Messianismo femminile. Sister Deborah di Scholastique Mukasonga

 


La finzione intrecciata alla storia coloniale ruandese: Sister Deborah (2022; ed. it. Utopia 2023) di Scholastique Mukasonga è quasi un’ucronia ambientata negli anni Trenta del Novecento. Al centro vi è la figura del titolo, una profetessa e guaritrice afroamericana giunta in Ruanda, allora colonia belga, con una missione evangelica pentecostale. Mukasonga immagina l’incontro tra le tradizioni spirituali ruandesi e un’eterodossa fede cristiana importata dalla diaspora nera americana, esplorando così varie tematiche: il sincretismo religioso, il femminismo, l’identità culturale mista e la resistenza postcoloniale.

Il risultato è una storia che, pur ispirandosi a credenze reali, assume i toni del mito e della denuncia sociale, in cui le donne – nere, africane e della diaspora – cercano di riscrivere il proprio destino spirituale e politico. Mukasonga parte da un quesito chiaro: perché il messia non potrebbe essere donna?

 

Negli anni Trenta, la Chiesa cattolica svolgeva un ruolo egemonico nella politica e nella religione ruandese. In questo contesto giunge da oltreoceano un gruppo di missionari evangelici afroamericani guidati dal reverendo Marcus. La loro predicazione annuncia un’apocalisse imminente e la venuta di un salvatore nero, un Gesù su una nuvola, sfidando la dottrina dei missionari bianchi cristiani.

La prospettiva della popolazione è duplice: da un lato c’è sospetto e ostilità, alimentati dai sacerdoti cattolici che dipingono i concorrenti come impostori diabolici. Il padre della giovane narratrice Ikirezi, una bambina del villaggio di Nyabikenke, incarna bene questa reazione, proibendo con veemenza alla moglie di portare la figlia alla “missione del diavolo”.

 

Nelle sue parole risuonano sia il razzismo interiorizzato (l’idea che solo i missionari bianchi siano legittimi padri spirituali), sia la demonizzazione dell’alterità religiosa. Eppure, molti (soprattutto donne) sono incuriositi dalla novità e si spingono di nascosto a osservare i rituali della nuova congregazione.

La comunità ruandese filtra l’esperienza attraverso le proprie categorie culturali: alcune donne, assistendo ai culti pentecostali dei missionari americani, li paragonano ai riti tradizionali di possessione degli spiriti (Kubandwa). Rimangono colpite dall’atmosfera estatica e dai canti appassionati, così diversi dai toni severi delle messe cattoliche, al punto da raccontare al ritorno che la messa dei Neri americani somigliava proprio al Kubandwa, con i predicatori che venivano posseduti da spiriti e cadevano in trance come gli iniziati dei culti di Ryangombe, antico eroe-divinità ruandese.

 

Mukasonga sottolinea come, malgrado la facciata di adesione al Cristianesimo, i ruandesi continuassero a interpretare la realtà attraverso i propri riferimenti. Molti praticavano una forma di sincretismo, invocando magari la Madonna insieme a Nyabingi, lo spirito femminile venerato nella tradizione locale. Non a caso, le donne di Nyabikenke paragonano Sister Deborah a questo spirito, una potente regina famosa per dispensare benedizioni e maledizioni. La profetessa appare ai loro occhi come una sorta di medium guaritrice posseduta da uno spirito benevolo venuto da lontano, dove i neri erano potenti quanto i bianchi.

Il personaggio narrante, Ikirezi, vive sulla propria pelle l’incontro tra mondi diversi. La bambina, gracile e continuamente malata, al principio è tenuta lontana dai guaritori americani, ma è la madre, diffidente verso la medicina occidentale, che sceglie di curarla con rimedi tradizionali tramandati da generazioni, sfidando così il volere del marito.

 

Ikirezi viene condotta da Deborah, che riceve i malati sotto un grande albero dai fiori rossi, seduta in cima a un termitaio ricoperto da un tappeto che è una bandiera a stelle e strisce.

Con sé ha un bastone di ferro sormontato da un pomello d’avorio, che raffigura una donna nuda nell’atto di allattare un bambino. Quello scettro insolito attira mormorii: qualcuno ipotizza che provenga dal Congo e che appartenga alla leggendaria “Regina delle Donne”, sovrana di un reame al femminile. È un simbolo potente, che unisce il potere materno (la donna che nutre il figlio, esibendo senza vergogna la propria fertilità) a un’autorità regale. Non sorprende che col tempo le seguaci di Deborah identifichino quel bastone come segno della sua investitura.

