La fantascienza umoristica in Mickey7 di Edward Ashton

 


Prima di leggere Mickey7 (2022; ed. it. Fanucci 2025) di Edward Ashton, avevo visto il film Mickey 17 di Bong Joon-ho, che non mi aveva soddisfatto molto. A ben guardare, trovavo il soggetto interessante, carico di potenziale per un buon romanzo filosofico sci-fi, alla maniera di Lem o di Stapledon. Così, ho voluto passare dalle (almeno) tre storie contenute nel film e mescolate in modo confuso all’opera di partenza, per vedere se il problema era alla base oppure no.

Anticipo il risultato, per poi passare a una rapida analisi del libro: no, il romanzo di Ashton ha uno sviluppo più omogeneo e non si fa trascinare dalle forze centrifughe che invece rendono la pellicola dispersiva e non focalizzata. Tuttavia, è anche un romanzo che conosce alti e bassi, tra momenti di vera noia e di ripetitività e scene ironiche (non comiche) riuscite, con un crescendo finale soddisfacente. Non si tratta nemmeno di un romanzo filosofico, ma di fantascienza umoristica, direi “sarcastica”, e non della migliore tradizione.

 

Vengo dunque alle tematiche. Nel romanzo la clonazione è il motore della trama: il protagonista, Mickey Barnes, è un “Sacrificabile” che muore ripetutamente e viene rigenerato in un nuovo corpo con i suoi ricordi. Questo espediente fantascientifico solleva immediatamente la domanda filosofica cruciale sull’identità personale: se un individuo rinato possiede memoria e personalità identiche, è la stessa persona? I cloni possono rappresentare una coscienza frammentata dell’individuo contemporaneo: ogni Mickey è quello autentico, ma nessuno di loro è per questo unico. Ed è qui che mi viene in mente il paradosso di Derek Parfit, o del marziano, che vi voglio raccontare per bene.

Parfit immagina un teletrasporto che, invece di distruggere il corpo originale per poi ricomporlo a destinazione (come da premessa al suo utilizzo), crea per errore una copia identica del corpo e della mente (ricordi, pensieri, etc.), mantenendo però l’originale. Si creano così due persone perfettamente identiche, convinte di essere l’originale, e la domanda è: chi è la vera persona? E possono esserlo entrambe?

L’ipotesi di Parfit discute sull’idea di un’identità personale basata sulla continuità fisica e psicologica. Una possibile soluzione riguarda ciò che avverrebbe dopo la duplicazione: l’originale viene effettivamente teletrasportato su Marte e comincia a vivere in quel contesto; il duplicato rimane sulla Terra e prosegue l’esistenza precedente dell’originale. Ora, ammesso che i due siano la stessa persona, la scissione avviene in seguito, a fronte di esperienze differenti che mutano le rispettive coscienze, che creano un discrimine tra le due individualità.

Questo è il paradosso e anche la risposta che, secondo me, risolve la questione delle personalità di Mickey7 e Mickey8, due copie dell’originale che si ritrovano a vivere in contemporanea all’interno della storia.

 

Il ruolo di Mickey come lavoratore usa e getta evidenzia il tema del sacrificio. Egli svolge “il peggior lavoro dell’universo”, accettando missioni ad altissimo rischio per la colonia, morendo più volte per salvarla. Il romanzo pone la questione etica di quanto valga la vita di un singolo rispetto al bene e, a mio avviso, quanto quella persona, una volta individuato o accettato il suo ruolo di agnello sacrificale, possa scegliere liberamente di tirarsi indietro.

Mickey è anche metafora di un potere che decide per tutti chi debba sacrificarsi per quel bene collettivo. Nel contesto del pianeta Niflheim, con scarsità di cibo e un’aria irrespirabile, la condizione di Mickey richiama quella del lavoratore-soldato costretto a morire a comando per un ideale più grande. Un ideale che qui non è nemmeno più ideologizzato in una forma particolare, ma soltanto richiamato come qualcosa di scontato.

 

A questo tema si collegano quelli della colonizzazione e del primo contatto: la spedizione su Niflheim e la reazione dei nativi incarnano i tipici conflitti di un mondo occupato. In tal senso, lo squallore del clima e l’asprezza della vita coloniale ricordano scenari alla Snowpiercer, mentre la satira e la critica sociale si avvicinano a Okja. Un altro riferimento potrebbe essere The Martian, di cui parlerò nelle prossime settimane, più per l’ambientazione spaziale estrema che per l’approccio narrativo, che in Ashton è più farsesco e speculativo.

