Effetti e sviluppi delle crociate. Parte III
Per la seconda parte, si veda qui.
La mappa detta "di Colombo", disegnata nel 1490 ca, a Lisbona |
La fine di un’epoca e il nuovo inizio
Il “risveglio”
dell’Occidente era già iniziato prima delle crociate, che ne rappresentano anzi
una certa declinazione. L’interesse culturale per il mondo islamico fu
sicuramente diffuso in Medio Oriente, ma fu nella penisola iberica che si
ebbero i risultati più eclatanti; e anche qui, la crociata, inserita nella Reconquista, affiancò questo interesse.
Oltre all’àmbito
di ricerca, un altro fenomeno che andava in una direzione laica della società
fu l’evoluzione dei rapporti feudali e la crescita delle città, per cui si
intuì che il diritto del vassallo poteva estendersi al cittadino libero.
Cultura e diritto furono due direttrici importanti per la presa di coscienza
dell’individuo. La fondazione di istituzioni non religiose, promosse da singoli
cittadini per rispondere a problemi concreti, che richiedevano l’intervento di
persone moralmente non compromesse (al contrario, p. es., di molti uomini di
Chiesa), fu un esempio di questo passaggio dalla società cristiana d’Occidente
a quella laica. Un altro elemento, conseguenza dello sviluppo del diritto e del
peso politico esercitato dalle corporazioni di mestiere, fu una maggiore
libertà economica, che favorì a sua volta questa presa di coscienza.
A livello di
diritto, nella sua estensione politica, ancora una volta Federico fu
fondamentale: la sua opera legislativa rimise al centro la figura assoluta del
monarca, che esercita tutte le funzioni dello Stato, delegando a funzionari a
lui fedeli. Questo creò uno scarto significativo nella separazione del potere
temporale da quello spirituale. In un certo senso, Federico portò alle estreme
conseguenze quanto già fatto da Innocenzo III pochi anni prima. Il pontefice
accentrò il potere della Chiesa nelle sue mani, come nessun altro papa aveva
fatto con quelle implicazioni: Innocenzo fu il monarca assoluto della “sua”
Chiesa e combatté per affermare questo principio, approfittando della debolezza
dell’Impero (al momento dell’elezione, l’erede al trono imperiale aveva solo
tre anni). E gli scontri che ne seguirono non fecero che accentuare questa
polarizzazione dei due poteri e, anzi, danneggiarono l’unità spirituale
dell’Occidente cristiano.
La fine dei
Templari si ricollega essenzialmente a questo scontro. Ripercorro brevemente le
fasi salienti di questo attacco mirato da parte del potere secolare, di cui si
è forse parlato più che della vita stessa dell’Ordine, con un danno generale
all’immagine effettiva del monaco-guerriero. Quando Jacques de Molay fu eletto
maestro nel 1294, egli era nell’Ordine da quasi un trentennio: non partecipò
alla difesa di Acri, essendo stato trasferito a Cipro, dove ottenne il sommo
incarico in un momento decisamente critico. La sua attività si svolse
all’insegna della riorganizzazione: viaggiò quindi in Occidente per cercare
nuove reclute e per promuovere la riconquista della Terra Santa. I legami
intessuti per decenni da parte dell’Ordine furono importanti, ma in definitiva
non si andò oltre un limitato supporto per la difesa di Cipro, da leggersi
probabilmente all’insegna della lotta alla pirateria piuttosto che nella
prospettiva di una nuova crociata. In quel periodo, il neoletto papa Bonifacio
VIII propose persino un’unione tra Templari e Ospitalieri, rifiutata – pare –
con sdegno di entrambe le parti.
Oggi è più
facile leggere questo dato, ma con una migliore lungimiranza politica, de Molay
avrebbe dovuto cogliere almeno due fattori e accettare quella proposta: da un
lato, la delusione e perfino il disprezzo della base della società rispetto
alla raccolta di nuovi fondi per la crociata; dall’altro, il crescente
particolarismo nazionale, che tendeva a porre il papato in una posizione di
ancor più difficile compromesso. Con ogni probabilità, però, né de Molay né
altri notarono sul momento la portata di questi fattori e agirono con gli
strumenti a loro noti, provocando quello scarto tra passato e presente che
determina gli sviluppi della Storia. Non potrebbe esistere, infatti, un
“racconto” della fine dei Templari che non trattasse questi avvenimenti nel
quadro di un cambiamento epocale.
In Occidente, il
maestro stabilì alcuni incontri per realizzare le sue riforme, mentre in
Oriente – in mancanza di forze sufficienti alla riconquista – si tentò
l’ennesima alleanza con i Mongoli. Il tentativo di conquistare Tortosa,
importante porto siriano già gestito dai Templari, è da leggersi in questa
prospettiva, ma il risultato fu fallimentare. La situazione era già disastrosa
e gli intrighi alla corte di Cipro non aiutarono certamente i Templari: essi si
schierarono con Amalrico II di Tiro, che spodestò il fratello Enrico II,
legittimo re di Cipro e di Gerusalemme [1]. Ma
all’indomani della persecuzione l’Ordine non poté nemmeno contare sulla
protezione di Amalrico, che eseguì le disposizioni papali: il ritorno al trono
di Enrico fu la chiusura definitiva di ogni speranza di salvezza su quel
fronte.
