Don't Look Up. Cronaca di una morte annunciata
Partiamo dal
presupposto che adoro i film catastrofici e che ne ho visti a non finire. Con Don’t Look Up, diretto da Adam McKay, siamo di fronte a un caso
di catastrofismo mescolato alla comicità, sul modello de Il dottor Stranamore (1964). Una comicità corrosiva, che definirei 'rassegnata' e che i personaggi si trovano a esprimere in modo quasi
involontario.
Ho trovato un’affinità
con gli ultimi due libri che ho pubblicato, proprio su questo punto, benché in
chiave drammatica. Da tanto tempo sono infatti sorpreso dalla leggerezza e
dalla superficialità con cui l’umanità affronta i grandi temi, sia come specie
che come singolo individuo. L’unica parola che calza a pennello per definire le
azioni umane in risposta alle crisi è ‘stupidità’. Che nasce da diversi
fattori, come una scarsa coscienza civica, una debole educazione, un marcato
egoismo alimentato dalla società dei consumi, la sempreverde sete di potere.
Don’t Look Up esce in un momento
storico particolare, in cui assume una doppia valenza. Una di queste è forse
involontaria: si punta il dito su chi non riconosce i dati scientifici e non si
convince fino a quando il pericolo è alle porte. Un riferimento abbastanza
esplicito alla situazione pandemica, rappresentata da un lato dai negazionisti,
dall’altro dalle nuove star compiaciute del mondo della scienza.
D’altra parte,
lo script iniziale doveva essere pre-pandemico e non a caso nel cast ritroviamo
Leonardo DiCaprio. La minaccia di un meteorite è più semplice da impiegare come
metafora del bisogno di intervento, se non altro perché – a un certo punto – si
trasforma nel cosiddetto “elefante nella stanza dei cristalli”. Ciò a cui si
rivolge la pellicola è però chiaramente la crisi climatica, con un’accusa
esplicita alla presidenza Trump, ma non solo.
Oltre ai temi citati, il film si distingue per un cast stellare, forse persino
esagerato: in particolare, Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence e Meryl Streep
si divertono sulla scena, proponendo pose espressionistiche, che ben rimarcano
l’assurdità del mondo in cui vivono, in cui viviamo. E anche attori con ruoli
minori, come Timothée Chalamet, vestono panni inconsueti, nei quali trovano
però la loro piccola dimensione espressiva.
Apprezzabile anche la patina vintage che è stata fornita al film, con una colonna sonora in grado di mescolare melodie contemporanee a un jazz-surf rock degli anni Sessanta rivisitato. Anche i titoli di testa e di coda contribuiscono a creare questa cornice, al punto che il film appare quasi un reperto del passato, come se noi spettatori fossimo già al capitolo successivo, all’osservazione passiva e impotente di una morte annunciata.
La necessità di guardare in alto passa dalla letteralità del film alla metafora per l’essere umano, che a quell’universo dovrebbe ispirarsi per elevarsi.
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