo signore della razza degli Elfi, giunsero a Valinor per primi e il loro re sedette «ai piedi delle Potenze» e non fece più ritorno alla Terra di Mezzo. I cosiddetti “Elfi Chiari” erano i prediletti di Manwe e di Varda.

Seguivano i Noldor, il popolo di Finwe, amici di Aule, i quali impararono molte cose da lui, tra cui la fabbricazione dei Silmaril, le tre gemme splendenti forgiate da Feanor, il più grande degli Elfi Noldor. Vennero infine i Teleri, gli Elfi del Mare (i Falmari), guidati dai fratelli Elwe Singollo e Olwe.

Trascorse il lungo Meriggio di Valinor, quando al suo termine terminò la prigionia di Melkor. Come promesso, Manwe lo ricondusse di fronte ai troni dei Valar e questi si prostrò ai piedi di Manwe implorando perdono. Nei primi tempi, Melkor venne tenuto sotto osservazione dentro le porte di Valmar; poi cominciò ad aiutare le altre creature, ma era tutta una messinscena: «e a Manwe parve che il male di Melkor fosse stato risanato. Questo perché Manwe era scevro dal male e quindi non riusciva a comprenderlo, e sapeva che in principio, nella mente d’Iluvatar, Melkor era stato tale e quale a lui […]».

 

Nei Silmaril, Feanor imprigionò la luce originaria dei Due Alberi di Valinor, simbolo di purezza e armonia: «essendo essi in effetti cose viventi, della luce godevano e la recepivano e la restituivano in sfumature più meravigliose ancora. […] Mandos predisse che i destini di Arda, terra, mare e aria, erano racchiusi nei Silmaril.» Questa creazione segna il culmine dell’arte elfica, ma anche l’inizio della rovina: Melkor bramava le gemme e riuscì a mettere i Noldor contro i Valar, facendo credere agli Elfi di esserne i servi. Insegnò loro a fabbricare le armi e Feanor ne produsse di terribili, incitando alla rivolta. Quando Melkor corruppe e distrusse i Due Alberi e rubò i Silmaril, uccidendo il padre di Feanor, si scatenò una spirale di tragedie.

Feanor e molti Noldor giurarono vendetta; pronunciarono il fatale Giuramento dei Feanoriani e lasciarono Valinor per inseguire Melkor (ora chiamato Morgoth) nella Terra di Mezzo. Il loro esilio segnò la fine dell’innocenza elfica e si moltiplicarono i fratricidi e i tradimenti. I Feanoriani arrivarono a bruciare le navi per impedire ad altri Elfi di seguirli, lasciando il fratello Fingolfin a una marcia mortale attraverso i ghiacci. Il libro segue poi le vicende dei vari clan degli Elfi, dei Sindar rimasti in Beleriand, e degli Uomini, che si destarono nella Terra di Mezzo e furono coinvolti nel conflitto.

Ma come vengono presentati gli Uomini rispetto alle altre creature che li precedono? Questo passaggio è fondamentale: «Gli Elfi e gli Uomini sono infatti i Figli d’Ilùvatar; e poiché non compresero appieno quel tema attraverso il quale i Figli entrarono nella Musica, nessuno degli Ainur osò aggiungere alcunché al loro modo d’essere. Per questo i Valar sono i loro parenti più che i loro antenati, e i loro capitani più che i loro padroni; e sebbene sempre, nei loro rapporti con gli Elfi e con gli Uomini, gli Ainur abbiano tentato di costringerli quando essi non si lasciavano guidare, di rado questo si è volto al bene, per quanto buono fosse l’intento.»

 

Tra le narrazioni più toccanti vi è la storia di Beren e Luthien, un uomo e un’elfa che osarono penetrare nelle profondità di Angband per strappare un Silmaril dalla corona di Morgoth. È una delle rare storie con un (relativo) lieto fine: Beren muore, ma viene riportato in vita, e Luthien rinuncia all’immortalità per condividere il destino umano. Il loro amore è potente perché rompe le barriere della razza e del destino, e annuncia già la linea di sangue da cui nasceranno Elrond e Aragorn.

