Blonde & Dahmer. Storie reali e morbosità dello spettatore
Théodore Géricault, Studio di piedi e di mani (1818-19) |
Premessa
In questo blog,
il discorso sul significato del male è uno dei temi ricorrenti e si lega al
concetto di memoria, storica e individuale: la conclusione che ne ho tratto è
che l’umanità rinnovi se stessa di generazione in generazione, ovvero che senta
la necessità di esperire il mondo, nel bene e nel male, quasi come se fosse la
prima volta. Quel “quasi” fa riferimento alla cultura e alla civiltà a cui una
persona appartiene e che le permettono di meditare l’esperienza attraverso la
saggezza o la sconsideratezza di chi ci ha preceduto. Niente, però, può
sostituirsi al peso preponderante dell’esperienza diretta e la cultura può solo
porre un argine – doveroso – ai suoi eccessi. La storia è maestra di vita solo
e soltanto nella sua proposta deterrente e nei suoi auspici.
Questa premessa
è funzionale al discorso che segue. A livello personale, mi ritengo un grande
appassionato del genere horror, in tutte le sue sfaccettature e sottogeneri.
C’è però qualcosa che mi fa sempre storcere il naso: quei film dedicati a
serial killer veramente esistiti e che adottano un approccio realistico. Con
questo post, tento di allargare il discorso dal gusto personale a una questione
più generale.
Negli ultimi
anni, siamo stati abituati a vedere film e serie tv sempre più basati su «fatti
realmente accaduti». La dicitura è ormai divenuta un meme. Ora, l’espressione è
fuorviante: se andassimo a indagare la biografia del personaggio in esame,
scopriremmo qualcosa di molto più articolato e di difficile codifica all’interno
dello storytelling logicistico a cui
ci hanno assuefatto. Mi spiego: l’abitudine odierna è volta alla
semplificazione, non già funzionale a cogliere un messaggio o un’estetica, ma
abbassatasi a raccontare storie con un inizio e una fine, secondo schemi logici
che non prevedono buchi di trama, controsensi, non detti. Con il risultato che
queste cose si realizzano in ogni caso sullo schermo, perché è la vita a non seguire una coerenza interna, provocando
l’indignazione e il giudizio negativo di uno spettatore disorientato, a cui non
è stato servito il “pasto nudo” e crudo, la realtà semplificata che non è
reale.
Sul perché questo accada, forse la psicologia ha più strumenti per determinarlo, ma certo a livello filosofico è lampante il divario tra un discorso sulla realtà aumentata e questa incapacità di fruire di un’immagine complessa, frammentaria, eterogenea. Segno che l’aggettivo “aumentata” non corrisponde a un vantaggio oggettivo, né offre un apporto significativo all’autenticità dell’esperienza. Al contrario, le persone tendono a cercare storie non solo lineari, ma soprattutto corrispondenti alle loro aspettative.
Blonde
Vengo così al
titolo di questo post, partendo da Blonde
(2022), film scritto e diretto da Andrew Dominik, basato sull’omonimo romanzo
(1999) di Joyce Carol Oates. La storia mostrata è quella di Marilyn Monroe,
interpretata da una magnifica Ana de Armas, secondo la prospettiva del romanzo:
la figura che ne emerge è di un’attrice mercificata dallo showbusiness, preda
di produttori spregiudicati, con un vissuto giovanile che le ha provocato
depressione e alcoolismo. Il romanzo di Oates prende dunque elementi sparsi
della vita di Monroe, in generale solo gli aspetti negativi, per raccontare una
specifica storia, quella di una donna sottoposta a un mondo di uomini al
potere, costretta a subirne il buono e il cattivo tempo.
La pellicola di
Dominik riprende questa ispirazione e sullo schermo la rende ancora più violenta,
cruda e spietata: in alcune riprese, l’indugiare della telecamera sul corpo
della donna assume davvero qualcosa di morboso e rasenta la necrofilia. Proprio
per questo diviene sfiancante. La durata eccessiva del film è solo una delle
conseguenze di questa tortura alla protagonista, che però si gioca su un doppio
piano. Perché al netto di alcune lungaggini, Blonde avrebbe potuto essere un buon film se non avesse parlato di
Marilyn Monroe, cioè se non avesse adottato lo slogan «basato su fatti
realmente accaduti». E non perché non siano veri gli aborti (ne ebbe almeno
dodici), le violenze dell’infanzia, il trattamento da “stupida bionda” che
dovette subire per tutta la sua carriera, ma perché questa non è tutta la verità su Marilyn Monroe. È la
sua via crucis, che nasconde il
successo, la gioia, i retroscena sulle persone che conobbe, e che non dà
nemmeno pieno valore agli aspetti difficili del suo carattere o alla tragica
fine. Non ci viene raccontata la sua intraprendenza, il conflitto interiore tra
le proprie dipendenze e il desiderio di uscirne, la volontà di iniziare a
produrre film e non solo a interpretarli.
