Boiling Point di Marco Sors
Boiling Point. Colpo di coda per
l’umanità
(Dark Loop Press, 2025) di Marco Sors è un romanzo in cui si immagina un futuro
(2030-80) segnato da crisi climatiche estreme e dall’ascesa al potere delle
Intelligenze Artificiali.
La cronologia di questo mondo è ricca di
eventi: nel 2030 l’Onu avvia il Progetto Eden creando Regulus, un’IA avanzata
incaricata di stabilizzare il clima. Già nel 2036 avviene la singolarità
tecnologica, con le IA che superano l’intelligenza umana, mentre il
riscaldamento globale raggiunge soglie critiche (+2°C nel 2038). Negli anni
successivi il pianeta precipita nel caos: vengono sviluppate AI regionali come
Carmen, Rasputin, Hammurabi e AgriCore per assistere Regulus, ma il clima
continua a degradare, causando eventi catastrofici e conflitti per le risorse.
Di fronte a ondate di calore insostenibili, l’umanità lancia iniziative estreme
come la Chameleon Initiative, un programma di ingegneria genetica rettiliana
per adattare l’uomo a un pianeta più caldo.
In questo scenario apocalittico nasce la
Resistenza Umana Globale. La società collassa in piccole comunità di
sopravvissuti coesi attorno a leader carismatici. Il protagonista, Zero, è
presentato come l’emblema di questa nuova umanità. Si tratta di un leader
pragmatico e carismatico della Resistenza europea (e di fatto globale). Il suo
aspetto riflette le mutazioni genetiche subìte: alto e asciutto, presenta
tratti rettiliani, retaggio dei programmi di adattamento genetico.
L’ambientazione in cui i personaggi si
trovano ad agire è altamente ambiziosa e dettagliata. Sors ha costruito un
mondo del domani sovraccarico di informazioni geopolitiche e scientifiche,
introducendo molteplici IA con “nomi parlanti” (da Regulus, che suona come una
parodia di Optimus Prime, alla ribelle e nazionalista Redneck). Questo
worldbuilding fornisce uno sfondo ricco di potenziale narrativo, tuttavia è
proprio l’eccesso di scala e di elementi che risulta essere un’arma a doppio
taglio.
L’intreccio di Boiling Point cerca
di abbracciare un conflitto di portata planetaria, seguendo la Resistenza
attraverso numerose missioni in diverse parti del mondo. Questa idea, pur
apprezzabile nelle intenzioni, viene sviluppata in modo frettoloso. Il romanzo
ci porta dall’Europa agli Stati Uniti, dal Louvre alla Casa Bianca, passando
per altre tappe sparse sul globo. Ogni scenario offre solo lampi d’azione prima
di passare all’evento successivo, con risoluzioni fin troppo fulminee. Leggiamo
dei droni di Regulus che piombano su Parigi bombardando basi segrete, per poi
saltare oltreoceano, con l’hacker Eva che attacca la sede di Redneck, a suon di
fucili di fortuna ed EMP artigianali per disattivare le difese automatizzate.
Questa serie di missioni concatenate viene affrontata in modo troppo
sbrigativo: ogni episodio si risolve nel giro di poche pagine, quasi fossero i
livelli di un videogioco (e il problema non è il videogioco come medium, ma il
volerlo essere in termini narrativi inconsapevolmente); livelli completati uno
dopo l’altro senza un crescendo né un solido filo conduttore emotivo.
Il risultato è una struttura frammentata:
la storia muta rapidamente, sacrificando approfondimento e tensione. I balzi
geografici e temporali vengono descritti in modo sommario, con poco spazio
dedicato a preparare il terreno o a costruire l’attesa per la missione
successiva. Mentre il contesto generale è affascinante sulla carta, nel testo
queste informazioni compaiono come riassunti o esposizioni brevi, invece di
emergere organicamente attraverso la trama. Il lettore può sentirsi un po’
disorientato, perché manca una trama centrale coesa che leghi le varie
operazioni in un arco narrativo avvincente. In altre parole, non stiamo
parlando di Heinlein o simili. Ma, senza scomodare i pesi massimi, un buon
modello commerciale per un romanzo d’azione sci-fi potrebbe essere un titolo
come Ice Station di Matthew Reilly, che circoscrive la missione a un
singolo scenario estremo (una base in Antartide), massimizzando così la
tensione. Lì la focalizzazione su un luogo isolato permette all’autore di
approfondire ogni momento di pericolo con efficacia. Fatta questa precisazione,
chi predilige un ritmo serrato e cinematografico potrebbe comunque apprezzare
questa struttura a missioni, un grand tour post-apocalittico attraverso i
grandi monumenti mondiali.
