Fievel e Turbo. Temi ed estetica dei film d’animazione di ieri e di oggi
Trattare dei
temi e dell’estetica dei film d’animazione degli ultimi quarant’anni
richiederebbe molto spazio e un’analisi piuttosto approfondita. Con questo
articolo vogliamo però stimolare una riflessione rievocando due film in
particolare, Fievel sbarca in America
e Turbo, presi come esempi dei cambiamenti
in questo settore del cinema.
Fievel. Storia di
un’emancipazione
Fievel sbarca in America (An American Tail), diretto da Don Bluth,
uscì nel 1986. Il film è ambientato nel 1885: in Russia, la famiglia
Toposkovich, di origini ebraiche, vive nella miseria. Il villaggio in cui
vivono subisce un vero e proprio pogrom da parte dei cosacchi, accompagnati dai
gatti, così la famiglia decide di emigrare in America, dove – si diceva – non
si trovassero gatti. Durante il viaggio, però, si scatena una tempesta e Fievel
finisce in mare.
La famiglia
giunge tristemente a New York, mentre Fievel, sopravvissuto, raggiunge
fortunosamente la costa e conosce il piccione francese Henri, che lo stimola a
non arrendersi di fronte alle sfide della vita. Presto, Fievel incontra Lucky
LoRatto, che inizia a sfruttarlo in una fabbrica: il giovane topo riesce però a
fuggire insieme al nuovo amico italiano Tony Toponi, che decide di aiutarlo
nella ricerca della sua famiglia. Tony si innamora di Bridget, un’irlandese che
cerca di riunire tutti i topi nella difesa contro i gatti. Fievel si rende
conto dunque che ciò da cui fuggivano non era affatto scomparso.
Durante una
manifestazione, Fievel ha l’idea di costruire un’arma segreta per difendere
tutti i topi. Il giovane finisce però nelle grinfie di Lucky LoRatto, che si
rivela un gatto travestito, colpevole di organizzare le persecuzioni dei topi.
Ma un altro gatto, Tigre, ha compassione per la storia di Fievel, nella quale
si riconosce, e lo aiuta a scappare. Nel frattempo, i topi hanno messo a punto
l’arma segreta, ovvero un topo gigante meccanizzato (sul modello del Golem
ebraico): Fievel smaschera Lucky e i topi, finalmente, riescono a cacciare i
gatti con l’aiuto del gigante. Esplode però un incendio; Fievel sviene e,
quando si riprende, finisce in un orfanotrofio.
Ormai senza
speranza, sembra rassegnarsi, finché non sente il suono di un violino: è suo
padre, accompagnato dalla famiglia, da Tigre e da Tony e Bridget, che li
avevano rintracciati. Il film si chiude con Henri e altri piccioni che
trasportano Fievel e la sua famiglia sopra la Statua della Libertà: il sogno
americano è così realizzato.
La qualità
dell’animazione è alta e, benché oggi la pellicola appaia invecchiata, conserva
una “patina” apprezzabile da prodotto vintage. Il regista, Don Bluth, aveva già
lavorato per la Walt Disney Co. (p. es. in Robin
Hood, 1973), per poi distaccarsene, sostenendo che essa limitasse la creatività
di chi vi lavorasse. Dopo una fase di transizione tutt’altro che minore (Brisby e il segreto di NIMH, 1982),
Steven Spielberg lo nota e decide di produrre Fievel. Il film si rivela un
successo, ben oltre le aspettative, tanto da diventare il maggiore incasso
raggiunto da un film d’animazione al di fuori della galassia disneyana.
Il tema metaforico
è la persecuzione degli ebrei, sulla quale lo stesso Spielberg ritornerà nel
suo Schindler’s List (1993). Così i
Toposkovich sono totalmente terrorizzati dai gatti, a tal punto da temere
persino di nominarli. I gatti sono avvertiti ovunque, come una presenza
costante e minacciosa. Costretti ad emigrare per le condizioni di vita ormai
insostenibili, il viaggio transoceanico si mostra in tutta la sua tristezza e
desolazione, nonché in condizioni quanto mai precarie. L’addio alla propria
terra è doloroso, ma sembra che una piccola speranza sopravviva ancora, nella
consapevolezza che rimanendo uniti, nella famiglia e con gli altri emigranti,
si possa sperare in una rivincita.
A New York,
Fievel incontra diversi personaggi, spesso immigrati di prima o seconda generazione:
abbiamo così italiani, irlandesi, francesi, russi, inglesi. Tra tutti loro,
Lucky LoRatto rappresenta quell’emigrato che ha contribuito, in quegli anni, ad
alimentare la criminalità organizzata, facendo crescere i pregiudizi anche nei
confronti di tutti gli emigranti onesti. Significativamente, Lucky è un
falso-topo, come a voler intendere che sia qualcosa di diverso dall’autentico,
laborioso e onesto gruppo che cerca di imbrogliare.