Jacques de Molay
stava arrancando; le sue strategie politiche e militari continuavano a fallire
o a limitarsi a futili promesse da parte della nobiltà europea, che soprattutto
in Francia aveva interesse ad imitare il modello spagnolo di una cavalleria
monastica al servizio di un pio sovrano [2].
Nel frattempo il
papato si muoveva su un terreno accidentato. In molti sono stati attratti
dall’idea di individuare in Bonifacio VIII il colpevole morale della fine dei
Templari, eppure – nonostante gli errori (di calcolo?) – egli tentò di limitare
le mire di Filippo IV sulla Chiesa francese. Eliminata la minaccia della casata
sveva, il pontefice si ritrovò ad affrontare il pericoloso avvicinamento tra il
sovrano francese e il re di Germania Alberto I d’Asburgo.
Bonifacio prese
la strada del braccio di ferro con Filippo: in risposta alla pressione fiscale
esercitata dal re francese sulle proprietà ecclesiastiche, il pontefice reagì
con la bolla Salvator Mundi,
ordinandogli di cessare tale pratica [3]. Il
giorno successivo, il 5 dicembre 1301, seguì la Ausculta fili, con cui il papa convocava il re a Roma per definire
una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa, tuttavia Bonifacio fece
intendere apertamente che il potere spirituale doveva essere preminente.
Filippo fece bruciare la bolla e, aiutato dai suoi funzionari, diffuse alcuni
falsi per ottenere il favore della popolazione. Ottenne il risultato sperato e
nell’aprile del 1302, gli Stati Generali, riuniti a Parigi, scrissero una lettera
di risposta al pontefice, esprimendo la loro contrarietà e indignazione. La
base cristiana della società stava cambiando; la speranza riposta nella fede
redentrice era tormentata da nuove prospettive di benessere da un lato e dalla
delusione per un mondo che in fin dei conti sembrava destinato a non cambiare
mai.
Al sinodo romano
Filippo non presenziò e il papa non fece che ribadire ancora più chiaramente il
predominio del potere spirituale, nella bolla Unam Sanctam (18 novembre 1302). Filippo reagì con l’intenzione di
processare Bonifacio per eresia, simonia e altre colpe. Inviò il consigliere di
Stato, Guglielmo di Nogaret, a rapire il pontefice, che però riuscì ad evitare
la cattura e promise il riconoscimento imperiale ad Alberto d’Asburgo, in cambio
della sua protezione. Filippo accelerò i preparativi del processo e incaricò un
altro consigliere, Guglielmo di Plaisians, di organizzare la pubblica accusa.
Nogaret era allora occupato in Italia, dove aveva intessuto fitti legami con la
famiglia Colonna, in aspro conflitto con Bonifacio: con alcuni suoi membri, il
consigliere francese riuscì a rapire il pontefice nel settembre 1303. Umiliato
per giorni dai suoi aguzzini (l’episodio è noto come “schiaffo di Anagni”),
un’insurrezione popolare permise al papa di liberarsi. Il danno subìto dalla
sua persona e dall’immagine della Santa Sede, unita a problemi di salute,
furono però un peso troppo grande da portare e Bonifacio morì il mese
successivo. Questo non fermò Filippo dal condurre un processo post mortem, con gravi danni al
prestigio e all’autorità morale della Chiesa.
Il successore al
soglio pontificio, il domenicano trevigiano Benedetto XI, tentò di
riappacificarsi con i Colonna, ma una rivolta popolare scatenata da loro lo
condusse a fuggire a Perugia, dove morì – forse avvelenato – dopo nemmeno un
anno di pontificato. A quel punto seguì una sorta di tregua prima della
tempesta: si dovette infatti attendere circa un anno perché Clemente V fosse
eletto papa. Di origini francesi, egli spostò in Francia la curia pontificia;
riavviato il processo contro Bonifacio VIII, esso si concluse con la mancata
condanna, nel 1313, ma a costo di un’altrettanta pesante umiliazione per la
Chiesa. I provvedimenti assunti da Bonifacio contro Filippo furono annullati; il
sovrano e tutti i congiurati, compresi i Colonna, furono assolti e anzi Filippo
ne uscì come colui che aveva agito per la giustizia, di fronte ai soprusi del
pontefice.
Infine, il 1313
segnò anche l’ultimo atto del travaglio dei Templari. In quanto importantissimi
creditori della corona francese, vicini all’autorità papale, essi si ritrovarono
nell’occhio del ciclone. Filippo, che pure era in buoni rapporti con de Molay e
aveva anzi tentato di avvicinare l’Ordine alla corona, finì con il processare
anche loro, che erano la principale minaccia economica e militare al suo
potere. Il 13 ottobre 1307 ebbe luogo una massiccia operazione di arresto e
confisca, che non lasciò alcun margine di reazione ai Templari. Accusati, tra
le varie cose, di eresia, idolatria e sodomia (l’elenco non era molto
differente da quello riservato a Bonifacio VIII), Clemente V, incapace di
esprimere una qualche libertà d’azione, promulgò la bolla Pastoralis præminentiæ (novembre 1307), che ordinò l’arresto dei
Templari in tutta la cristianità. L’atto suscitò reazioni contrastanti a
seconda del luogo [4],
ma in definitiva legittimò l’operato di Filippo. Quest’ultimo proseguì con lo
strumento giuridico, affiancato alla tortura: molti perseguitati confessarono,
ancor più quando il pontefice li abbandonò agli aguzzini [5].
