Sul significato del tempo e della memoria
Il passato è innanzitutto una dimensione
del tempo. Solitamente, la prima intuizione della profondità temporale giunge
come una fulminazione, che ci evidenzia l’inevitabilità della morte. A questa
consapevolezza si aggiunge spesso l’angoscia, legata alla precarietà di ogni
esistenza. Il pensiero dello scorrere del tempo si lega quasi sempre a un
sentimento, poiché noi umani tendiamo sempre a creare un rapporto emozionale tanto con le altre persone quanto con determinate circostanze, persino con oggetti e pensieri. E questo legame viene consolidato dalla memoria, che è la nostra
coscienza delle cose passate.
Italo Svevo disse che «le lacrime non
sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia». Storia e memoria sono il
simbolo del sentimento che noi proviamo verso ciò che è passato, sia come
individui, che come comunità. Infatti, è proprio quando ci rendiamo conto della
precarietà di ogni esperienza di vita, che nasce in noi lo stimolo ad indagare
qualunque tipologia di storia altrui che ci identifichi meglio nella realtà. Non ha
importanza il genere di storia che ci si presenta davanti, ma il nostro
rapporto con essa; se in poche parole sia in grado o meno di rispondere alle domande che ci
siamo posti. In questi ricordi noi cerchiamo solitamente la felicità e l’ottimismo.
In parte, è il ricordo in sé a provocare un’emozione che ormai va oltre il dolore;
e in parte quelle esperienze suonano come un monito per affrontare il presente.
È necessario partire dalle piccole cose. Per poter cogliere il messaggio della
storia bisogna prima di tutto avere coscienza del passato a noi più vicino.
Tuttavia esiste anche una memoria
collettiva, che ha segnato il nostro inconscio sociale. Alla fine della seconda
guerra mondiale, con il suo carico di morti e di atroci scenari, non è stato
difficile affermare che l’essere umano non sia in grado di ricavare alcun
insegnamento essenziale dal passato. Il più delle volte il dolore vissuto è
superato dall’avidità, o da un generale distacco dal messaggio della storia. Se
noi tutti possiamo condividere l’importanza della memoria, sia degli eroi
antichi, sia di eventi inumani come l’Olocausto, è allo stesso modo
comprensibile come l’umanità tenda a distaccarsi dal dolore per ricercare una
nuova stabilità. Una vera e propria felicità collettiva, del tutto simile a
quella ricercata dal singolo individuo. La nostra felicità di esseri umani
dipende molto dai nostri ricordi, e i modelli del passato sono indispensabili
per garantire un progresso in tale direzione. Il problema è che si è venuto a creare un vuoto in
questo senso.
Senza un esempio evidente da seguire, la tensione verso il bene è ancora
possibile, ma il rischio di rimanere imprigionati nelle longeve trame del male
rimane alto. Poiché è il male, polimorfo, ad aver segnato l’immaginario
collettivo, ancor più di semplici – ma non per questo banali – atti di umile
benevolenza verso l’umanità.
Il problema e il pericolo, per esempio, è
che i discorsi sulla memoria siano avvertiti come pura retorica, oppure che si
guardi alla storia come a un tempo distante, ormai superato dalla più recente
modernità. Come se non fosse storia ogni singolo istante dell’essere vivente. L’esasperata
convinzione del primato dei tempi è forse l’errore più comune e banale di
questa nostra dimenticanza, sebbene
in realtà un tale fenomeno abbia riguardato l’uomo dalla notte dei tempi. Tutto in natura si conserva, anche la memoria, dunque l'uomo che dimentica va in qualche modo contro la sua stessa natura di essere vivente.
Sarebbe facile dire che è necessario
puntare sulla cultura e sullo studio della storia. La verità è che non basta,
perché un insegnamento viene accettato solo quando chi lo riceve lo percepisce
come proprio.
La famiglia può ritornare un luogo in cui
apprendere determinati valori, per creare punti di riferimento, anche in vista
di una critica futura su ciò che intendiamo ragionevolmente rifiutare. In questo
senso la famiglia, nonostante la generale crisi del nostro tempo, può essere lo
strumento per passare dal particolare all’universale, dall’esperienza personale
dello scorrere del tempo ad una visione collettiva. Si tratta di un esempio, certamente
non l’unico, ma da tenere in utile considerazione.
Se non si può dire che la storia sia esattamente
ciclica, è però lecito pensare ad una sorta di spirale, che ritorna su se
stessa e può crescere, così come recedere. Nell’attuale fase storica, la seconda
possibilità sembra a noi più vicina. Stiamo infatti assistendo ad uno stallo
nei campi della cultura umanistica; l’insieme dei problemi umanitari, dalla
fame alle crisi socio-politiche, ci stanno conducendo a conflitti sempre più
ampi; infine, anche nell’àmbito scientifico, non ci troviamo più di fronte a
teorie rivoluzionarie, che abbiano anche un valore filosofico, quindi prettamente
umano. In questi termini si può forse parlare di una nuova fase di decadentismo,
che dimostra come il progresso tecnologico non sia per forza correlato al
progresso come umanità.
Senza una visione d’insieme e senza uno
sguardo critico al presente non è possibile affrontare di volta in volta ogni
singolo problema come se fosse a sé. Il dialogo con il passato diviene quindi
un’esigenza primaria; è la necessità di fermarsi per osservare i passi che abbiamo
appena percorso, per decidere in altri termini se quella sia la strada più
giusta. Conoscere il nostro passato, di individui e di umanità, è anche un modo
per creare una relazione tra noi e i nostri antenati. Quando anche noi saremo
superati dal tempo che scorre, tutto ciò che lasceremo sarà un breve ricordo se
non saremo stati in grado di entrare nella coscienza dei prossimi giovani e
della recente forma della società. Ogni storia è in fondo un racconto del
passato: poterlo raccontare non è solo un lusso o un dovere, ma il segno
tangibile delle metamorfosi dell’uomo, della sua capacità di reagire ai
continui errori di chi quel racconto non lo ha mai letto. O ha finto di
dimenticarlo.
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