È nel volersi
appropriare di un personaggio celebre, per ragioni di marketing, che Dominik
fallisce: è nel non aver avuto il coraggio di raccontare la storia di una
qualsiasi attrice nel mondo dello spettacolo di quegli anni, in quel caso
concentrandosi a buon diritto su un aspetto particolare e negativo. Per fare un
parallelismo, lo stesso tema – proiettato ai nostri giorni – è stato affrontato
in The Neon Demon (2016), scritto e
diretto da Nicolas Winding Refn, pellicola che si pone su tutto un altro
spessore cinematografico. E che prende le mosse da una realtà, la esaspera
nella fotografia e nella tensione drammatica riservata all’immagine mercificata
del corpo, per poi comunicare la metafora del cannibalismo, in cui vittima e
carnefice possono scambiarsi i ruoli. Insomma, tutto un altro grado di
complessità e di resa estetica.
Dahmer
Passo ora dal
generale al particolare. Film e serie tv riguardanti i serial killer risultano
più riusciti quando parlano di una storia fittizia, che può essere ispirata a
qualcuno di reale, ma che rimane finzione, per quanto verosimile. Quando uno di
questi film aderisce a un presunto realismo, quanto ne risulta, in genere, è
uno slancio di popolarità di cui il reale pluriomicida non ha davvero alcun
bisogno, dato il successo che nei decenni hanno avuto i vari Charles Manson, Ed
Gein e lo stesso Jeffrey Dahmer. Sul tema dell’idolatria verso i serial killer,
ho già parlato qui: in vista del prossimo Halloween, si prevedono già persone
travestite da Dahmer, o persino dalle sue vittime, inseguendo da zombie una
tendenza già vista in questi anni, per esempio con chi si è travestito, lo
scorso anno, con le tute di Squid Game.
Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story (2022, ideata
da Ryan Murphy e Ian Brennan) è una miniserie televisiva pubblicata su Netflix,
che ha sùbito avuto un notevole successo di pubblico.
La morbosità con
cui, in questi anni, si è tornati a parlare del killer di Milwaukee è
accostabile all’attenzione maniacale – e remunerativa in termini finanziari –
riservata a Marilyn Monroe. Penso a My
Friend Dahmer (2017, regia di Marc Myers) e alla docuserie Conversazioni con un killer: il caso Dahmer
(2022, regia di Joe Berlinger): quest’ultimo titolo rappresenta proprio
l’emblema della ricerca di un’audience affezionata al true crime, mai stanca della serie di racconti di omicidi efferati,
e che vede negli assassini seriali un’inconfessabile aura di genialità. Il
fascino del macabro, in altri termini. Che non ha nulla di affascinante per gli
amici e parenti delle vittime, posti di fronte alla cruda realtà di una morte
violenta.
Il successo del true crime si realizza non certo per
ragioni di studio da parte di antropologi e psichiatri, che della
spettacolarizzazione non hanno alcun bisogno, e soprattutto avviene a costo di
voler riaprire le ferite di coloro che vivono ancora: poca cosa a fronte di
milioni di visualizzazioni, recensioni e feedback globali. Anzi, le critiche
stesse – come quella sulla rimozione dell’hashtag “LGBTQ”, che Netflix aveva in
origine impiegato per categorizzare la serie – sono parte del gioco. Al limite,
basta un indennizzo, ché – si pensa – pecunia
non olet.
Dahmer ha ucciso
diciassette uomini tra il 1978 e il 1991, dopo torture indicibili, per
sventrarne i corpi e ridurli a oggetto da arredo o a meri pezzi di carne di cui
nutrirsi. Non è l’icona pop di cui si sente il bisogno, quella da shippare su Twitter e su Instagram con
le sue vittime, come se si trattasse di un membro attraente di una boy band.
Come per Blonde, siamo di fronte a un’ottima
interpretazione di Evan Peters, nei panni del protagonista: un attore maturato
in questo genere di ruoli proprio in seno alla cinematografia di Ryan Murphy,
già creatore di American Horror Story.
E, non a caso, è in AHS che l’horror, anche quando si occupa di serial killer,
è convincente e propone un ragionamento che vada oltre le tendenze e gli
algoritmi. Questo almeno per le prime stagioni della serie.
Nella miniserie
su Dahmer il messaggio – che qui si condensa sulla facile tematica della
vendetta del mondo afroamericano sul suo assassino – è nascosto dalla
morbosità. Che parte dalla ricostruzione minuziosa dei dettagli della sua
abitazione, suggerendoci che quanto stiamo guardando sia vero, sia autentico.
Ciò nonostante, non è così e non può esserlo. Sul trattamento ormai
macchiettistico della polizia statunitense nei film e nelle serie tv è
difficile aggiungere qualcosa. E quella rappresentazione contribuisce, qui in
Europa, a farci credere che ogni poliziotto d’oltreoceano sia razzista e
omofobo, rincarando la dose con fatti di cronaca – quelli sì – eloquenti.
Poi, però, c’è
dell’altro. Imprecisioni, omissioni, rimaneggiamenti del materiale a
disposizione per poter raccontare una storia coerente, che di coerente ha ben
poco. E così Glenda Cleveland non viveva nell’appartamento accanto al killer,
come ci viene mostrato, ma addirittura in un altro palazzo; la vera vicina,
Pamela Bass, lo descriveva invece come cordiale, tanto da offrirle un giorno un
sandwich con chissà quale carne al suo interno. E infine Dahmer non indossava
gli occhiali durante il processo, perché disse di sentirsi a disagio e di
volersi dissociare da quella situazione.