Il 3 aprile
1312, con la bolla Vox in excelso,
l’Ordine templare fu ufficialmente sciolto e il 2 maggio i suoi beni furono
trasferiti agli Ospitalieri (Ad providam).
Essi però (e di riflesso la Chiesa) riuscirono a rientrare in possesso solo di
una parte di quei beni, che molto spesso finirono nelle mani di nobili e altri
laici ormai non più intimoriti dall’autorità papale. Con la crisi spirituale
del XIII-XIV secolo, il declino dell’esperienza monastica “classica” e le espropriazioni
ai danni dei Templari e di altri istituti ecclesiastici, la Chiesa perse
gradualmente il monopolio finanziario sul continente. Un nuovo mondo era alle
porte e – come di consueto – scoppiò l’“incendio” dalle cui ceneri poter
ricostruire. Jacques de Molay, che inizialmente aveva confermato le accuse
nella speranza di una soluzione pacifica e di un soccorso papale, in seguito –
accortosi troppo tardi della situazione – ritrattò con sdegno. Per questa
ragione, il 18 marzo 1314 fu arso vivo sull’isola della Senna, di fronte alla
cattedrale di Parigi, insieme a Geoffrey de Charnay, precettore del Tempio in
Normandia.
Che cosa portò
dunque i Templari a questa terribile fine e perché la Santa Sede fece così poco
per difendere un ordine potenzialmente molto utile per i suoi scopi? Moltissime
sono le risposte e molte di queste hanno la loro parte di verità. Solitamente
si parla del potere politico-economico che i Templari avevano accumulato negli
anni grazie a donazioni, esenzioni fiscali, privilegi, capacità amministrative
derivate dalla nobiltà e conoscenze tecniche e di altro genere apprese in Oriente.
Potere economico, quindi, e influenza politica, che comunque potevano
minacciare soprattutto la corona francese più che il papato. Vi era però stato
un campanello d’allarme quando i cavalieri teutonici avevano puntato ad una
loro autonomia sul Baltico o quando avevano sostenuto l’imperatore Federico II
di fronte alle sedizioni scatenate proprio dal pontefice. In merito ai
Templari, bisogna considerare che spesso alcuni di loro servivano il pontefice
nella sua corte e che quindi avevano un filo diretto che li collegava alla
Santa Sede. Fintanto che l’Oriente resse, essi furono un’entità indispensabile
nel regolare i rapporti con i mussulmani, ma all’indomani della caduta di Acri
i Templari persero la loro ragione primigenia. I Teutonici – come detto –
trovarono il loro avversario nelle popolazioni dell’Est Europa, tenendosi a
distanza di sicurezza dalle mire papali e dei sovrani; i cavalieri di san
Lazzaro poterono proseguire la loro opera di carità, così come fecero gli
Ospitalieri. I Templari, al contrario, oltre alla carità e al sostegno dei
pellegrini, avevano accentuato il loro carattere militare, focalizzandosi sulla
Terra Santa, una zona che non aveva alcun futuro in termini di conquiste.
Il papa
inizialmente propose la fusione con gli Ospitalieri, ma de Molay, mosso dal
consueto astio tra le due parti, rifiutò non accorgendosi del ciclone entro cui
stava precipitando. Quando l’Ordine fu sciolto, però, la vera persecuzione si
era svolta solo in Francia e in alcune aree italiane, dove gli interessi
politico-economici e l’influenza francese avevano urtato le parti in causa,
come a Firenze.
In Germania,
Inghilterra, Scozia e penisola iberica la situazione fu più sfumata: se è vero
che l’Ordine aveva cessato di esistere per la Chiesa, in molti casi non si
procedette con la cattura e tantomeno con la tortura. In Scozia, lo scomunicato
re Robert Bruce li accolse tra le sue fila; in Inghilterra, il sovrano concesse
una pensione ai Templari anziani.
In Spagna la Reconquista non era ancora terminata e
re Giacomo II d’Aragona ottenne da Giovanni XXII di poter utilizzare i beni
dell’Ordine per poterne fondare un altro, intitolato alla Vergine, che con sede
nel castello di Montesa adottò la regola cistercense e fu approvato dal papa
nel 1317. Infine, in Portogallo, re Dionigi fondò l’Ordine di Cristo con i beni
dei Templari, che con la bolla Ab ea ex
quibus (1319) di Giovanni XXII fu riconosciuto dalla Chiesa. Se non è del
tutto corretto parlare di un passaggio indolore o di un semplice cambiamento di
nome, è però chiaro che lo scioglimento dei Templari provocò un vuoto,
soprattutto nella penisola iberica, che doveva necessariamente essere colmato.
