L’immagine e la sua complessità. Speculazioni artistiche sulle macchie di Rorschach
Struttura delle
tavole e ipotesi artistica
La quarta tavola di Rorschach |
Lo psichiatra
svizzero Hermann Rorschach (1884-1922) pubblicò alcune immagini del celebre
test sulla personalità nel 1921. Il test si fondava su dieci tavole che presentavano
macchie d’inchiostro su una superficie: cinque tavole in b/n, due in nero e
rosso, tre a colori.
Le macchie non
rappresentano nulla, oppure tutto: non si possono dire davvero astratte,
sebbene per alcuni l’interpretazione le renda tali.
Eppure nel test
di Rorschach non è importante solo l’interpretazione dell’immagine (il “che
cosa” è rappresentato), ma anche se l’immagine sia vista come ferma o in
movimento; come siano state interpretate le eventuali sfumature; su quali
dettagli si sia concentrato il soggetto; quanto tempo sia stato impiegato e
molto altro ancora.
L’interpretazione
della forma, per esempio, comunica allo psicologo il grado di connessione del
soggetto con la realtà. Il colore, invece, come ben descritto dalla tradizione
di molte antiche civiltà, è connesso alle emozioni. Il movimento può
evidenziare un bisogno di evasione, il desiderio di uscire da una situazione,
la volontà di realizzare qualcosa: può indicare una persona con la tendenza a
fuggire dalla realtà.
Le macchie di
Rorschach sono caratterizzate da un certo fascino, che le ha rese facilmente
riconoscibili nei vari media, cinema in primis.
Secondo gli
studi di Richard Taylor, dell’Università dell’Oregon, il minor grado di
complessità delle immagini evocherebbe un maggior numero di interpretazioni. La
varietà tuttavia, benché ridotta al minimo, deve essere presente affinché la
figura evochi effettivamente qualcosa di significativo.
Non è un caso
che la metà delle tavole sia in bianco e nero. Come è noto, in
fotografia il b/n ha il pregio di “nascondere i difetti”, in molti casi di
ridurre la complessità di un’immagine a favore dei tratti essenziali.
L’artista
giapponese Kazuo Shiraga potrebbe in qualche modo ricordare con le sue opere le
tavole di Rorschach, così come molti altri artisti nipponici anche precedenti
al Novecento. Ma si tratta con ogni probabilità di una coincidenza, forse con
un piccolo punto di incontro: da un lato, le macchie di Rorschach invitano
l’osservatore a leggere la figura e tramite questa lettura ad indagare se
stesso; dall’altro, l’opera di Shiraga aveva valore soprattutto per il gesto
compiuto dall’artista, quale esplorazione, talvolta esasperazione, della
tradizionale ritualità giapponese, riflesso di una saggezza ormai quasi
smarrita.
Oppure, le
tavole possono ricordare concettualmente un’opera come Abstract Painting (1960-61) di Ad Reinhardt: un dipinto puro, senza
tempo, senza connessioni, disinteressato, con coscienza di sé. Eppure sarebbe
ancora inadatto alla definizione delle tavole, che al contrario rispondono ad
un interesse, benché risultino essere in una certa misura senza tempo e
connessioni.
Il critico d’arte
Michael Fried presupponeva proprio questo in un’opera del genere:
l’assorbimento visivo dello spettatore e la rimozione di ogni esperienza di
temporalità, che – nel caso delle tavole – potrebbe consentire un’indagine
dell’individuo smascherando le strutture successive ad un trauma o ad un
determinato evento. In tal senso, le macchie sarebbero in grado di fare luce
sull’individuo ponendolo di fronte ad un’atemporalità in cui ogni esperienza e
sentimento appare come un tutto, quel tutto che descrive la nostra identità.
Non si può
quindi riconoscere le tavole di Rorschach nel solco della ritualità nipponica,
né in esperienze artistiche come l’Espressionismo astratto o il Minimalismo, dal momento che
esse evocano una complessità che proviene, certo, dal soggetto che osserva, ma
che dipende da una precisa volontà di suscitare questa risposta.
