La tragedia de I figli di Húrin
Quando nel 2007 Christopher Tolkien diede
alle stampe I figli di Húrin, permise ai lettori di accedere al
tentativo più riuscito di ricostruzione, in forma unitaria e leggibile, di una
delle grandi storie della Prima Era, la vicenda di Túrin
Turambar. Ho letto questo titolo in un gruppo di lettura dedicato a Tolkien e,
per il momento, si tratta dell’opera dell’Autore che ho apprezzato di più dopo Il
Signore degli Anelli e Il Silmarillion.
I figli di Húrin rappresenta uno
snodo fondamentale nella ricezione dell’opera tolkieniana, perché rende
accessibile una delle storie al cuore del legendarium, accanto a quella di
Beren e Luthien e della caduta di Gondolin. In maniera analoga a quest’ultime,
la saga di Túrin si rintracciava in versioni più brevi o frammentarie raccolte
nel Silmarillion o nei volumi postumi della Storia della Terra di
Mezzo.
La genesi editoriale è un racconto a sé.
Tolkien lavorò alla vicenda di Túrin per tutta la vita, lasciandone numerose
redazioni: la Turambar and the Foaloke degli anni Venti, il Narn i
Chin Húrin in prosa estesa e le versioni poetiche incompiute. Non giunse
mai a una versione definitiva pronta per la pubblicazione. Christopher decise
di raccogliere questo materiale, armonizzarlo e offrirlo al pubblico in forma
narrativa continua.
La sua non è stata un’opera d’invenzione,
bensì di cucitura filologica: ha selezionato le stesure più mature del padre,
ha colmato le lacune attraverso raccordi minimi e ha eliminato le
sovrapposizioni. Il risultato è un testo che si legge come un romanzo, pur
mantenendo il respiro mitico e arcaico delle cronache della Prima Era.
L’edizione illustrata da Alan Lee contribuisce a conferirgli un’aura epica e
solenne, rafforzando l’impressione di trovarsi a tutti gli effetti davanti a un
libro canonico dell’universo tolkieniano.
La storia prende avvio con Húrin, signore
di Dor-lomin, catturato da Morgoth dopo la catastrofica battaglia delle
Nirnaeth Arnoediad, la Battaglia delle Innumerevoli Lacrime. Per punirlo, il
nemico giura che i suoi discendenti saranno sovrastati dalle sciagure.
Il figlio Túrin cresce sotto questo segno.
Rimasto senza la guida del padre e con la madre in difficoltà, diventa un
guerriero errante. Accolto a Doriath dal re elfico Thingol, deve presto
allontanarsene a causa di un tragico incidente, e la sua vita si trasforma in
una sequenza di fughe, nuove alleanze e dolorose separazioni. La sua vicenda
raggiunge il culmine con l’impresa più famosa, l’uccisione del drago Glaurung,
gesto che lo consacra come eroe, ma che porta con sé anche conseguenze
drammatiche. Glaurung, infatti, incanta sia lui che la sorella Nienor e li
trascina in una spirale di inganni e incomprensioni destinata a spezzare
entrambi.
Il racconto non offre consolazioni né
risvolti luminosi: è, a tutti gli effetti, il più cupo tra i grandi cicli
narrativi di Tolkien, dove l’eroismo non salva ma accompagna la rovina. Il
fato, qui imposto dalla crudeltà di Morgoth, ha la meglio sulle virtù
dell’eroe, il quale troppo spesso, nel corso della sua vita, cede invece
all’ira o a comportamenti antieroici.
La Prima Era della Terra di Mezzo è
un’epoca dominata dalla presenza schiacciante di Morgoth, il Vala ribelle che
rappresenta la distruzione assoluta, ben più terribile di Sauron, suo
luogotenente e “successore”. In questo scenario, la vicenda di Túrin diventa
centrale per comprendere la condizione degli Uomini, in particolare delle Tre
Case che per prime si allearono con gli Elfi contro Morgoth. Húrin appartiene
alla Casa di Hador, la più valorosa e fedele; la sua cattura e la maledizione
gettata sulla sua stirpe diventano simbolo della vulnerabilità degli Uomini,
facilmente travolti da forze più grandi di loro.