Inoltre, la fondazione di nuovi ordini monastico-militari e la diffusione di
leggende relative ai “santi eretici” contribuì in maniera determinante a
conservarne e a tramandarne lo spirito, l’esperienza di vita e la simbologia,
quest’ultima elaborata in varie forme alla luce dei primi due punti.
Al potere e ad
una ragione di scopo, si unì almeno un altro elemento di capitale importanza:
la nascita di una coscienza nazionale da parte di alcuni popoli e sovrani, con
le conseguenze che questo ebbe nel rapporto con una Chiesa a vocazione
teocratica. I Templari, loro malgrado, si trovarono al centro di questo scontro
ben più ampio di quello tra Chiesa e Stato [6], che
alla fine li vide immolati quali vittime sacrificali.
Già con Federico
Barbarossa, l’Impero tentò con forza di ristabilire il suo primato sulla
Chiesa: Federico si arrogò il diritto di nominare i vescovi e minacciò
direttamente Alessandro III (1159-81), che riparò in Francia. Questo episodio
sancì la fine della fase della “chiesa tedesca” e avviò la fase francese. Ma il
Barbarossa morì nel 1190 durante la terza crociata; il successore Enrico VI
scomparve a sua volta prematuramente e a quel punto il giovane Federico II
aveva solo tre anni. La Chiesa poté passare al contrattacco e con Innocenzo III
giunse all’apogeo l’idea del pontefice-imperatore, che in qualche modo non era
altro che il compimento di una “missione” avviata con Gregorio Magno. Di fatto,
però, si trattò solo di una parentesi, che non fece altro che inasprire il
conflitto, per portarlo alle estreme conseguenze.
Innocenzo si
impose in tutte le dispute nobiliari. Tuttavia la quarta crociata, deviata a
Costantinopoli, dimostrò ancora una volta che la Chiesa dei papi-imperatori non
era in grado di unificare pienamente la compagine cristiana: vi erano altri
fermenti nella società; nuove forze incentivate da un crescente benessere.
Federico II, a quel punto, prese in mano la situazione e ripropose il primato
dell’Impero: sentendosi nuovamente minacciato, papa Innocenzo IV trovò rifugio
a Lione: il cambiamento di rotta francese fu una necessità, oltre che un
(involontario?) “ritorno alle origini”, se così si può dire.
Nel contatto tra
nobiltà francese e papato non poterono mancare gli scambi di favori: alla fine
Corradino, ultimo degli Hohenstaufen, morì impiccato e Urbano IV concesse la
Sicilia a Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX. Questa volta, però, la Santa
Sede non ne uscì indenne. Abbiamo parlato di nuove prospettive e di fermenti
che la Chiesa non controllava:
La civiltà che
si era conosciuta in Oriente era superiore a quella occidentale. E tuttavia
essa non era cristiana! Per la prima volta l’Occidente cristiano-cattolico esperimentò in larga misura come anche
al di fuori del mondo cristiano-ecclesiastico ci fossero delle forze vive e dei
valori (per esempio una grande fioritura scientifica, e in parte anche
ascetica, nell’Islam del tempo: il teologo e asceta Al Ghazali, 1058-1111). Ciò
non era senza pericolo. Difatti l’inclinazione alla indifferenza dogmatica,
quale può riscontrarsi in Federico II,
la critica sempre più frequente alla Chiesa, i germi di eresie che cominciano a
sbocciare, hanno in questo fatto un loro importante presupposto. [7]
All’indomani
dell’elezione di Bonifacio VIII, l’Oltremare era ormai perso irrimediabilmente
e il conflitto interno alla cristianità, a lungo rinviato o comunque mai
affrontato fino in fondo, poté realizzarsi. Bonifacio fu sostenitore del
dominio universale del papato, ma non ebbe la capacità di cogliere il fenomeno
del particolarismo nazionale che stava disgregando quell’ideale unità [8]. Il
suo pontificato fu molto discusso e la fazione dei cardinali Colonna pensò persino
di annullarne l’elezione.
Lo scontrò
iniziò sulla possibilità, da parte dei regnanti, di imporre delle tasse sui
beni della Chiesa: la Santa Sede talvolta lo aveva concesso, ma nel 1296
Bonifacio lo proibì al re francese con toni energici. Filippo reagì impedendo
ogni uscita di oro e argento dalla Francia, anche grazie al consenso della
popolazione, che mal tollerava di dover pagare tasse per Roma, e sostenuto inoltre
dai pubblicisti e dai funzionari
statali, con la loro opera tecnica e di propaganda.
