Spontaneità e visibilità sui social

 


La recente lettura di un manuale di comunicazione creativa, citato in nota, mi ha spinto a prendere in considerazione alcuni aspetti della comunicazione sui social, e non solo.

 

Un punto centrale del manuale riguarda la ricerca del target emotivo. L’obiettivo è comprendere che cosa provi e pensi il potenziale cliente (19). In altre parole, non risulta importante ciò che la persona sia, ma l’immagine di quello che vorrebbe essere (23-24).

La gratificazione del cliente è necessaria affinché segua con partecipazione, consumi e diventi dipendente da un prodotto, sia esso una persona brandizzata, un’idea o un oggetto fisico. Individuare il target emotivo è quindi un passo imprescindibile per poter sviluppare una comunicazione efficace. Nel modello proposto dal manuale, però, il prodotto finisce per adeguarsi al cliente: si riscrive il messaggio, smussandone gli angoli, ritagliandolo su misura sul cliente, fino a quando viene meno qualsiasi mismatch tra la propria opinione e quella degli altri (31).

Un tale appiattimento viene spiegato con il classico principio per cui il confronto di idee porti a nuovi punti di vista. Un principio certamente valido. Appare però troppo arrendevole la pretesa di conformarsi tout-court alla Nuova Idea, che non è altro che una gratificazione del cliente, al quale il brand si adegua (31), rinunciando a ogni aspetto critico. La negazione e il negativo, il dolore e il conflitto non alimentano più una dialettica costruttiva. Ciò che costruisce è un asettico pensiero positivo, che razionalizza la produzione di emozioni in nome del profitto e della visibilità. Il contenuto orizzontale, ovvero l’informazione oggettiva, viene elaborato per trasformarsi in contenuto verticale, nell’emozione che si intende suscitare (33-34).

 

La percezione del reale esiste tanto nelle relazioni interpersonali quanto nella comunicazione (42). Per fare in modo che un messaggio risulti autentico e spontaneo esistono vari stratagemmi. Tra questi, la creazione di una gerarchia ritmica emotiva nel comporre le frasi (51), partendo da quella più generica fino a quella più impattante.

Nella sfera emozionale rientra anche la definizione di una mission. Che si tratti di ecologismo o di assistenza agli anziani, la mission non serve solo a fare del bene, ma a garantire un ritorno in visibilità e fidelizzazione (70). Proprio questo punto rivela una prospettiva che non ha nulla di spontaneo. Ci viene proposto di creare contenuti autentici, ma una simulazione di spontaneità è pur sempre un falso. Oppure quello che si chiede è di essere coinvolti emotivamente nella propria simulazione, fino a crederla vera?

A questo si aggiunge un elemento. La ricerca del sensazionalistico a ogni costo, anche trasformando le banalità in notizia (79-80). Mi domando: perché fare cose normali, ma fatte bene e col cuore, non dovrebbe comunque avere una sua visibilità? Il sensazionalismo è purtroppo il nuovo metro di paragone su cui basare ogni novità.

Inoltre, fare bene una cosa, o fare qualcosa di successo non dovrebbe prescindere dal chiedersi se sia opportuno farla. Detta altrimenti: creare contenuti sensazionalistici serve a veicolare un tema con una sostanza, oppure è uno specchietto per le allodole, un inganno? E quale è, dunque, il confine tra marketing e raggiro?

All’inizio del quarto capitolo del manuale, si riconosce che i nuovi media, con il loro bombardamento di informazioni, ci abbiano anestetizzato (85). Può questo, però, essere un pretesto per rincarare la dose? Continuando a celare le persone dietro termini ombrello quali operatore, utente o prospect (66), viene meno qualsiasi dubbio morale. I nostri profili e le nostre aziende traggono profitto dagli utili consigli sull’argomento, ma nessuno di noi sembra chiedersi quale sia il prezzo pagato per far quadrare i conti.

 

 

Nota: le pagine citate si riferiscono a D. Fiorini, Storytelling, design thinking, copywriting. Metodi innovativi di comunicazione creativa per il lavoro e per la vita, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2020.

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