Sette note nere di Maico Morellini
Maico Morellini è uno scrittore noto
soprattutto per le sue opere di fantascienza, eppure sto imparando a conoscere
la sua scrittura partendo da un altro genere. Sette note nere (Delos
Digital, 2017) è una raccolta di racconti breve e varia, che unisce suggestioni
horror, atmosfere da racconto gotico e incursioni nel fantastico più rarefatto.
Il libro avvia la collana “Imperium Horror” della DD.
Il filo conduttore non è tanto il
soprannaturale in sé, pur presente, quanto l’oscurità che nasce da traumi,
solitudini e fratture interiori. In queste sette storie, già in parte segnalate
a premi come l’Algernon Blackwood e il Lovecraft, il perturbante prende forme
diverse: a volte è un oggetto misterioso, come nel primo racconto, in cui una
donna incinta trova un libro anonimo che porta incisa la scritta “Non ancora”,
capace di insinuarsi nella sua vita come una forma ambigua di conforto, mentre
sullo sfondo incombe la pressione sociale legata alla maternità e al
mantenimento di un lavoro.
Altre volte il perturbante si veste di un
tono epico, come ne L’ultima lacrima, ispirato alla graphic novel Digito
Dei di Medda & Casini, in cui un mondo mitologico e demoniaco sembra
riscrivere le regole della realtà. Qui, forse, la dipendenza dall’opera a cui
il racconto si ispira è più marcata, e non ho potuto apprezzarlo a pieno. In Il
Titano, già antologizzato nella raccolta Nebbia d’Agosto (Ibiskos
Editore, 2003), l’orrore è più intimo. Ricorrono i temi della perdita e
dell’assenza: «Un vero nuovo mondo, abitato solo da me e da lui.», si dice nel
testo. Sembra una specie di dimensione mentale di isolamento, quando la vita
adulta fa capolino e non resta nient’altro che quell’angolo buio di sé, abitato
da una creatura imponente e indefinita, che ci osserva senza dire nulla. Il
luogo evocato incarna il senso di isolamento, e vi è un riferimento allusivo a
una determinata condizione, per quanto sono convinto che il racconto avrebbe
funzionato ancora meglio senza l’esplicitazione del finale. Non più zero
trasporta invece il lettore in un lungo nascondiglio, undici anni di vita
“clandestina” per sfuggire a un demone allo specchio: la creatura riflessa
diventa metafora di rinunce e di un’identità non accettata, con echi di Carroll
e dei suoi mondi oltre la superficie. Il registro cambia con Il fiume bianco,
ambientato nella Pianura Padana e narrato con un tono poetico e inquietante: un
bambino scopre il corpo di un ragazzo all’Albero dell’Impiccato, poi altri
cadaveri, ma la contemplazione della morte non conduce a un risvolto alla Stand
by Me. Anzi, la fascinazione per i cadaveri finisce per legarlo per sempre
a quel luogo, in maniera carnale. In Quinto comandamento, un dialogo
serrato tra un assassino e il suo carnefice esplora la dimensione metafisica
della giustizia e della condanna, evocando atmosfere alla Constantine e
interrogando il lettore sui confini di ciò che è umano. Chiude la raccolta Tutti
i miei cari, ritratto di una vedova isolata che riprende a ricamare per
riempire il vuoto: ma qui la solitudine è un veleno lento, capace di mutare il
carattere e avvelenare ciò che resta di lei.
Nel complesso, Morellini costruisce un mosaico di paure e inquietudini che non si accontenta di spaventare, ma preferisce insinuarsi nella psiche. Non c’è un un’unità di tono o di ambientazione, anche perché i testi erano stati pensati per contesti diversi e a distanza di diversi anni l’uno dall’altro (dal 2002 al 2013). In queste storie, però, come nel recente racconto scritto dall’Autore per Teratocene (Zona 42, 2025), vi è una variazione sul tema della perdita e del peso che essa lascia, sulla genitorialità proibita, sull’assenza o la rinuncia. Il tutto contribuisce a una lenta erosione dell’io, a un orrore che nasce dall’interazione tra trauma psicologico e contesto sociale.
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