L’elemento che
forse rende suggestive le tavole, che da un punto di vista artistico le rende belle, è la forma relativamente semplice
e definita, nella quale si inserisce la giusta misura di dettagli. Sono – per
così dire – forme dotate di una propria grazia, non complicata da particolari
emotivi di alcun genere. Aspetto che per assurdo farebbe venire in mente una
scultura neoclassica!
Alla luce di
queste riflessioni, si possono considerare le tavole un’opera d’arte? Per
quanto ne sappiamo, non erano state pensate in questo modo. Non sono state
“consacrate” dall’ambiente della galleria e il mercato non ne dà un valore
specifico, anche considerando che non esiste un vero e proprio originale
(aspetto però che nell’arte contemporanea può essere trascurato).
Esiste d’altra
parte una discussione sull’autorialità, non tanto in senso artistico, quanto di
diritto, incentrata su chi possa usufruire di queste immagini a livello
commerciale, vantando un qualche genere di esclusività.
Ad ogni modo,
non è necessario che un’opera d’arte venga concepita in quanto tale per esserlo
a tutti gli effetti. Dopotutto, le macchie di Rorschach producono in chi le
osserva molte reazioni tipiche di chi ammira un’opera d’arte canonica. Quindi
abbiamo stupore, disagio, senso della bellezza, paura e repulsione, in generale
l’evocazione di stati d’animo spesso contrastanti. In due semplici parole:
fascino e suggestione. Quanto basta – almeno a nostro modesto parere – per
considerare queste tavole anche da un
punto di vista artistico.
Segnatamente,
analizzeremo vari aspetti all’interno dei due macro-sistemi di tempo e di
spazio. Eviteremo il più possibile di presentare le nostre suggestioni
personali (altrimenti, per assurdo, si correrebbe il rischio di divenire a
nostra volta oggetto di studio), concentrandoci invece su alcuni valori
oggettivi della rappresentazione.
Prima di fare
questo occorre però una precisazione. Le macchie di Rorschach sono state
studiate affinché determinate forme e sequenze potessero produrre determinati
risultati. L’obiettivo di questo test è di fare emergere la personalità prima
di tutto attraverso lo strumento della vista. Per quanto queste immagini siano
state elaborate in una mentalità scientifica, esse rimarranno sempre ciò che
sono, appunto immagini, e come tali hanno in comune fattori (come linee,
profondità, sfumature, tonalità, etc.) che le avvicinano a qualsiasi altra
raffigurazione di tipo non scientifico.
L’individuo e il
tempo
K. Shiraga, Hachikono-Ooji (1984) Courtesy Axel Vervoordt Gallery, Hong Kong |
Il soggetto è
dunque posto di fronte alle tavole. Il bianco e il nero aprono da subito ad una
concezione duale, non necessariamente di conflitto, ma comunque di confronto. Per
millenni si sono prodotte teorie sui colori e sul rapporto tra bianco e nero,
non ultima la teoria di Goethe, che attribuì al b/n due valori qualitativamente
differenti. Laddove Newton definiva l’oscurità come assenza di luce, Goethe
asserì che l’oscurità interagiva con la luce come una polarità “opposta” (il
termine è qui solo funzionale al discorso) alla luce stessa.
Nelle macchie di
Rorschach questo rapporto produce una serie di sfumature, quasi un chiaroscuro,
in cui il colore puro è solo l’elemento di partenza, a livello concettuale, per
un’elaborazione della forma tutt’altro che semplice e definita.
Ed è proprio la
forma, legata a quelle increspature di colore, a determinare il grado di
sorpresa nell’osservatore. Il linguaggio non verbale diviene una chiave di
lettura molto importante; espressioni e tic nervosi possono rivelare molto del
rapporto tra il soggetto e la forma. Ma questa non è che un’indagine che agisce
a livello psichico, non già propriamente interiore.