Dalla Francia
provenivano grandi somme di denaro, il che rappresentò un punto di forza del
re, nonché il suo primario interesse. Dopo altri contrasti dello stesso tenore,
Bonifacio si risolse a convocare Filippo a Roma, che di tutta risposta
falsificò la bolla e ottenne il consenso dell’assemblea degli Stati francesi e
dell’assemblea popolare di Parigi. La questione divenne di principio: con la
bolla Unam Sanctam, Bonifacio
intendeva scomunicare il sovrano, affermando il suo diritto universale: servendosi del cancelliere Nogaret, Filippo
anticipò la mossa e umiliò la guida spirituale dei cattolici. Benedetto XI
approvò le imposte e Clemente V accettò persino di risiedere ad Avignone, dove
il papato poteva essere manovrato dalla corona con maggiore facilità. Il
concilio di Vienne (1312) oltre a decretare la soppressione dell’Ordine
templare, dichiarò Bonifacio non colpevole. Se è vero che l’esercito francese
asserragliò il concilio condizionandone le decisioni, a quel punto si preferì
far uscire la Santa Sede “a testa alta”, anche a scapito dei cavalieri del
Tempio. Si trattò dunque di un terribile compromesso con la corona francese,
che segnò la Chiesa cattolica. La cattività avignonese, che durò fino al 1377,
incentivò la critica interna e esterna alla corruzione della Chiesa e il
fenomeno, unito ai processi che portarono agli stati nazionali e ad una cultura
con radici laiche, costituì un precedente fondamentale nella direzione della
Riforma protestante.
In definitiva,
quale fu l’errore della Chiesa? Certamente, l’aver forzato troppe volte la mano
e aver minato così il precario equilibrio (ma era pur sempre un equilibrio) tra
fede e ragione, spirito e corpo, Chiesa e Stato. I pontefici vollero essere re
e prìncipi e furono accontentati, ma il loro regno – nato nella fede – non fu
affatto universale nella sua espressione materiale.
Nel frattempo,
l’esperienza religiosa aveva conosciuto nuove forme espressive: i laici si
organizzarono in particolari confraternite, legate soprattutto ai mestieri e
proseguirono sulla via del culto dei santi e delle reliquie, per un desiderio
di perfezionamento interiore, individuale,
che affiancasse e persino superasse il modello proposto dalla Chiesa,
rappresentato prima di tutto dal monaco. Alla spiritualità dei laici se ne
aggiunse una interna al corpo ecclesiastico: gli Ordini mendicanti
(Francescani, Domenicani, Carmelitani, Eremiti Agostiniani) promossero un
ritorno alla povertà evangelica e ad una sorta di stato “primitivo” della fede.
Se da un lato queste istanze (le più reazionarie) fecero reagire la Chiesa (si
pensi per certi versi alla persecuzione dei Catari o ai Dolciniani), dall’altro
non potevano essere ignorate, poiché connesse a un sentimento diffuso e
fondamentalmente veritiero:
La vera risposta
ai nuovi bisogni religiosi del laicato venne dalla predicazione degli ordini
mendicanti, fatta in modo popolare e convincente. È uno dei grandi meriti del
Poverello l’aver preservato dall’anarchia questa principale forza del futuro,
nella quale fermentavano pericolose forze esplosive sociali e religiose, e, per
il bene della società occidentale averla ancorata, in ordinata attività, al
seno della Chiesa. Francesco proveniva da un esponente della ricca e attiva
borghesia delle città. Ma fin dall’inizio il suo amore particolare fu rivolto
al popolo semplice. Caratteristica
che è rimasta anche nel suo ordine. E il popolo non è stato avaro nel
ricambiare questo amore. [9]
In parte eredità
dei conversi, nacque persino una via intermedia tra il frate e il laico devoto:
il Terzo Ordine di san Francesco, che includeva uomini e donne. I Terziari
«vivevano nel mondo, ma si obbligavano alla mortificazione, a una determinata
regola per la preghiera, all’esercizio della misericordia. Al Terz’Ordine
appartennero nel corso dei secoli delle importanti personalità come S. Elisabetta di Turingia (†1231), Dante, Giotto» [10].
Così fecero anche i Domenicani. Tutti questi fenomeni rivelano dunque un
desiderio di affrontare senza troppi vincoli dall’“alto” la propria vita
interiore. Questo si tradusse in una società che al suo interno prevedeva
gruppi di devoti desiderosi di fare la carità, di promuovere nei fatti
l’autenticità del Vangelo, senza autoritarismi o imposizioni, ma con uno
spirito di umile servizio. Quelle che erano divenute ipocrite sovrastrutture
del potere centrale della Chiesa, provocarono per reazione questo “ritorno”
alle origini del Cristianesimo. Il processo non fu mai realmente terminato,
poiché la Chiesa riuscì alla fine ad inglobare anche questi stravolgimenti. Di
contro, i vecchi ordini monastici subirono un contraccolpo dal quale si
sarebbero ripresi a fatica, per poi continuare comunque sulla strada di un
lento declino. Accanto alla penitenza, la nuova parola d’ordine era
“predicazione”.
Se il
monachesimo si stava rivolgendo ad aspetti prettamente mistici, il mondo laico
scopriva a sua volta il valore del lavoro, strumento di redenzione su un doppio
piano. Già i Certosini, i Premonstratensi e i Cistercensi avevano rivalutato il
lavoro manuale: «Alla concezione del lavoro-penitenza si sostituisce l’idea del
lavoro, mezzo positivo di salvezza» [11]. Dio
stesso era stato il primo lavoratore, che aveva “faticato” tanto da doversi
riposare; e Adamo aveva dei compiti ben prima della cacciata: «Il Signore Dio
prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo
custodisse» [12].