Segue la tragica epopea di Turin Turambar, l’eroe maledetto, figlio di Hurin. La sua vita è segnata da sventure, incesto, vendetta cieca e infine suicidio. Il tono è cupo e shakespeariano, ma emerge anche una profonda umanità. In questa vicenda, Tolkien esplora il tema del fato che autodistrugge e dell’orgoglio che conduce alla rovina.

Un’altra storia cruciale è quella di Earendil, figlio di Tuor e di Idril, che riuscì a giungere a Valinor portando un Silmaril per chiedere aiuto agli dèi. È lui che cambia il corso della storia: i Valar intervennero con potenza nella guerra finale contro Morgoth, che fu infine sconfitto e cacciato, ma a un prezzo altissimo, perché Beleriand venne sommersa, gran parte dei suoi popoli distrutta e i Silmaril perduti per sempre.

 

Il Quenta Silmarillion è una grande riflessione sui temi del desiderio e della caduta. Il bene e il male non rappresentano semplici categorie morali, ma forze in tensione, spesso confuse: il male nasce dal bene portato all’eccesso, come l’arte di Feanor, che diventa possesso ossessivo. Il Giuramento è una catena spirituale, che condanna intere generazioni. La hybris di personaggi come Feanor, Turin o Maeglin li porta a compiere scelte disastrose pur partendo da motivazioni comprensibili. Al contempo, Tolkien inserisce semi di speranza nella bellezza, nell’amore che sfida il destino e nella memoria che salva ciò che è stato perduto.

Il linguaggio elevato e solenne non è solo un esercizio di stile, ma un dispositivo mitopoietico: dopotutto, l’intento di Tolkien era di costruire una mitologia coerente e credibile, contraddistinta da una certa “distanza epica” dei testi antichi. In mezzo a tanta solennità, vibrano ugualmente emozioni reali e tensioni sommerse.

Qui più che altrove si manifesta la vocazione filologica di Tolkien e la sua umanità. La narrazione è tragica, a tratti spietata, ma mai nichilista. Anche quando ogni luce sembra dissolversi, restano la memoria e il fascino dei versi che raccontano ciò che fu. È un testo che richiede dedizione e pazienza, che mi ha tenuto ancorato alle sue pagine per settimane, ma che ripaga con una profondità unica. In un’editoria contemporanea che cerca scorciatoie narrative e persegue standard da catena di montaggio, il Quenta Silmarillion sfida la classificazione in generi e dimostra che è ancora possibile farsi artefici di un mondo leggendario.

 

Akallabeth

 

È il quarto e penultimo testo de Il Silmarillion e rappresenta un ponte tra le vicende mitologiche delle Ere delle Stelle e la Terza Era de Il Signore degli Anelli. Il titolo significa “la caduta” e si riferisce alla caduta di Numenor, una delle narrazioni più tragiche dell’intero legendarium tolkieniano.

Lo stile è ancora epico, sobrio e distaccato, con accenti biblici; più vicino alla prosa mitologica e cronachistica che al romanzo. Akallabeth si distingue ne Il Silmarillion per essere una storia di Uomini, non di Elfi o di Valar, ed è uno dei testi più “moderni” del corpus tolkieniano per ambientazione, tensione tragica e implicazioni morali.

Rappresenta la caduta di una civiltà al massimo della sua potenza (con riferimenti ad Atlantide, che tanto interessava l’Autore: si veda l’Atlantis Complex), riflettendo la visione pessimistica di Tolkien sull’arroganza umana e sul pericolo della tecnocrazia priva di umiltà, attraverso la figura di un re potente ma spiritualmente cieco.

 

Numenor era un’isola donata da Iluvatar agli Uomini fedeli alla causa degli Elfi e dei Valar, alla fine della Prima Era. I Numenoreani erano più longevi, saggi e potenti rispetto agli altri Uomini, e per secoli vissero in armonia con il volere degli dèi.

Con il passare delle generazioni, però, essi iniziarono a temere la morte e a invidiare l’immortalità degli Elfi: ciò li portò gradualmente ad allontanarsi dai Valar e a diventare ostili alle leggi divine. La loro decadenza morale fu lenta ma inesorabile e Sauron la favorì, giungendo a Numenor prima come prigioniero e poi in qualità di consigliere del re.