Ikirezi riceve l’energia benefica dalle mani di Deborah e guarisce: da quel momento, la sua vita conosce importanti cambiamenti, ma la donna rimarrà sempre legata a Deborah, preservandone la storia e la memoria.

 

Il carisma di Sister Deborah attira sempre più fedeli, in prevalenza donne marginalizzate: madri con bambini malati, anziane ignorate dai mariti, giovani in cerca di riscatto. Deborah offre loro cure, ascolto e soprattutto una speranza rivoluzionaria: annuncia l’imminente arrivo di una messia donna, nera, destinata a instaurare in Ruanda un nuovo regno di abbondanza e giustizia, finalmente governato dalle donne. È una visione mistica dirompente. Questa teologia eretica, un afro-femminismo spirituale, prende forma sotto gli occhi dei presenti, e Deborah inizia a battezzare le sue seguaci in un’acqua sorgiva (iriba in kinyarwanda), ponendo le basi di una sorta di chiesa parallela.

La sua predicazione risveglia una coscienza nuova nelle donne del villaggio, che sfocia in una rivolta socio-culturale. Le battezzate dell’iriba smettono di assolvere ai ruoli tradizionali imposti. È uno sciopero delle donne senza precedenti: abbandonano il lavoro nei campi e persino il talamo coniugale, dedicandosi interamente all’attesa estatica del segno divino, quel messia sulle nuvole. La comunità patriarcale ne viene sconvolta e l’episodio mi ha ricordato la commedia Lisistrata di Aristofane, in cui lo sciopero delle donne mirava a fermare la guerra negando intimità agli uomini. Nel romanzo, invece, lo sciopero è mistico, ma con ripercussioni politiche, perché mette in discussione il potere coloniale fondato sul lavoro forzato e sull’autorità dei capi locali.

 

Emblematica è la reazione di Musoni, il capo tradizionale (chef), figlio del defunto capo Ragagara. In un primo momento egli liquida i racconti su Sister Deborah come pettegolezzi di donne, ma quando viene informato che il fenomeno è in rapida espansione, si domanda se quell’isteria non sia dovuta allo spirito americano che possiede le donne, oppure al fatto che egli avesse rinunciato all’anno di lutto (per la morte di Ragagara), con la conseguenza di scatenare comunque l’inevitabile isteria al femminile. Arriva così a suppore che le donne siano tormentata dallo umuzimu di Ragagara, lo spirito inquieto del defunto. La chiave di lettura maschile e indigena trasforma dunque la protesta millenarista in un estremo rituale di lutto collettivo, attribuendole un senso all’interno dell’universo spirituale locale.

Preoccupato dal disordine, Musoni decide infine di affrontare direttamente Sister Deborah. Si presenta all’accampamento dei missionari accompagnato dal suo seguito e con regali (forse con l’idea di sottomettere o di sposare la profetessa), ma la donna lo respinge con fierezza, riaffermando la propria indipendenza sia come donna, sia come leader spirituale.

 

Mukasonga ribalta i rapporti di forza: Sister Deborah non si piega né all’autorità maschile né a quella tradizionale; rivendica il diritto a esistere fuori dai vincoli patriarcali del matrimonio. È una sfida frontale alla virilità di Musoni, cui concede al massimo il ruolo effimero di amante. Le tensioni si accumulano: i missionari cattolici e l’amministrazione belga vedono in lei un’eretica sovversiva; per molti uomini locali è una strega che incanta le loro donne; persino il reverendo Marcus, suo mentore iniziale, fatica ad accettare la deriva matriarcale e anticonvenzionale delle sue visioni.

Le autorità coloniali, preoccupate che il movimento si trasformi in aperta rivolta, intervengono militarmente. Mukasonga tratteggia con pungente ironia la psicosi complottista dei colonizzatori: a Kigali, il residente coloniale allerta un contingente di ascari (soldati indigeni) guidati dal maggiore de Kaiser. I funzionari assimilano sùbito Sister Deborah e i suoi alla categoria delle sette nere provenienti dal Sudafrica o dagli Stati Uniti, gruppi apocalittici che stavano già “infettando” il vicino Congo. La ricostruzione della paranoia colonialista è quasi caricaturale, mescolando anticomunismo, antisemitismo e razzismo: i missionari neri sono visti come pedine di un complotto “negro-giudaico” con base a Mosca, teso a sobillare gli “ingenui primitivi” contro i bianchi.