«Prima del lavoro-penitenza, conseguenza del peccato e della caduta, vi era un
lavoro felice, benedetto da Dio, e il lavoro terrestre ha conservato qualcosa
di quello paradisiaco di prima della caduta» [13].
Necessariamente, i laboratores ne
uscivano cambiati e con loro l’intera società.
I mestieri si
differenziarono sempre più e a seconda del mestiere svolto si poteva anche
accrescere il proprio status sociale,
pur non avendo origini nobiliari. Mercanti e banchieri non furono più accolti
con lo scarso rispetto dato nell’Alto Medioevo a coloro che vivevano di queste
attività pecuniarie: anzi, essi andarono in gran parte a costituire le fila
della nascente borghesia urbana. Il loro potere economico si accrebbe al punto
di desiderare un maggior riconoscimento pubblico, con relativo peso politico:
l’istruzione laica si diffuse così nelle città e si caratterizzò per
un’apertura mentale che la Chiesa non è che non aveva, ma non poteva concedersi
in quelle condizioni.
Al principio
questo processo generò una maggiore mobilità sociale e una apparente
parificazione; in realtà, alla lunga, la borghesia attuò una differenziazione
per “gradi” di lavoro, per giustificare una posizione preminente:
gli strati
sociali arricchiti a forza di lavoro si sono affrettati a rinnegare la loro
origine di classe. Il lavoro non ha mai veramente cessato di essere considerato
come una macula servile. Fin dal
secolo XIII si opera una nuova divisione delle classi sociali. Se l’ozio non ha
più avvenire come valore sociale ed etico, il lavoro è rimesso in causa al suo
livello fondamentale, quello del lavoro manuale. «Io non sono operaio delle
braccia», proclamava il povero Rutebeuf. E il Confessionale di Giovanni Friburgo metteva all’ultimo posto i
semplici lavoratori, i laboratores.
Appena vittoriosi dei valori feudali
i lavoratori già si dividevano. La storia non era finita. [14]
In tutto questo,
il passaggio dal latino ai volgari, nei contesti urbani, offrì nuove forme
espressive e nuove occasioni di dialogo, dal momento che ogni linguaggio
presenta elementi particolari che altre lingue non sono in grado di esprimere
con le medesime implicazioni. Se il latino era divenuto la lingua con cui
raccontare la storia di Dio, i volgari espressero il bisogno di comunicare
anche il resto, cioè l’Uomo e la sua
storia. Il latino rimase ancora a lungo la lingua dei dotti e degli scienziati,
ma anche grazie a personalità come Dante il volgare entrò di diritto nella
comunicazione più elevata.
In merito al
commercio con l’Oriente, esso era nato prima delle crociate e proseguì anche
dopo, per quanto le due fedi si attestarono su posizioni più rigide e
intransigenti. Furono soprattutto i mercanti italiani a spingersi sempre più
lontano, sulle rotte commerciali d’Oriente. Queste persone raggiunsero spesso
di persona le grandi capitali come Aleppo e Damasco, che i crociati non erano
riusciti a conquistare con le armi. E quando i Mongoli fecero il loro ingresso
in Medio Oriente, la loro tolleranza religiosa permise ai missionari cristiani
di raggiungere persino Pechino, mentre il commercio continuava a crescere
attraverso le nuove e vecchie vie commerciali (si pensi ai viaggi di Marco
Polo).
La ricchezza e
la conoscenza – le due principali forme di potere – furono quindi a
disposizione della borghesia mercantile, la cui curiosità spinse a formulare
nuove domande e a mettere quindi in moto la “rinascita” della società
occidentale, proprio nel momento in cui l’Islām aveva preso la direzione
inversa, ripiegando su un misticismo connesso però a un irrigidimento della
fede.
L’arrivo dei
Mongoli si legò peraltro ad un altro fenomeno, il millenarismo, ovvero la
convinzione di un’imminente apocalisse, nella quale Dio avrebbe purificato
l’umanità dai suoi elementi corrotti. Quando Gour-Khan, che era forse
nestoriano, conquistò diversi territori mussulmani, molti pensarono che la
rivincita del Cristianesimo fosse ormai prossima. In Occidente, invece, l’abate
Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202), fondatore della Congregazione florense,
analizzò la storia divina, identificando l’età del Padre (Antico Testamento),
del Figlio (Nuovo Testamento) e dello Spirito Santo. L’inizio di quest’ultima
fase fu stabilito per il 1260: allora la Chiesa sarebbe stata più spirituale e
tollerante e meno materialista e dogmatica; il mondo avrebbe vissuto sotto la grazia
divina e la pace avrebbe regnato tra gli uomini. Gioacchino propose un modello
di Monasterium da realizzare in
quell’imminente futuro, che prevedeva anche i laici con le loro famiglie e una
gerarchia di tipo teologico piuttosto che di prestigio materiale, con
conseguente annullamento dell’organizzazione feudale del sistema-monastero.
