La difficoltà di preservare un impero. Messia di Dune
Dodici anni dopo gli eventi narrati in Dune,
Paul Atreides è ormai divenuto imperatore e il fanatismo che ne circonda il
mito ha scatenato un Jihad interstellare. In Messia di Dune (1969),
Herbert ribalta l’archetipo dell’eroe vincente, mostrandone la caduta e le
contraddizioni.
Paul, pur essendo formalmente il sovrano
più potente di tutti i tempi, si trova impotente di fronte alla forza del mito
religioso che ha generato. Oltre sessanta miliardi di persone sono già morte
nel suo Jihad, ma la prescienza di Paul gli mostra che perfino quella
carneficina potrebbe essere lontana dal peggior futuro possibile e lo spinge a
cercare strade alternative per salvare l’umanità.
A differenza di Dune, in cui
seguiamo l’ascesa di Paul, in Messia di Dune assistiamo alla crisi
dell’eroe una volta al potere. Herbert vuole esplicitamente indagare i limiti
del potere assoluto: «Ogni questione religiosa, governativa o finanziaria, si
riassume in questa: Chi eserciterà il potere? Le alleanze, le corporazioni e i
trust inseguono miraggi se non puntano direttamente al potere.», sono le parole
di Edric, ambasciatore e cospiratore.
Paul vive la disillusione e osserva le
macerie che verranno. È la caduta dell’eroe: egli controlla la spezia e governa
l’impero, ma non riesce a governare il proprio destino né a domare il fanatismo
dei suoi sudditi. Questo tema si intreccia al sacrificio: Paul comprende nel
corso dell’opera che l’unica via d’uscita sia rappresentata dalla rinuncia al
suo ruolo divino. Accettando la tradizione fremen che prevede l’abbandono di un
cieco nel deserto, egli si sacrifica per assicurare un futuro più solido ai
suoi figli. Prima di arrivare a questo atto estremo, il romanzo mostra anche il
rifiuto di voler fissare una volta per tutte una forma di governo
(teocratico?), proibendo persino la creazione di una costituzione, considerata
«la mobilitazione di un potere sociale privo di coscienza.»
La mescolanza tra fede e politica è ancora
più al centro della saga. Paul è il Messia e le masse hanno portato avanti una
guerra santa in suo nome. Il Jihad è incontenibile, ma anche corrotto: miliardi
di devoti si ammassano ad Arrakis come pellegrini adoranti, venerando Paul e
Alia. I due, disgustati dal culto, non riescono a fermare il fanatismo estremo
che li circonda: il meccanismo manipolatorio che li ha condotti al potere è lo
stesso che ora li soggioga.
Viene poi approfondita l’idea del destino
ineluttabile, già presente nel primo volume. Paul possiede il potere della
prescienza, ma scopre che prevedere il futuro non è una benedizione, poiché
ogni scelta è vincolata a una catena di eventi che deve necessariamente dipanarsi:
«In altre parole, la visione del futuro è una conseguenza inevitabile del
presente. Essa si maschera, quindi, da evento del tutto naturale. Ma un simile
potere non si presta a essere usato, già in partenza, con uno scopo preciso. Un
relitto sulla cresta di un’onda conosce forse la sua destinazione? Non vi sono
cause ed effetti in un oracolo.»
L’imperatore finisce per essere
prigioniero delle sue visioni: egli sa, per esempio, che ogni tentativo di
evitare la morte di Chani avrebbe conseguenze disastrose. Il sentimento della
colpa si appropria di lui. Egli è consapevole di aver causato indirettamente
tanti lutti e non può evitare il dolore delle persone a lui care. Anche Alia
condivide questo fardello, perché vorrebbe una vita normale anziché essere
venerata come divinità.
Mentre i due fratelli sono tormentati da
questi pensieri, le varie fazioni avversarie cercano di strappare loro il
potere, e certo non c’è nessuno che si distingua per moralità: è una lotta
fatta di insidie e colpi bassi, ciascuno con la convinzione di conoscere ciò di
cui l’impero e i suoi abitanti hanno davvero bisogno.
Emblematica è la figura di Scytale, un
Danzatore del Volto del Bene Tleilaxu a capo della cospirazione che coinvolge
anche la sposa di Paul, Irulan. In Scytale vengono personificati i temi
dell’inganno e dell’identità che muta in base all’opportunità del momento.
Messo all’angolo, Scytale propone anche a Paul un patto diabolico: riportare in
vita Chani come ghola a patto di abdicare. È un personaggio senza pietà che, a
contrario di Irulan, non può conoscere redenzione o pentimento: è il pericolo
più grande per l’impero degli Atreides e l’unica soluzione è la sua
eliminazione.
In questo romanzo vi sono dei simboli e
dei concetti che spiccano sugli altri. Lungo tutto il libro, gli occhi appaiono
come metafora di fiducia e umanità. In particolare, gli occhi artificiali di
Hayt, il ghola di Duncan Idaho, creano sùbito sospetto in Paul, che riesce a
vedere in quella sagoma il vecchio amico e maestro, ma non la sua anima. Saranno
i fatti a dimostrare che cosa si cela nel cuore di Hayt, al di là di ogni
prevedibilità o manipolazione. Troviamo poi gli occhi blu di Chani, che mostrano
invece vitalità e una connessione profonda con Arrakis, come spiegato fin dal
primo libro. E, infine, la vista onnipotente di Paul, che viene sostituita
dalla cecità e da una seconda vista attraverso l’erede: un ultimo fuggevole
sguardo che si traduce in un passaggio di testimone.
Un altro simbolo importante è quello
dell’acqua, che qui sostituisce la centralità dei vermi nel primo libro. Più
volte si citano gli oceani di Caladan, in genere rievocati tramite i ricordi,
ma anche tutti i mari scoperti da quei Fremen che sono partiti per il Jihad e
che sono stati cambiati nel profondo. Lo stesso Dune è mutato, forse per
sempre: la geografia del pianeta riflette gli effetti delle riforme di Paul, e
dove prima regnava l’aridità, ora si espandono le acque, ma a quale prezzo?
Venendo allo stile de Il Messia di Dune,
Herbert opta per capitoli relativamente brevi che alternano i vari punti di
vista: l’Autore passa agilmente dai pensieri interiori di Paul agli intrighi
dei cospiratori e alle proteste dei Fremen, senza che la narrazione risulti
confusa.
Anche nei momenti più filosofici, non
manca la tensione, fornita dai pericoli imminenti e dalle trame politiche che
si dipanano nei dialoghi. La struttura è meno epica e descrittiva di Dune:
le battaglie e i duelli hanno un ruolo minore, mentre prevalgono i toni riflessivi.
Herbert riprende le epigrafi o riflessioni provenienti dai testi interni
all’universo che ha creato, e il tutto si ammanta di una certa tragica
solennità, come se il romanzo fosse un lungo peana dedicato a Paul.
Al netto della continuità della trama, Dune è un’epopea avventurosa che fonde temi ecologici, politici e sapienziali in una grande parabola di formazione, mentre Il Messia di Dune è più cupo e concentrato sul piano intimo e politico del potere. Dune narra l’ascesa all’impero; il seguito mostra le difficoltà di mantenerlo una volta esaurita la spinta che ha ispirato la nascita del nuovo potere.
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