I rischi della specializzazione e della settorialità

La specializzazione è uno dei tratti caratteristici dell’odierna società occidentale. Soprattutto in àmbito scientifico, la ricerca è giunta ad un punto tale da aver portato i ricercatori a concentrarsi solamente su pochi aspetti della realtà, segnatamente quelli che coinvolgono appunto la loro indagine.
D’altra parte, questa non è l’unica ragione di tale specializzazione, che infatti è entrata a far parte anche dei vari percorsi di studio, a partire almeno dalla scuola superiore. Così un indirizzo come quello classico appare oggi in forte crisi, poiché al contrario è strutturato per proporre una formazione di tipo “universale”. E lungi dal veder riconosciuta tale funzione, il liceo classico sta conoscendo un lento declino. Molti lo ritengono a conti fatti “inutile”, poiché non preparerebbe lo studente all’odierno mondo del lavoro; al contrario, altri sostengono che proprio la variegata formazione classica sia una marcia in più in questo mondo globale e che il problema, anzi, risieda prima di tutto nei programmi.

Che cosa ci insegna la storia in proposito? Per secoli, nel mondo occidentale, è stato valido il percorso di studi suddiviso nel cosiddetto trivium e quadrivium.
Facciamo un esempio pratico, in merito alla formazione di un medico nel Medioevo (un campo di studio ancora oggi molto seguito dai giovani). L’allievo cominciava con lo studio delle arti liberali, che servivano da base: a quel punto poteva scegliere tra teologia, giurisprudenza e medicina. Lo scrittore latino Marziano Capella, che aveva per così dire canonizzato questo modello, aveva escluso a suo tempo l’architettura e la medicina dalle sette arti liberali. Tuttavia, già Isidoro di Siviglia, nelle Etymologiae, aveva dedicato alla medicina un apposito libro, affermando che essa comprendesse il tutto, laddove le altre arti si rifacevano ad argomenti settoriali.

La medicina si trasformò in una “seconda filosofia”, in questo caso per la cura del corpo. Si riteneva comunque – e Isidoro era tra questi – che le sette arti classiche contribuissero alla formazione professionale del medico: la grammatica per leggere e scrivere con sapienza; la retorica per poter giustificare e difendere il proprio operato; la dialettica per individuare razionalmente le cause delle malattie; l’aritmetica, legata ai tempi e ai ritmi delle malattie; la geometria, collegata a geografia e meteorologia, influenti sull’organismo; la musica per poter armonizzare le “dissonanze” corporee; l’astronomia per la dipendenza del corpo dalle leggi del cosmo.
Le arti servivano a fornire all’essere umano gli strumenti per affrontare e interpretare la natura: questo era necessario dal momento che l’Uomo era considerato un microcosmo, le cui parti avevano tutte una corrispondenza nel Creato (macrocosmo).

L’intima unione dell’Uomo con il Creato comportava una reciproca influenza; nel dettaglio, la salute variava al mutare delle leggi cosmiche. Questa tradizione fu conservata e trasmessa dal mondo arabo; in pieno XIII secolo si riscoprì peraltro la Tavola smeraldina, in cui ritornano questi concetti, come appunto: «Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per fare i miracoli di una sola cosa».
L’insegnamento medievale della medicina non era dunque specialistico; era inoltre un sistema educativo concentrato sulle capacità del singolo allievo: le “classi” erano composte da poche unità e il maestro era una via di mezzo tra la figura del saggio e quella paterna. L’atteggiamento era di umiltà di fronte alla tradizione e alla rivelazione, due aspetti – l’umano e il divino – che si poteva allora armonizzare, senza escludere l’innovazione. Per esempio, Lanfranco da Milano fu uno dei più grandi chirurghi del XIII secolo, autore della Chirurgia magna (1296), ma egli riteneva che fosse meglio curare con le medicine che con la chirurgia. E quando era costretto a operare, Lanfranco si affidava a Dio; egli affermò che durante l’operazione fosse il Signore a guidargli la mano, di cui il chirurgo era uno strumento.
Così, d’altra parte, con le scoperte arabe e occidentali, le sette arti furono affiancate da altre conoscenze, come l’ottica e l’alchimia, che allargarono il campo di ricerca. In Europa, tutto un insieme di saperi stava fiorendo e aprendo nuove prospettive socio-culturali ed economiche; al contrario, nel mondo islamico la stabilizzazione di un patrimonio culturale coltivato nei secoli portò a chiudersi in un dogmatismo sia scientifico che religioso.