Molte delle sue
riflessioni furono osteggiate, ma in definitiva fu protetto dai papi, incluso
il più rigido Innocenzo III, e le sue teorie/profezie influenzarono in modo determinante
la cultura spirituale del Basso Medioevo, soprattutto in merito ad una nuova
declinazione escatologica. In molti – come i Dolciniani – esasperarono le
parole di Gioacchino, ma, p. es., uno scrittore come Dante tradusse le teorie
gioachimite nell’attesa di un imperatore dai tratti messianici. Così a loro
volta anche i Flagellanti celebrarono l’inizio dell’età dello Spirito Santo.
L’elezione di uno spirito ascetico come Celestino V non fece che accrescere
l’attesa. Egli introdusse la Perdonanza, ovvero la concessione dell’indulgenza
plenaria in cambio del pellegrinaggio presso la basilica di Santa Maria di
Collemaggio, all’Aquila. Il successore, Bonifacio VIII, elaborò questa
intuizione e istituì quindi il primo giubileo (1300), per celebrare la nuova
funzione della Roma cristiana, mediatrice imprescindibile nel rapporto tra Dio
e individuo. Roma si trasformò nella nuova Gerusalemme, ormai perduta
irrimediabilmente.
Ma dopo che la
Chiesa ebbe contrastato o integrato queste nuove istanze, pauperistiche e
millenaristiche, le predizioni caddero nel dimenticatoio e si fece strada lo
scetticismo. Il pontefice concesse la remissione dei peccati e parlò di un
“tesoro dei meriti”, di cui solo la Chiesa poteva usufruire. La folla accorsa a
Roma fu indescrivibile, segno che il giubileo rispondeva a un sentimento
diffuso di redenzione. Se prima l’indulgenza plenaria era stata concessa ai
crociati, da quel momento il giubileo divenne uno strumento di accentramento
del potere, che faceva leva sulla sfera spirituale dell’individuo [15]. Come Dante
scrisse nel Convivio, il “grande
perdono” suscitò le speranze più diverse: «e noi siamo già nell’ultima etade
del secolo ed atendemo veracemente la consumazione del celestiale movimento» [16].
In gran parte,
dopo il giubileo e la cattività avignonese, questa lunga attesa si tradusse in
un generale scetticismo, tanto che il grande afflato liberatorio della fine del
Medioevo si quietò e si ridusse a retorica:
all’atteggiamento
prevalentemente mistico e religioso del Medioevo, che nella libertà dell’uomo
vedeva l’arra per giungere alla salvezza o per rivendicare la sua dignità di
creatura spirituale di fronte alle ingiustizie dei prevaricatori della legge di
Dio, si tende a sostituire un concetto della libertà priva di ogni residuo religioso,
esaltata in sé e per sé, come forza creatrice della volontà e dello spirito
umani, di fronte al Fato e alla Natura: l’idea della libertà è passata, così
dal mondo vivo dei sentimenti e delle forze creatrici di storia, alla fredda
consapevolezza di un individualismo spesso calcolatore, gretto e sterile, al di
là di ogni legge umana e divina. E lo stesso ideale della libertà non eccita
più, nel Rinascimento, profondi moti di popolo, ma appare soltanto, come
immagine retorica, nell’oratoria dei tirannicidi, che si ispirano a modelli
classici, o viene tutt’al più invocato a giustificare gli abili maneggi di
diplomatici, per i quali la stessa libertas
Italiae, che accenti di così viva passione aveva strappato al Petrarca, ha
ormai un significato puramente contingente e determinato, equivalente press’a
poco al nostro concetto dello status quo. [17]
Si può così dire
che il “Medioevo cristiano” ebbe termine nella prima metà del XIV secolo, con
la caduta delle sue aspirazioni
universaliste e con la cattività avignonese, simbolo della crescente autonomia
statale. Altri, in connessione con la storia dell’Impero romano, individuano
nella conquista di Costantinopoli (1453) la fine di quest’epoca. La realtà è che
a seconda dell’evento o del processo di riferimento si può indicare una data
specifica per designare l’inizio dell’epoca moderna. Ad ogni modo, questo
passaggio avvenne a cavallo tra XIV e XV secolo, quando la società occidentale
si avviò ad un graduale ma epocale cambiamento di rotta in merito alla cultura,
alla fede e alla composizione della società.
Così gli
Occidentali guardarono ancora una volta ad Oriente e attraverso i contatti con
i Mongoli realizzarono che vi era ancora molto da scoprire: l’innato desiderio
di conoscere, proprio dell’essere umano, fu quindi stimolato dalle leggende,
dai racconti insoliti e dalla ferma volontà di dare un significato sempre più
profondo alla vita. Cristoforo Colombo non a caso si definì un pellegrino e
durante una tempesta, in pieno oceano, fece prendere i voti ai suoi compagni di
viaggio. In lui vi era un certo desiderio di fuggire dal mondo, unito ad una
mentalità nuova, in cui al memento mori
si stava sostituendo in parte il memento
vivere. Colombo rappresentò l’apice dell’esperienza del pellegrinaggio
cristiano, con la sua trasposizione fedele su due piani. La vita terrena,
riflesso di quella celeste, assunse la sua importanza e di conseguenza il
cammino spirituale poté sfruttare a pieno i simboli e gli strumenti presenti
nella natura, come era già avvenuto nei culti precristiani, ma con una
coscienza decisamente diversa, filtrata appunto dalla rivoluzione cristiana.