Il punto di svolta avviene con l’ascesa al trono di Ar-Pharazon, ultimo re di Numenor, un uomo potente e orgoglioso. Egli decise di sfidare apertamente i Valar, sbarcando addirittura ad Aman, la terra benedetta, per cercare l’immortalità con la forza. Questo atto blasfemo portò alla punizione divina: Iluvatar intervenne direttamente e sommerse Numenor sotto il mare, distruggendola per sempre. Solo pochi fedeli (i Dunedain), guidati da Elendil e dai suoi figli, riuscirono a fuggire verso la Terra di Mezzo: sono gli antenati dei regni di Arnor e di Gondor.

 

Degli Anelli del Potere e della Terza Era in cui questi racconti giungono a conclusione

 

L’epilogo de Il Silmarillion funge da cerniera narrativa tra la Seconda Era, culminata con la caduta di Numenor, e la Terza Era, che si conclude con gli eventi narrati ne Il Signore degli Anelli.

Vi troviamo la creazione degli Anelli del Potere da parte degli Elfi, sotto la guida ingannevole di Sauron, il quale si mostra sotto mentite spoglie e forgia a Mordor l’Unico Anello per dominare tutti gli altri. Segue la guerra tra Sauron e gli Elfi, che culmina nella caduta di Eregion.

Gli Anelli vengono allora distribuiti: tre agli Elfi, sette ai Nani, nove agli Uomini. Progressivamente essi assoggettano i possessori al potere oscuro. In un intermezzo importante, si narra della fondazione dei regni in esilio di Arnor e di Gondor da parte dei Numenoreani superstiti, guidati da Elendil e dai suoi figli. Si giunge così alla prima sconfitta di Sauron nella battaglia dell’Ultima Alleanza, nella quale Isildur si impossessa dell’Unico Anello.

La lunga ombra di Sauron sulla Terza Era continua tuttavia a diffondersi ed egli acquisisce nuovo potere, prima a Dol Guldur e poi a Mordor. Si narra, infine, della distruzione dell’Anello da parte di Frodo e di Sam, segnando la fine della Terza Era.

 

Lo stile è omogeneo rispetto ai capitoli precedenti, ma si fa più sobrio e meno mitologico. È un riassunto denso di eventi, più simile a un compendio storico: una sorta di sintesi ufficiale scritta da un Elfo per tramandare le memorie dei secoli bui della Terra di Mezzo.

D’altra parte, questo testo racconta del tramonto dell’era mitica e del passaggio dalle razze antiche (Elfi, Maiar, Numenoreani) agli uomini comuni. È una transizione dalla leggenda alla storia, dal mito al romanzo, e completa l’arco narrativo iniziato in precedenza, mostrando le conseguenze della caduta di Numenor, dell’opera di Feanor (tramite Celebrimbor) e dell’inganno di Morgoth attraverso il suo servo Sauron.

Il lettore è così preparato a Il Signore degli Anelli, trovando un contesto che ne esalta la portata epica e simbolica. Le grandi civiltà cadono; i re sono dimenticati; i poteri magici si esauriscono, ma permane la speranza, espressa nella scelta del bene anche quando non conviene.

 

Una conclusione

 

Il Silmarillion è un “libro impossibile”: Tolkien ne scrisse diverse versioni; provò a scriverlo persino in versi, poi tornò alla prosa. Il figlio Christopher formò il testo che generalmente conosciamo, cercando una sintesi a dir poco complessa, che ha portato a un libro spesso difficile da leggere, pieno di elenchi, di nomi di esseri viventi e di luoghi e di eventi riportati in stile cronachistico o leggendario, non diversamente da certi libri “genealogici” o storici della Bibbia o di altri testi sacri.

Leggere Il Silmarillion è un’esperienza densa, talvolta aspra, ma che non può non affascinare per la sua imponenza. È come affacciarsi su un’epoca remota, su una storia sacra di un mondo che non è mai esistito, ma che è stato costruito con la coerenza, la gravità e la poesia dei miti antichi. Più che un semplice prequel, è la radice profonda dell’universo tolkieniano; un testo sacro elfico che narra il dolore della bellezza perduta, l’orgoglio degli dèi e la nostalgia per un’armonia infranta.

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