 

Lo scontro finale è rapido e cruento. Le truppe coloniali disperdono l’assemblea: Sister Deborah viene ferita da due colpi d’arma da fuoco e tutti i missionari americani vengono arrestati. L’esperimento del regno delle donne viene stroncato sul nascere nel sangue. Consapevoli dell’imbarazzo politico di tutta la vicenda, i vertici coloniali insabbiano immediatamente tutto, liquidandolo come un infelice incidente. I predicatori americani vengono espulsi nel vicino Tanganica britannico e affidati a missioni protestanti più compatibili.

Sister Deborah scompare dalla scena: molti la credono morta per le ferite, ma altri assicurano di averla vista fuggire. Come spesso accade ai profeti scomodi, di lei restano solo voci: alcuni viaggiatori giurano di averla riconosciuta in una bidonville di Nairobi, in Kenya, dove vivrebbe nascosta come una strega-guaritrice. Intanto la vita a Nyabikenke torna sotto controllo e la strana faccenda viene condannata all’oblio.

 

La struttura del romanzo, dopo la repressione nel primo atto, compie un salto temporale e geografico. La voce narrante, Ikirezi, riappare molti anni dopo: ora è una donna adulta conosciuta col nome di Deborah Jewels, un’affermata accademica africanista all’Università Howard di Washington, la cosiddetta “Harvard nera”. Ikirezi/Deborah ha percorso in senso inverso il tragitto della sua eroina: dalla piccola comunità ruandese si è trasferita negli Stati Uniti, riuscendo ad accedere a studi e carriere un tempo preclusi alle donne nere. Tuttavia non dimentica le proprie origini, né l’influenza avuta su di lei da Sister Deborah.

Il “miracolo” giovanile le ha aperto una strada impensabile, rendendola una prova vivente che il sogno di liberazione non è morto: se il regno delle donne non si è ancora realizzato sul piano politico-religioso, almeno una giovane ruandese ha potuto ritagliarsi un ruolo di prestigio in terra americana. Il luogo della terra promessa è invertito, e ciascuna attinge forza dal continente dell’altra.

 

Ikirezi decide di mettersi sulle tracce di Sister Deborah per completare la storia che da bambina aveva iniziato a stilare. La ritrova in Kenya, nella baraccopoli di Nairobi dove effettivamente la vecchia profetessa si era rifugiata sotto il nome di Mama Nganga. Qui avviene un lungo dialogo/confessione che occupa la parte finale del romanzo, dove finalmente Sister Deborah racconta la propria versione. È un notevole cambio di punto di vista, perché la parola passa alla protagonista, che rielabora quanto prima avevamo appreso solo indirettamente: si scopre così il passato di Deborah in America e il suo itinerario spirituale.

Nata nel profondo Sud degli Stati Uniti, nel Mississippi, fin da piccola aveva manifestato doni di guarigione e trance, eredità forse di tradizioni cristiano-vudù. Sua madre, temendo attenzioni malevole, l’aveva ritirata da scuola. Nell’adolescenza, Deborah subisce un trauma terribile, uno stupro da parte di un camionista bianco incontrato lungo la Highway 61. La violenza sessuale e la colpevolizzazione che avrebbe subìto dalla madre segnano profondamente Deborah. Poche settimane dopo, la giovane ha un’esperienza estatica in chiesa: si sente visitata dallo spirito, e il reverendo Marcus sostiene che sia ispirata dalla Debora biblica, la profetessa dell’Antico Testamento che sotto una palma guidava gli Israeliti alla vittoria. Marcus è un predicatore carismatico e colto, animato da un progetto panafricano: portare il Vangelo in Africa reinterpretandolo in chiave di liberazione dei neri oppressi, siano essi gli afroamericani vittime di segregazione e linciaggi negli USA, o gli africani soggetti al colonialismo.