Ma Colombo,
oltre che pellegrino, fu anche una sorta di “crociato”: influenzato dal
nazionalismo iberico, dalle profezie escatologiche e dalla letteratura
odeporica (reale, immaginaria, allegorica), egli istituì persino «un fondo per
il recupero di Gerusalemme» [18]. Per
tutta la vita, l’esperienza delle crociate caratterizzò la sua attività e
rimase a lungo patrimonio della stessa civiltà europea, quale esempio della
possibilità di «presentare una visione spiritualizzata della realtà». Si potrà
discutere in eterno sulla legittimità di questo strumento, sebbene sia sempre
doverosa una contestualizzazione, ma di fatto la crociata rispose a pulsioni
che andavano ben oltre le ragioni della fede.
In definitiva, la scoperta del Nuovo Mondo permise all’Europa di colmare il divario con le altre civiltà più evolute, proiettando l’Occidente in un futuro decisamente più prospero in diversi settori (cultura, economia, tecnica, società), ma impoverendolo all’inverosimile di tutte le sue risorse spirituali, dove con spirito si intendono tanto le manifestazioni religiose quanto quelle proprie del pensiero laico. Ad oggi, dopo due millenni di cammino in direzioni spesso opposte, la sfida dell’Occidente è trovare quella rotta che conduce alla sintesi tra la spiritualità e il materialismo non dogmatico.
Nota: per la prima parte di questo articolo, si veda qui. Su questo blog si trovano anche altri articoli di storia medievale, p. es. Il pellegrinaggio nel Medioevo (qui), Oriente e Occidente (qui), Il monachesimo e gli ordini cavallereschi in Friuli (qui).
Bibliografia
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confessori del Medioevo, in del Torre M. A. (a cura di), Interpretazioni del Medioevo, Il Mulino,
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idee, Theologica 7, Edizioni Paoline, Alba, 1958
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° Tyerman C., Le guerre di Dio, Einaudi, Torino, 2012
[1] Si trattò forse di una sorta di “nazionalizzazione” templare, sul modello di altri ordini militari iberici, ma la mancanza di una seria volontà in questa direzione piuttosto che in un’altra rese vani tutti gli sforzi.
[2] Non dimentichiamo la tradizionale presenza di maestri francesi, fatto che contribuì a dare l’immagine di un ordine nazionale simile agli esempi iberici.
[3] Nella Clericis laicos (1296), Bonifacio aveva già discusso questo argomento, ma la lotta era ad una fase iniziale e condotta tra le righe.
[4] P. es., l’arcivescovo di Ravenna, Rinaldo da Concorezzo, responsabile del processo nell’Italia Settentrionale, assolse i monaci-guerrieri e condannò la tortura al concilio provinciale di Ravenna (1311).
[5] La Pergamena di Chinon, ritrovata nel 2001 dalla storica Barbara Frale e datata 17-20 agosto 1308, dimostra che Clemente, dopo aver interrogato alcuni esponenti dell’Ordine (tra cui de Molay), assolse i Templari, limitandosi a correggerne alcuni errori. Quando però furono chiare a tutti le reali intenzioni di Filippo, il pontefice rinunciò ad imporsi su tale questione, che in realtà aveva una portata ben maggiore di quanto dovesse apparire all’epoca.
[6] A livello concettuale si trattò di un significativo scontro tra spiritualità e materialità, esplicatosi in una forma degenerata di religiosità e laicismo.
[7] J. Lortz, Storia della Chiesa nello sviluppo delle sue idee, Theologica 7, Edizioni Paoline, Alba, 1958, p. 164.
[8] L’unità religiosa e culturale del Cristiano nel Medioevo europeo si era realizzata; era l’unità politica concentrata nelle mani del pontefice ad essere continuamente rimessa in causa.
[9] J. Lortz, Storia della Chiesa…, op. cit., p. 190.
[10] Ivi, p. 190.
[11] J. Le Goff, Mestiere e professione secondo i manuali dei confessori del Medioevo, cit. in M.A. del Torre (a cura di), Interpretazioni del Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 174-175.
[12] Gn 2, 15.
[13] J. Le Goff, Mestiere e professione…, cit. in M.A. del Torre (a cura di), Interpretazioni del Medioevo…, op. cit., p. 175.
[14] Ivi, p. 182.
[15] Il giubileo ebraico, ogni cinquanta anni, aveva una funzione purificatrice: gli schiavi erano liberati, i campi lasciati a riposo, i debiti estinti. In ambito cristiano, esso designò una remissione dei peccati, ovvero una purificazione di tipo marcatamente interiore.
[16] Convivio II, 14.
[17] R. Morghen, Medioevo cristiano, Laterza, Bari, 1984, pp. 312-313.
[18] C. Tyerman, Le guerre di Dio, Einaudi, Torino, 2012, p. 931.
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