In questo clima fervente di scoperte, invenzioni e ricerche, la medicina non fu comunque estranea al pensiero cristiano, che anzi coadiuvava l’operato del medico. Quest’ultimo, lungi dall’essere il dominatore della natura, era qualcosa di più: un socio, un suo amministratore. Il medico attendeva alle cure del giardino di Dio, rispettando i frutti della terra, in armonia con il Creato e con il Creatore:

In questo mondo medievale l’uomo non è mai raffigurato come il signore della natura, ma piuttosto come un pastore dell’essere, come un giardiniere e contadino che coltiva il campo e custodisce i pascoli, come colui cui è stato affidato il giardino che deve procurare gioia agli occhi del Signore. […] Come Paracelso non si stanca tuttavia di sottolineare, in questo giardino della salute l’uomo deve possibilmente essere e rimanere il medico di se stesso. «Perché come egli aiuta la natura, così essa gli regala il necessario e inoltre gli concede di coltivare il suo giardino». (H. Schipperges, Il giardino della salute. La medicina nel Medioevo, Garzanti, Milano, 1988, p. 259)

Lo studio delle arti liberali e, in generale, della cultura umanistica sopravvisse fino alla metà del XX secolo, pur subendo graduali trasformazioni a partire dall’Illuminismo.
Chiunque abbia studiato un po’ di storia, fisica, filosofia, politica, etc. avrà forse notato come i protagonisti di queste discipline siano stati quasi sempre studiosi a trecentosessanta gradi. Citiamo solo alcuni esempi, che definiscono tuttavia una consuetudine: Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794) fu chimico, biologo, filosofo, politico ed economista; Florence Nightingale (1820-1910) fu una filantropa e riformatrice sociale; Albert Einstein (1879-1955) fu fisico, filosofo e persino alchimista.

Si potrebbe continuare per ore, citando medici che si occuparono di politica, filosofia e letteratura, oppure studiosi che affrontarono diversi campi della scienza, riuscendo sempre ad approfondire la ricerca. Un dato è soprattutto curioso, ovvero come questi grandi personaggi siano quasi sempre anche dei filosofi (si pensi per esempio a Sigmund Freud), ad indicare che qualunque lavoro compissero, questi pensatori erano interessati a comunicare un messaggio che coinvolgesse l’umanità intera e fornisse delle risposte quanto più possibile universali.
Scrittori, letterati, filosofi, scienziati, ingegneri, artisti, medici: nella storia hanno contribuito a migliorare la vita degli esseri umani su più piani, impegnandosi su vari fronti e non chiudendosi all’interno del loro particolare recinto.

Una conoscenza settoriale, dopotutto, non può che essere valida nel proprio sistema, mentre all’esterno – per poter essere competitiva – necessita di conoscere altri sistemi, almeno ad un livello tale da farli comunicare con cognizione di causa.
La specializzazione propria della nostra società è in effetti un limite a questa comunicazione. Se un tempo il pericolo era che i “sapienti” si potessero chiudere in un loro Olimpo inaccessibile, oggi il rischio è che si formino molteplici circoli chiusi, ognuno convinto che la propria visione della realtà sia esclusiva e veritiera.
Se c’è qualcosa che il sistema educativo antico ci dimostra, in tutti i suoi secoli di ottimo funzionamento, è che aprire la mente a ciò che in apparenza sembra inutile o distante è anzi la porta che permette di accedere ad un’infinità di valide connessioni.

Nel nostro piccolo, questo spiega per esempio l’interesse che poniamo nell’affrontare temi di arte, cinema, filosofia, politica, senza vedere in questo un segno di vanità: certamente, nell’indagare l’ampio campo della conoscenza, lo studioso deve conoscere i propri limiti e le proprie capacità. Deve dunque fondare la propria ricerca su basi solide, individuare gli argomenti e le loro connessioni e infine utilizzare l’intuito per trasformare un messaggio particolare in messaggio universale.
Ad oggi, la profonda conoscenza storica dell’umanità, legata alla difficoltà di affrontare temi scientifici sempre più specifici, rende questa impresa ancora più difficile. La categorizzazione in sé (che è cosa diversa dalla specializzazione) non è affatto un male, tuttavia essa è divenuta deleteria a causa della disgiunzione che si è formata tra la scienza e il dato umano.
Siamo però altrettanto certi che nessuna scienza o arte particolare sarà mai in grado, da sola, di fornire risposte definitive all’umanità, né riteniamo sia utile un discorso che rimanga vincolato alla comprensione dei pochi membri di una specifica “isola di sapere”. Per queste ragioni, pur consapevoli del grado di avanzamento di molti campi della scienza e della cultura, riteniamo che sia più proficua una ricerca che tenga conto della molteplicità di ciò che è manifesto e non manifesto, al fine di non chiuderci in un recinto che a lungo andare potrebbe divenire sterile o autoreferenziale.

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