Come e perché Dune di Herbert ha sparigliato le carte

 


Nel panorama della fantascienza del suo tempo, Dune (1965) di Frank Herbert ha rappresentato un salto di qualità netto, quasi un punto di rottura. Nessuno aveva creato prima un’opera con quella complessità sistemica, in cui ecologia, religione, antropologia, politica e mistica si intrecciassero in modo così organico e stratificato.

No, nemmeno Asimov con i suoi vasti cicli narrativi. Non è infatti solo una questione di ampiezza del worldbuilding: è proprio la profondità del pensiero organico che Herbert introduce a rendere il romanzo un unicum per il periodo. Questo, chiaramente, non significa che non vi siano stati dei predecessori.

 

Forse Olaf Stapledon è il più vicino a Herbert in termini di ambizione cosmica e riflessione filosofica sull’evoluzione dell’umanità. Il suo approccio però è molto più astratto, quasi teologico e disincarnato, tanto che le sue opere assomigliano più a speculazioni cosmologiche che a romanzi nel senso moderno. Su un filone spirituale, con toni quasi new age, Childhood’s End (1953) di Arthur C. Clarke esplora la trascendenza in relazione all’evoluzione umana, ma non costruisce un universo sociale o ambientale preciso, e il testo rappresenta più un’allegoria del destino cosmico che un’analisi di società viventi. Non a caso il critico Basil Davenport accostò Clarke a Stapledon per questa opera.

Veniamo poi al pezzo da novanta che ho già citato, Isaac Asimov: con Foundation, egli introduce l’idea della scienza come strumento per governare le masse e affronta il tema del destino storico. Tuttavia, il ciclo è centrato su un razionalismo matematico (la “psicostoria”), ed è priva delle componenti che rendono innovative Dune (la citata ecologia, etc.). Volgendo lo sguardo ancora più indietro nel tempo, vi sono opere di H. G. Wells che potrebbero ricordare certe tematiche poi trattate da Herbert, ma i mondi di Wells sono più simili a parabole che a ecosistemi viventi e manca quella complessità politico-religiosa di Dune.

Avvicinandoci ai tempi di Herbert, in Stranger in a Strange Land (1961), Robert A. Heinlein affronta i temi dell’alterità e della spiritualità, ma con un intento provocatorio e irriverente: il suo universo non è coerente e strutturato come quello herbertiano, e la scrittura è certamente più ideologica e caotica.

 

Giunti a questo punto, dovrebbe essere chiaro che cosa abbia rappresentato Dune per la fantascienza. La mitologia che ha generato è peculiare, ibrida e allo stesso tempo organica, tra religioni storiche (Buddhismo, Cristianesimo, Islam) che si trasformano nei secoli e si innestano in fenomeni come lo Jihad Butleriano (con il principale comandamento: «Non costruirai una macchina a somiglianza della mente di un uomo.»), i Mentat e le Bene Gesserit. La riflessione sul messianismo non viene banalizzata; non vi è né glorificazione né demolizione di questo concetto, perché l’Autore si sforza di indagare le sue conseguenze reali in un cosmo governato da forze centrifughe. E il protagonista-profeta – lo Kwisatz Haderach – è al contempo artefice e prigioniero della sua visione, una figura tragica oltre che un eroe epico.

Ora, non è che Herbert abbia inventato da zero certi stilemi, ma il suo pregio è di aver fondato un’inedita sinergia tra approcci narrativi che prima erano compartimentati, a partire dalla costruzione linguistica fino alle vette della visione spirituale. In tal senso, per trovare qualcosa di analogo nell’ampio bacino della narrativa fantastica, bisogna correre con la mente all’universo di Tolkien.

 

Fatta questa necessaria premessa, utile anche a inquadrare l’opera (che, nel momento in cui scrivo, compie sessant’anni), passo a qualche spunto contenutistico che ho trovato particolarmente importante. Messa da parte per un istante la fantascienza, Dune si configura anche come un trattato di futurologia incentrato sull’ecologia planetaria. Basti pensare alla dedica dell’opera, rivolta a coloro che studiano i deserti e le loro dinamiche.

Per Herbert, Arrakis è un soggetto vivo, un ecosistema in equilibrio precario, certo, ma anche in evoluzione. Sotto questo profilo, il deserto è il protagonista: un ambiente duro e spietato, che plasma la cultura dei Fremen e le loro pratiche di conservazione dell’acqua. Herbert è un osservatore empirico: studiando le dune dell’Oregon scoprì quanto un ecosistema apparentemente stabile fosse invece dinamico e interconnesso. Questa attenzione si traduce, nel romanzo, nell’idea che un pianeta non si possa davvero conquistare, ma programmare (o terraformare) con la giusta consapevolezza.