 

Sister Deborah viene così incorporata nella missione itinerante di Marcus. Va sottolineato che l’uomo incarna una figura complessa e ambivalente. Da un lato è vicino alle teologie nere progressiste dell’epoca (ricorda leader come Marcus Garvey o i primi predicatori afroamericani pentecostali): denuncia le sofferenze inflitte ai neri nel mondo e sogna una riscossa spirituale e politica. Dall’altro, Marcus rimane intrappolato in un patriarcato interiorizzato: concepisce la liberazione dei neri in termini messianici tradizionali (un Cristo nero e maschile) e considera Deborah principalmente un mezzo per galvanizzare i fedeli.

Di fronte ai cambiamenti africani, Marcus sembra accettare la variante al femminile proposta da Deborah, ma ben presto prevale il suo sciovinismo religioso e accosta le azioni della donna alla stregoneria. Questa svolta apparente sottolinea uno dei messaggi chiave del romanzo: anche nelle comunità oppresse che cercano libertà, possono persistere gerarchie e pregiudizi che relegano le donne all’obbedienza.

 

Tradita dal suo mentore e braccata dai coloniali, Sister Deborah vive un momento di passione e morte simbolica. Ferita dalle pallottole, ha un’esperienza di pre-morte, ma sopravvive. Più tardi, in Ruanda si sparge la voce che sia morta e risorta. In realtà, la donna fugge attraverso la frontiera: si lascia alle spalle il Ruanda, e forse lo spirito che la possedeva, e arriva infine a Nairobi, dove assume il nome di Mama Nganga, termine che in varie culture bantu indica il guaritore tradizionale.

Deborah abbandona l’etichetta di Sister cristiana e abbraccia pienamente l’identità di guaritrice africana. Non teme più l’appellativo di “witch doctor”, anzi lo rivendica come titolo di servizio verso i più deboli: cura le prostitute, accoglie le ragazze madri e le senzatetto. Crea insomma un piccolo ecosistema femminile di mutuo soccorso lontano dalle istituzioni ufficiali. Ha persino venduto il suo famoso bastone a una collezionista congolese, gesto che suggerisce la volontà di disfarsi di un simbolo troppo vistoso di potere (sebbene lei stessa tema che la scelta le possa portarle sfortuna).

 

Nonostante le delusioni, la donna non ha rinnegato la propria fede, ma l’ha trasformata in una filosofia di speranza perpetua. Ha compreso, dopo tanti anni di attesa messianica, una verità paradossale: la redenzione risiede nell’atto di sperare e lottare, più che nel compimento effettivo di una profezia.

Questo pensiero richiama certa teologia negativa o l’idea dell’utopia che deve restare tale per alimentare il progresso: se la promessa si compisse definitivamente, la storia finirebbe; invece è il tendere verso un regno migliore che dà senso all’esistenza. Sister Deborah/Mama Nganga continua dunque ad annunciare colei che deve venire pur sapendo che non verrà, affinché le donne non smettano di cercare la propria liberazione.

Purtroppo, la società maschile non è pronta ad accettare neanche questa versione ridotta e clandestina del suo potere. A Nairobi circolano voci sempre più allarmanti su Mama Nganga, alimentate da pastori locali gelosi della propria congregazione. Un certo reverendo Ezechiel la addita pubblicamente come concubina di Satana. Si innesca così una tragica caccia alle streghe moderna: una notte la bidonville insorge contro di lei e il romanzo non risparmia dettagli crudi sull’orribile linciaggio.

 

La morte di Deborah è atroce e simbolicamente pregnante: il fanatismo ripropone in chiave locale la persecuzione che già i belgi avevano compiuto. La folla, istigata dal reverendo, cerca persino un segno fisico della mostruosità di Deborah inventandole un organo maschile, poiché per demonizzare una donna potente la si accusa di non essere una vera donna. È una macabra eco di tante guaritrici e sciamane nella storia.

Alla fine, Deborah muore martire, in un furore che distrugge perfino la bidonville, incendiata durante i tumulti. Ma, come spesso accade, attorno alla sua figura il dibattito continua post mortem: c’è chi la considera una strega malefica che ha avuto ciò che meritava, e chi la venera come una profetessa taumaturga uccisa ingiustamente (e ora ne teme la vendetta divina).