A dispetto delle numerose scene d’azione,
il ritmo narrativo risulta comunque piatto. Gli eventi vengono spesso descritti
più che vissuti, con un registro quasi cronachistico e una suddivisione
giornalistica degli accadimenti. Troviamo sovente frasi che anticipano l’esito
positivo o negativo di una missione, riducendo al minimo la suspense, come se
il narratore stesse riassumendo un fatto compiuto invece di coinvolgerci con
l’indeterminatezza. Manca in generale una costruzione del climax; gli scontri
vengono risolti senza grandi intoppi, né colpi di scena, e anche i caduti non
sono che numeri lasciati sul terreno e presto dimenticati.
Le potenziali situazioni ad alta tensione
(infiltrazioni in bunker segreti, duelli tra droni e rettiliani, fughe sotto
bombardamento) non riescono a trasmettere ansia o adrenalina a causa di una
narrazione troppo lineare. L’azione rimane sulla carta.
Indubitabilmente lo stile di Sors
privilegia la chiarezza: le scene sono descritte in modo comprensibile e sono
prive di oscuri tecnicismi. Chi ama la scrittura senza fronzoli potrebbe
apprezzare questo approccio privo di digressioni. D’altra parte, per molti
lettori di thriller e di fantascienza la tensione è il sale dell’avventura: non
proverete paura per la sorte dei personaggi e non percepirete l’escalation del
pericolo, che è sempre e ovunque, ed è quindi ininfluente. Sors evita i
melodrammi e mantiene un registro asciutto, ma forse una maggiore drammaticità
avrebbe contribuito a vivacizzare la scena.
Un elemento che spicca nel romanzo è il
tono dei dialoghi, spesso enfatico e ricco di frasi fatte dal sapore
cinematografico. I personaggi, durante missioni e briefing, si scambiano
battute che paiono uscite da un action movie hollywoodiano. In linea teorica,
ciò potrebbe aggiungere colore e intrattenimento, ma in diversi casi il
risultato è involontariamente caricaturale.
Questo stile di dialogo iperbolico
potrebbe essere una scelta voluta, per dare al romanzo un taglio fumettistico o
da blockbuster. Alcuni lettori potrebbero apprezzare le one-liner ad effetto
come un omaggio al genere action di fine anni Novanta, tuttavia chi cerca
realismo psicologico rimarrà probabilmente spiazzato, o infastidito. I
personaggi di Boiling Point parlano di rado in modo credibilmente umano
o dimesso, e non si notano grosse differenze tra l’impostazione della frase di
un personaggio IA e di un umano-rettiliano. Gli umani ostentano un sangue
freddo e una prontezza di battuta quasi supereroistici, ma forse un registro
dialogico più sobrio e sfumato avrebbe aiutato a ancorare la vicenda a
un’emotività autentica. Così com’è, il dialogo tende a sbracare nell’enfasi,
rischiando di alienare chi non è disposto a sospendere troppo l’incredulità.
Detto ciò, il romanzo non manca di momenti
genuinamente divertenti o astuti nelle interazioni verbali. Qualche scambio
sarcastico tra i personaggi strappa un sorriso e può alleggerire la cupa
premessa post-apocalittica. La chiave sta nel saper dosare questi elementi.
Vorrei aprire ora una parentesi sul
linguaggio tecnico e su una parola in particolare, l’acronimo EMP
(Electro-Magnetic Pulse). Questo dispositivo appare in diverse missioni come
arma risolutiva contro le macchine; in sé, l’idea di utilizzare EMP per disabilitare
i droni nemici è plausibile e tipica del genere, ma qui l’espediente diventa
ripetitivo.
Questa insistenza sugli acronimi (a EMP
affiancherei il comune AI, etc.) contribuisce alla già citata impressione
videoludica della trama. Quali sarebbero le soluzioni? Dipende. Avete presente
la lingua Nadsat inventata da Anthony Burgess per Arancia meccanica?