La figura di Túrin dialoga con la
tradizione mitica europea: riecheggia il Sigfrido delle saghe germaniche,
Kullervo del Kalevala finlandese (a cui Tolkien si ispirò direttamente) e
richiama quelle tragedie greche dove il destino appare ineluttabile (con la
figura di Edipo al centro). Il motivo della rivelazione tardiva e delle
conseguenze irreversibili colloca il racconto su un registro epico-tragico che
non trova equivalente in altre parti della produzione tolkieniana, non per
quanto abbia letto o sentito raccontare.
Se Il Silmarillion si presenta come
un insieme di cronache e miti, spesso sintetici e rapidi, ne I figli di Húrin
la struttura è più lineare e romanzesca. Qui il lettore segue un protagonista
attraverso un arco narrativo ricco di scene drammatiche e di azioni, con pochi
dialoghi, ma sempre significativi per il tono comunque epico, o che esplicita i
meandri psicologici dei personaggi. La strada che intercorre tra il Silmarillion
e I figli di Húrin è quella che passa da un libro “sacro” a un poema
epico disteso in prosa.
Rispetto a Lo Hobbit e a Il
Signore degli Anelli le differenze si fanno ancora più nette. Il primo è un
racconto avventuroso, vivace, a tratti leggero; il secondo è un’epopea corale,
dominata da toni epici ma attraversata dalla speranza che la luce possa
prevalere. Ne I figli di Húrin, al contrario, non c’è alcuna speranza e
la lettura può persino risultare angosciosa, perché le scelte dei personaggi
conducono metodicamente a un esito negativo, anche quando essi agiscono con le
migliori intenzioni.
Il cuore tematico del romanzo è il
rapporto tra destino e libero arbitrio. Morgoth pronuncia una maledizione su Húrin
e sulla sua stirpe, ma fino a che punto Túrin e i suoi cari sono vittime
passive? Le scelte dell’eroe – impulsive, spesso orgogliose – hanno sempre un
peso, e contribuiscono a trasformare la profezia in realtà. La tragedia nasce
proprio dall’ambiguità tra ciò che è scritto e ciò che si decide.
Accanto al destino, emerge con forza il
tema dell’identità. Túrin assume diversi nomi nel corso della vita, come se
potesse reinventarsi e liberarsi dalla catena che lo lega al passato. Nessuno
di questi travestimenti riesce però a salvarlo: l’identità autentica riaffiora
sempre, e con essa la maledizione. Lo stesso accade a Nienor, privata della
memoria da un incantesimo e costretta a vivere senza sapere chi sia realmente.
Un altro tema centrale è la malinconia
epica. Tolkien costruisce una storia in cui la grandezza degli Uomini si
manifesta nel coraggio con cui affrontano il dolore, più che nelle vittorie.
Non vi è gioia duratura, ma c’è dignità nella resistenza, pur con alcune
eccezioni in negativo.
Per finire, è importante sottolineare la
solitudine vissuta dall’eroe: Túrin non trova mai una comunità stabile;
dovunque vada, la sua presenza porta scompiglio e miseria. Questa condizione lo
rende una figura isolata, incapace di radicarsi, esprimendo la fragilità
vissuta dall’umanità nel corso della Prima Era.
Come accennato, I figli di Húrin
che conosciamo non è la versione definitiva di Tolkien, ma è frutto di una
ricostruzione filologica operata da Christopher con trasparenza, restando
fedele allo spirito e allo stile del padre. È un’opera che non offre al lettore
l’eucatastrofe luminosa che Tolkien vedeva come cifra del mito cristiano, ma
mostra al contrario il suo lato radicato nella mitologia pre-cristiana. Con
essa, ricorda che la Terra di Mezzo è anche il teatro della perdita, della
fragilità e della rovina, e Túrin è espressione commovente di tutto ciò.
Leggere questo libro significa confrontarsi con una delle più alte tragedie letterarie del Novecento, nascosta per lungo tempo dietro l’ombra delle più note opere tolkieniane. È un viaggio senza redenzione attraverso l’oscurità del destino e la grandezza che l’essere umano può esprimere di fronte all’ineluttabile.
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