 

Ikirezi arriva a Nairobi poco dopo questi fatti, giusto in tempo per vedere le rovine fumanti. Incontra alcune anziane, le ultime discepole, che le raccontano gli eventi finali e le affidano l’ultimo messaggio della profetessa. Prima di morire, Deborah aveva infatti radunato le sue fedelissime, esortandole con un discorso enigmatico, in cui affermava di essere la madre nutrice di tutte le creature. Sembra il suggello del suo percorso spirituale: Deborah, partita dalla Bibbia battista, è giunta infine a una sorta di religione della Madre Terra, in cui la donna che verrà coincide con la stessa Madre Africa, intesa come fonte di vita sotterranea, tellurica. La sua teologia finale è un compendio di diaspora (l’oppressione in America equiparata alla schiavitù in Egitto) e il ritorno alle radici (l’Africa come Terra Promessa da cui sorgerà la salvezza). Una salvezza sempre in divenire, più spirituale che politica.

Con questo lascito ideale, Ikirezi ritorna alla propria vita negli Stati Uniti. Decide di non accogliere la richiesta delle anziane di farsi carico della profezia generando con un giovane prescelto, per mettere al mondo la bambina destinata a diventare la messia. In compenso, partorisce un libro intitolato Female Messiahs, un saggio che ottiene grande risonanza e diventa per qualche tempo quasi una bibbia dei movimenti femministi radicali.

 

Attraverso lo studio e la narrazione, Ikirezi compie dunque la sua parte di trasmissione: sublima l’utopia di Sister Deborah in pensiero, contribuendo a diffonderla nel mondo accademico e militante. La frase finale del romanzo, riportata anche in kinyarwanda come nell’oralità tradizionale, dichiara che questa storia non è una fine, ma è parte di una narrazione, di una Storia che non ha fine. Sister Deborah continua a vivere come possibilità aperta nel futuro.

Il romanzo di Mukasonga è breve, ma denso di livelli di lettura. Con uno stile da conteuse (cantastorie), a tratti ironico, a tratti lirico o drammatico, l’Autrice coniuga l’approccio divulgativo del racconto popolare con la profondità accademica di chi scava nella storia e nei simboli. Sul piano storico-culturale, l’opera recupera un episodio dimenticato, ispirato a una leggenda reale di profezie femminili anticoloniali degli anni Trenta, e lo reinterpreta alla luce del pensiero contemporaneo.

 

Mukasonga appartiene a una generazione di ruandesi che ha visto cancellare la propria cultura precoloniale tradizionale, e attraverso la finzione cerca di riabilitare il racconto nazionale, restituendo voce a quegli aspetti magici e spirituali che l’ideologia coloniale aveva bollato come superstizioni da estirpare. In Sister Deborah, la resistenza avviene anche sul piano culturale. Le donne invocano Ryangombe e Nyabingi insieme a Gesù; fondono i propri riti con quelli appresi dai missionari neri, e così facendo reclamano un’identità autonoma dal dominio bianco e dal patriarcato indigeno. Il romanzo inscena dunque una sorta di esorcismo letterario collettivo.

Il femminismo in Sister Deborah è tutt’altro che semplicistico e di maniera; mostra diversi modelli di donna e diverse forme di potere femminile. C’è la dimensione mistica e comunitaria, quella materna, quella intellettuale e narrativa. Le donne di Mukasonga sono fragili come tutti gli esseri umani, ma quantomai determinate. In certi passaggi, ho trovato dei parallelismi tra la Sister Deborah e Alia dell’universo di Dune: entrambe sono dotate di grande potere e di un carisma particolare, non comune, ed entrambe in fondo accettano a malincuore la devozione sfrenata dei discepoli. Al contempo, Sister Deborah è un personaggio radicato nella storia africana, vicina a figure come Muhumusa, il re-sacerdote che guidò rivolte anticoloniali in Ruanda agli inizi del Novecento.

 

Per concludere, forse il messaggio che ho sentito di più in questo romanzo è quello che ruota intorno al concetto di fede. Una fede che va oltre la religione, e che rappresenta una forza interiore e collettiva capace di dare speranza ai diseredati e un volto nuovo alle visioni utopiche, necessarie al progresso concreto dell’umanità: «Sijye wahera hahera umugani: non sono io a finire, dice la cantastorie, questa è solo la fine di quello che avevo da raccontare, anche se io aspetto colei che andrà fino alla fine della storia, della Storia che non ha fine...».

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