Questa mescola termini dell’inglese gergale principalmente al russo e
all’ebraico, nominando cose comuni con parole impreviste, che animano la
narrazione. Oltre alla Nadsat, vi è l’espediente di chiamare figure ben note in
modo originale e irriverente (come il buon Ludovico Van). Sono scelte
stilistiche di questo genere a permettere a chi scrive di raccontare scenari
inediti, magari futuristici, ridefinendo elementi già noti della quotidianità.
Chiusa questa parentesi, un altro discorso
andrebbe fatto sul ruolo delle intelligenze artificiali antagoniste. Malgrado
la loro varietà e la minaccia tangibile che esse rappresentano, le motivazioni
e la personalità di questi personaggi restano opache. In altre parole, esse
agiscono perché così richiede la trama (l’eliminazione o il dominio
dell’umanità), ma non viene mai chiarito nel profondo il perché di tale agenda
brutale, al di là di un generico istinto di autoconservazione o di
ottimizzazione fuori controllo. Regulus sembra avere un qualche piano superiore
o una filosofia imperscrutabile, ma la tematica resta nebulosa e dobbiamo
accontentarci di IA malvagie di default. Il romanzo semina diversi spunti, ma
raccoglie in modo limitato, accontentandosi di uno schema manicheo piuttosto
netto e convenzionale.
Un punto di forza della trama è la
presenza di umani geneticamente modificati. Questo espediente solleva temi
interessanti sul piano etico, sebbene nel romanzo l’attenzione ricada più
sull’aspetto pragmatico di tali mutazioni che non sulle implicazioni interiori.
I personaggi mostrano anche tratti caratteriali regrediti, con un’aggressività
aumentata, istinti territoriali e una ridotta empatia. Si parla di una
resilienza elevata allo stress e di decisioni più rapide, a scapito
dell’analisi ponderata. La prospettiva a lungo termine si è ristretta, e uomini
e donne della Resistenza ragionano più di pancia che di testa. Sul campo di
battaglia questo li rende formidabili e spietati, ma si riduce
l’immedesimazione da parte del lettore.
Zero è un eroe granitico, senza crepe
nella sua armatura psicologica, e i suoi compagni non sono da meno: non vi è
tempo per cedimenti o per l’elaborazione del lutto, perché la Resistenza
procede imperterrita, intaccabile dal trauma. In questo senso, l’umanità che
sopravvive ha dovuto sacrificare parte della propria natura, diventando a sua
volta un po’ macchina. Questo è forse un punto interessante del romanzo: per
battere le macchine abbiamo dovuto renderci simili a esse, proprio mentre
queste mostrano caratteristiche bestiali e predatrici.
Per giungere a una conclusione, Boiling
Point è un romanzo carico di idee, che soffre nel conciliare la sua grande
ambizione con un’esecuzione all’altezza. I punti critici riscontrati (a partire
dalla trama dispersiva ai dialoghi sopra le righe, fino al ritmo poco incisivo
e alla ripetitività negli espedienti) non vogliono essere stroncature, ma
spunti per riflettere su come l’opera avrebbe potuto esprimere meglio il suo
potenziale.
Ricordo che ogni lettore potrebbe reagire in modo diverso agli aspetti che ho sottolineato. Una lettura alternativa potrebbe vedere il romanzo come un omaggio volutamente esacerbato alla narrativa pulp d’azione. In questa ottica, i dialoghi caricaturali e la struttura episodica diventano scelte consapevoli per creare una specifica atmosfera, cercando più il divertimento disimpegnato che la profondità. D’altra parte, non basta veicolare tematiche come la denuncia ecologica perché il tono di un’opera diventi immediatamente serio, o in qualche modo autorevole. Con una struttura più focalizzata, il romanzo avrebbe potuto svilupparsi in un buon techno-thriller post-apocalittico. Così com’è, rimane una lettura agile, nonché un punto di partenza. Invito chi legge a farsi la propria opinione. Nonostante le criticità di cui ho parlato, Boiling Point potrebbe risuonare in modo diverso a seconda della sensibilità personale del lettore e delle sue aspettative.
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