La conoscenza dell’ambiente circostante consente di gestire il vero potere. Lo sfruttamento del melange è una metafora della dipendenza energetica, ed è paragonabile al petrolio o al gas. Il controllo politico-economico su Arrakis coincide con un controllo ambientale brutale, che porta alla colonizzazione dei corpi e delle menti. Eppure, il tentativo di piegare le forze ecologiche all’Impero, per esempio attraverso i planetologi, si dimostra un passo falso.

 

Venendo al discorso spirituale, questo si mescola all’antropologia. Prendo l’esempio dei Fremen: un popolo nato dalla diaspora Zensunni, che ha assorbito e rigenerato gli stilemi delle culture beduine e del deserto. La loro religione è ibrida e non viene mai specificato se la profezia in cui credono rappresenti qualcosa di autenticamente metafisico o se sia stato costruito tramite manipolazioni storiche (centrale il ruolo della Missionaria Protectiva). Viene anche da chiedersi se la manipolazione stessa non sia che un modo di affermarsi proprio dell’istanza metafisica.

Dune esplora così come le credenze strutturino le comunità sul piano sociale e psicologico, e questo al di là dell’origine profonda di tali credenze. Sì, le Bene Gesserit seminano leggende tra le popolazioni e usano la religione con un intento eugenetico non troppo velato. Paul Atreides personifica l’ambivalenza del messia e del manipolatore, e il romanzo non lo assolve e non lo condanna, limitandosi (per così dire) a descriverne la parabola nel concreto delle azioni e dei moti interiori.

 

Paul è un personaggio meraviglioso. Passa dallo spaesamento adolescenziale al ruolo di comando in qualità di figura messianica, oscillando tra libero arbitrio e predestinazione: «La grandezza è un’esperienza transitoria. […] La persona che sperimenta la grandezza deve percepire il mito che la circonda. […] L’ironia le consentirà di agire indipendentemente da se stessa. Se invece non possiede questa qualità, anche una grandezza occasionale può distruggerla.»

La madre, Lady Jessica, svolge a mio avviso un ruolo di mediazione tra il lato umano dell’individuo e il desiderio di poter creare un oltreuomo capace, tramite una rigorosa disciplina psichica, di mantenere saldo il potere. In questa transizione si slitta poi al polo opposto, rappresentato da personaggi come il Barone Harkonnen, che è l’incarnazione della decadenza grottesca, del potere fondato sulla corruttela e sull’assenza di equilibrio psicofisico. In questo stesso polo, ma per altre ragioni, finisce lo stesso Duca Leto, un politico idealistica che rimane però schiacciato dalle forze economiche che si era illuso di poter manovrare: «Potete immaginarlo: un uomo intrappolato dal destino, una figura solitaria la cui luce è oscurata dalla gloria del figlio.»

 

Non mi voglio dilungare oltre, perché si potrebbero fare ulteriori discorsi su questa opera e non escludo di farne altri in futuro, proseguendo la lettura di una saga che è tornata alla ribalta in questi anni grazie alle trasposizioni cinematografiche di Dennis Villeneuve.

Mi limito ad aggiungere qualche riga sullo stile di Herbert, che a una prima lettura avevo trovato faticoso (mi riferisco alla lingua originale). La scrittura herbertiana include dialoghi concisi, monologhi interiori, intense descrizioni e persino epigrafi filosofiche. Herbert impiega sovente termini di origine araba e mediorientale per arricchire l’ambiente narrativo, ma non scade nell’orientalismo di certa letteratura (magari ottocentesca), perché il linguaggio presenta anche altre derivazioni. La complessità è data infine dalla stratificazione dei simboli sui vari piani narrativi, ai quali ho accennato in questa analisi e che fa comprendere quanto Herbert fosse in connessione con lo spirito del suo tempo.

Il piano forse che ho trovato più convincente è proprio quello ecologista: Dune sembra chiederci di pensare all’umanità come responsabile consapevole del proprio ambiente, senza per questo illuderci di dominarlo. Per fare ciò, è fondamentale guardare ai Fremen, un popolo all’apparenza miserabile e selvaggio, ma che in realtà nasconde un tesoro di conoscenze spirituali e tecnologiche. Una saggezza che passa attraverso la cura e l’armonizzazione tra società e ambiente e non tramite l’esercizio spregiudicato del potere. Come ricorda Leto: «Arrakis ci obbliga a essere onesti e morali.»

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