Questo è chiaro
nel momento in cui l’osservatore comincia a giustificare, a motivare la propria
descrizione. In questo processo può intervenire o meno l’operatore, ma nel
complesso risulta centrale il tempo impiegato dal soggetto a formulare una
risposta; ciò ancora prima del contenuto di tale risposta.
Pur in un
contesto sociale che ha ormai quasi anestetizzato i sensi rispetto alla
complessità interpretativa, la mente elabora ben oltre la nostra coscienza.
Ecco dunque che il soggetto si trova di fronte ad una notevole complessità a livello
percettivo, in cui operano diverse dicotomie, quali per esempio pieno e vuoto,
luce e oscurità, incombenza e distacco.
Il soggetto
interpreta forme e colori attraverso il proprio stato d’animo e al complesso
delle proprie esperienze, e nel fare ciò interpreta necessariamente l’immagine
in un contesto temporale, poiché è nel tempo che si consolidano ricordi,
traumi, sensazioni e aspirazioni. Come già descritto sopra, le tavole
favoriscono questa attualizzazione di passato e futuro, aprendo ad una stratificata
indagine di sé.
L’individuo e lo
spazio
A. Reinhardt, Abstract Painting (1960-61) |
Secondo molti
esperti, la tendenza a girare la tavola per osservarla in diverse prospettive è
qualcosa di positivo. In effetti la forma muta, si arricchisce di aspetti nuovi
e porta con sé un messaggio più completo. Tuttavia questa è solo una prima,
possibile, esplorazione in senso spaziale delle tavole.
Non si dovrebbe
infatti escludere un’analisi della profondità, che può persino sfociare nella
tridimensionalità, non tanto dell’immagine in sé, quanto del supporto impiegato
per rappresentarla.
Ecco allora che
l’immagine può essere anche interpretata nel contesto dell’oggetto-foglio,
quindi del materiale, dell’eventuale sostegno, dell’ambiente, del tipo di
inchiostro.
L’osservazione
delle macchie porta così il soggetto nel
vivo dello spazio e ne attiva tutti i sensi. Si pensi, per esempio, alla
tipologia di carta (ruvida/liscia, nuova/ingiallita), al suo odore, al rumore
che farebbe se fosse strappata con le mani e via discorrendo.
Sono tutti
fenomeni, questi ultimi, dal carattere mutevole, dipendente cioè dal contesto
specifico oltre che dalla volontà del soggetto. In qualche modo, è un modo che
il soggetto stesso ha di interagire con lo spazio e di accettarne alcune leggi,
princìpi, regole. Così come di imporne di proprie.
Alla luce di
queste considerazioni, forse le macchie di Rorschach si avvicinano di più ad
un’opera concettuale: le tavole rappresentano infatti ciò che è nel pensiero
dell’osservatore e in modo molto impersonale tendono a plasmarsi in base alla
sua volontà interpretativa.
Così dunque,
tanto nella prospettiva temporale quanto in quella spaziale, ciò che avviene
con l’osservazione delle macchie di Rorschach è una circoscrizione.
Abbiamo già
affrontato questo aspetto nel discorso sulla settorialità (qui): l’uomo ha
appunto la necessità di circoscrivere una parte del reale per poterla
analizzare. Ne nasce dunque una categoria, che a lungo andare può divenire, per
esempio, un campo specifico di studio. Più la categorizzazione diviene
complessa, più sfugge il significato complessivo e ci si perde nel molteplice.
Apparentemente,
l’unico modo per ritrovare un senso nel caos che si è creato è quello di concentrarsi
su una o poche categorie specifiche, costruendo su di esse la nostra
particolare realtà, individuando però quello che è il significato complessivo.
Nel caso delle
macchie di Rorschach, le categorie mentali svolgono un ruolo fondamentale e
proiettano l’osservatore in una realtà che ha significato solo se il soggetto è
in grado di gestire il suo contatto
con una forma specifica.
Il problema,
infatti, non è tanto la realtà che ci accingiamo a costruire, quanto il
rapporto, o meglio, l’apporto (umano, etico, virtuoso) che intendiamo portare a
quella specifica realtà.
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