Tra i vari personaggi, il comandante Marshall incarna al meglio l’ortodossia della colonia: temendo i nativi (chiamati curiosamente “alieni”) e opponendosi all’idea stessa di duplicati umani, egli rappresenta l’opinione comune verso i Sacrificabili e verso le specie ritenute inferiori all’umanità. Ma in generale la caratterizzazione secondaria risulta funzionale al contesto e non è del tutto memorabile, enfatizzando invece il contrasto con le spiccate idiosincrasie del protagonista.

 

Il fulcro del romanzo rimane Mickey Barnes, nelle sue versioni 7 e 8. La storia è narrata in prima persona da Sette, il quale, dopo essere stato dato per morto in una missione, torna alla base solo per scoprire che il suo clone, Otto, è già stato creato. Da questo punto nasce il conflitto: la colonia vieta formalmente la coesistenza di due Sacrificabili, considerandoli abomini; se scoperti, entrambi verrebbero gettati nel riciclatore di proteine. Sette è costretto a celare la presenza di Otto agli occhi dei compagni, dando vita a una tensione continua.

Per quanto riguarda la caratterizzazione, il tono colloquiale e scanzonato dell’Autore rende Mickey simpatico, un personaggio che è facile comprendere, ma che al contempo mi è apparso monocorde, come se appartenesse effettivamente a un’umanità molto distante dalla nostra. Non so se questo fosse nelle intenzioni dell’Autore, ma certo Mickey7 è un personaggio che rimane lo stesso dall’inizio alla fine del libro: si adatta con sarcasmo al suo destino, fa ciò che gli viene comunicato e non vive mai una vera crescita emotiva. Anche il suo atteggiamento spavaldo e autoironico nei dialoghi non sfocia quasi mai in introspezione, e la sua arguzia sembra celare una certa superficialità.

 

Forse il valore maggiore di Mickey7 risiede nella metafora che rappresenta, quella del lavoratore di ceto più basso, trasformato non solo in oggetto di sfruttamento, ma in strumento di distruzione di un luogo occupato.

Rimanendo in metafora, la crisi di risorse di Niflheim simboleggia le preoccupazioni sul cambiamento climatico e sull’esaurimento delle risorse. Così la lotta per la sopravvivenza umana mette in simbiosi interessi privati e bene comune, tuttavia non sono certo che i toni sarcastici, memetici, rendano giustizia alla cupezza delle tematiche trattate.

 

La struttura del romanzo mescola azione in tempo reale e racconti di sfondo introdotti da continui flashback. Il romanzo contiene una storia nella storia legata all’epopea coloniale: attraverso dialoghi e memorie dei personaggi, il lettore scopre come si è arrivati all’attuale crisi. Vi è anche l’elemento del primo contatto, il rapporto tra umani e specie indigene che introduce ulteriori narrazioni, benché esse siano utilizzate più come contesto che come elemento per lo sviluppo della trama.

Questa tecnica di stratificazione funziona in parte. Da un lato arricchisce il worldbuilding e mantiene viva la curiosità sugli eventi passati. Dall’altro, rallenta il ritmo della vicenda principale, il cui sviluppo richiederebbe molte meno pagine. Molteplici descrizioni e storie della colonia rievocano crisi di cibo, terraformazioni fallite, esplorazioni scientifiche, anche a discapito dell’azione. Queste digressioni possono talvolta risultare interessanti, divertenti o riflessive, ma rallentano il ritmo della vicenda principale. La costruzione episodica si risolve fin troppo spesso in una sorta di riempitivo fine a se stesso.

 

Lo stile di Ashton è schietto. La prosa è funzionale e l’Autore non punta a elevati virtuosismi letterari, aspetto che rende il romanzo accessibile a un pubblico generalista di fantascienza. Il registro delle descrizioni è quasi cinematografico e mira a intrattenere, ma questa leggerezza ha un prezzo. Manca infatti un certo slancio artistico; i filler narrativi sono talvolta invasivi e i dialoghi, che dovrebbero essere qui un mezzo di riflessione (per quanto ironica), si risolvono in battute pungenti che non dicono nulla né dei personaggi né della storia.

Tornando alla pellicola di Bong Joon-ho, questa enfatizza l’azione e l’assurdo, portando il protagonista a morire ben dieci volte in più, con una sequenza dinamica ai primi minuti che vale come un piccolo corto. Vi è anche una drammatizzazione assente nel libro, tuttavia il regista finisce per perdere il controllo narrativo della sua pellicola. In definitiva, film e romanzo sono prodotti con pregi e difetti peculiari, ma in entrambi i casi non ho trovato un pieno appagamento nella fruizione.

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