Si dirà che è
tutto al servizio della scena, dello spettacolo e della sua estetica, e che il
prodotto filmico è altra cosa: esatto,
proprio per questo è incoerente la pretesa di questo pseudo-realismo, che è uno
schiaffo in faccia a quel realismo classico che, inventando storie fittizie, ha
raccontato una realtà molto più credibile e autentica. È, in conclusione, una
finzione spacciata per verità.
Quando Alfred
Hitchcock ci racconta la storia di Norman Bates in Psycho (1960) prende spunto dall’omonimo romanzo (1959) di Robert
Bloch, basato sulle vicende del serial killer Ed Gein, ma in maniera molto
marginale, tale da non rimanere imbrigliato nella storia di qualcun altro.
Quando Quentin Tarantino rievoca la Family di Charles Manson in Once Upon a Time in Hollywood (2019) è
talmente libero dal materiale cronachistico che mette in scena il suo terzo
revisionismo storico: così alla vittima Sharon Tate viene data una cura e una
vita che va oltre l’essere stata la moglie del regista Roman Polanski o la
donna incinta assassinata a Cielo Drive. Persino in un classico del cinema, il
fosco M – Il mostro di Düsseldorf (1931, regia di Fritz Lang), il tema di fondo non
è l’azione omicida, ma il relativismo della giustizia e, non meno importante,
la rappresentazione simbolica della bambina uccisa in quel palloncino
impigliato tra i fili del telegrafo, vero
fantasma che aleggia come una condanna per il suo omicida.
In questi film,
il messaggio di fondo sovrasta il fascino del male, pure mostrato: Hitchcock
non si ferma alla celebre scena della doccia, raccontandoci di un comune
omicidio; non si adagia sul macabro per ripetersi, ma dà valore a altri
elementi filmici e, nella sceneggiatura di Joseph Stefano, si concentra sulle
conseguenze del rapporto tra soldi e moralità e sulla determinazione di una
sorella che cerca la verità.
Ne Il silenzio degli innocenti (1991, regia
di Jonathan Demme), il pluriomicida che attira su di sé tutto il fascino del
macabro – Hannibal Lecter – è chiuso per tre quarti del film dietro le sbarre. È
impotente su un piano pratico, la sua
estetica del dolore inflitto è tenuta a freno dalla legge, ma resta
persuasivo nella sua capacità manipolatoria. Non si smette mai di intendere la
pericolosità sociale del dottor Lecter e questo diviene palese nel tripudio di
violenza del finale.
Senza
allontanarci troppo, è sufficiente citare La
casa di Jack (2018), film scritto e diretto da Lars von Trier e di cui
avevo già parlato qui. Il protagonista Jack, interpretato da Matt Dillon, è un
serial killer con velleità artistiche e filosofiche, che commette omicidi per
dodici anni nello stato di Washington. Crimini efferati e raccontati dal
regista con cinico black humor, tanto da affermare che si trattasse del suo
film più brutale, quello che celebra l’idea che la vita sia crudele e spietata.
La pellicola è
suddivisa in cinque capitoli, metodicamente tematici, e mostra scene pesanti,
tra mutilazioni e torture a donne, bambini e animali. Ora, che cosa rende il
film migliore rispetto alla miniserie Dahmer?
Di certo l’autorialità, le scelte registiche e via discorrendo, ma qui ci
interessa un altro punto: La casa di Jack
è un horror, che adotta gli stilemi del genere, per comunicare, attraverso una
storia fittizia, un messaggio e un’idea del mondo, che certo ha diversi legami
con la realtà. Dahmer, al contrario,
prende una storia vera, che coinvolge persone ancora in vita, e mette il loro
dolore su schermo, per un mero ritorno finanziario. Nemmeno la scelta di
affidare questo materiale a Ryan Murphy è un caso: creatore di serie quali Nip/Tuck e AHS, è l’autore di prodotti controversi, incentrati spesso sulla
manipolazione del corpo umano, secondo una chiave grottesca o dell’orrore. Un
celebre regista è stato pioniere in questo: David Cronenberg, ritornato in sala
nel 2022 con Crimes of the Future.
Che si tratti di quelle serie di Murphy, dei film di Cronenberg o di von Trier,
la loro riuscita dipende, oltre che dalle diverse scelte registiche,
dall’adozione di una libertà espressiva rispetto ai modelli reali e da quel
giusto distacco (soprattutto temporale ed estetico) dai fatti narrati.
In questa
prospettiva, Dahmer è davvero poca
cosa, l’ennesimo prodotto true crime
che blandisce quanto di morboso si trovi nel pubblico, pronto a essere
abbandonato presto per un nuovo stimolo sensoriale che accondiscenda ai nostri
desideri più bassi. Senza dirci nient’altro su di noi e nascondendoci il mondo
a suon di violenze fini a se stesse.
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