Tigre, al
contrario, è il presunto nemico che si rivela invece un aiuto essenziale per
Fievel, che altrimenti sarebbe rimasto imprigionato. Dialogando, i due scoprono
di avere molto in comune e Tigre, in particolare, comprende di essere molto più
vicino a Fievel che ai suoi “simili”.
Inoltre,
l’America si rivela nel suo ipotetico doppio aspetto, che in realtà rappresenta
i due volti di una stessa medaglia: da un lato, luogo edenico e di speranza per
tutti coloro che fuggono dalle persecuzioni o che aspirano ad una vita nuova;
dall’altro, di fronte alla realtà, un ambiente che permette comunque a tutti di
tentare la sorte, in un crogiolo così eterogeneo da mettere tutti – almeno in
linea teorica – sullo stesso piano.
Turbo. Storia di
un’utopia
Turbo (2013) è un film d’animazione diretto
da David Soren, che segna il suo esordio come regista. Turbo, chiamato Teo da
tutti gli altri, è una chiocciola che sogna di poter diventare il più grande
pilota automobilistico al mondo, come il cinque volte campione Formula Indy Guy
Gagné. Un giorno, capita per caso in una gara illegale di hot rod: finito nel
motore di una delle vetture, l’ossido di azoto inserito dal pilota entra dentro
di lui. Il giorno dopo, si rende conto che il suo corpo si è modificato, come
se si trattasse di una vettura, e scopre di essere diventato molto veloce.
Allontanatosi
dalla comunità insieme al fratello Chet, Turbo si ritrova a gareggiare con
altre chiocciole dai gusci modificati. Distintosi, riesce a farsi iscrivere
alla Indy 500, dopo che un ragazzo aveva pubblicato un video di Turbo su
YouTube e Gagné stesso aveva convinto l’AD della Indy 500 a inserirlo nella
competizione. In un incontro tra Turbo e Gagné, tuttavia, la chiocciola scopre
che il pilota canadese è un presuntuoso e crolla così il suo idolo. Arriva il
giorno della gara e, dopo una serie di vicissitudini, Turbo riesce ad ottenere
la vittoria con un grande sforzo. Con la vincita riesce ad aiutare i suoi
amici, che lo avevano sostenuto nell’impresa, e riceve un nuovo guscio, poiché
il precedente si era danneggiato durante la gara. I suoi amici ottengono a loro
volta dei gusci nuovi e il film si conclude con l’ennesima gara.
Le altre
chiocciole, nel luogo in cui abitava Turbo, erano dell’idea che si dovesse
fuggire ogni problema. Turbo ha un sogno che va ben oltre le sue capacità e la
sua natura. La storia in sé non risulta particolarmente originale, fondata su
schemi già visti e rivisti (in particolare, i collegamenti con Cars, del 2006, e Ratatouille, del 2007, sono fin troppo evidenti): la pellicola si
incentra sul valore dell’amicizia e del lavoro di squadra; sul non arrendersi
di fronte ai propri limiti, nella convinzione che si possa ottenere sempre
tutto; sulla diversità.
Il vero
obiettivo di Turbo sembra comunque essere
il merchandising, ponendosi, nel 2013, tra i prodotti cinematografici di “seconda
ondata” (dopo i già citati Cars,
etc.) a dare il via al nuovo intensivo flusso di commercializzazione fuori dalle
sale. Un tratto distintivo dei film d’animazione (e non solo) degli ultimi anni
è proprio questo loro grado di presa sul pubblico al di fuori del contesto primario,
aspetto in cui la Disney non poteva che prendere il primo posto, con buona pace
della concorrenza. Si pensi almeno, tra gli svariati personaggi di questi anni,
all’ultima trilogia di Star Wars, con
una sequela di personaggi minori creati apparentemente al solo scopo di essere
commercializzati in gadget e giochi dopo l’uscita nelle sale.
Gli stessi amici
di Turbo sono poco approfonditi nel film e sono anzi il più possibile
stilizzati nei loro tratti estetici e caratteriali. Sono poco più che
statuette, con distinzioni fisiche che saltano subito all’occhio: il finale del
film è emblematico, quando gli amici ottengono nuovi gusci “da collezione”. Se
quindi a livello estetico si ritrova una maggiore cura per i dettagli e si dà
maggiore spazio all’immaginazione, è proprio tale livello a risentire della
mancanza di una caratterizzazione efficace di quei personaggi, per cui l’estetica
si stilizza e perde la sua autentica unicità, trasformando i personaggi in
oggetti seriali facilmente riconoscibili.
Un confronto
conclusivo
Bisogna però
considerare anche un altro aspetto, per evitare un elogio nostalgico dei film
del passato rispetto a quelli più recenti. Il personaggio di Fievel Toposkovich
(Mousekewitz nell’originale) fu ripreso non solo a livello cinematografico, nei
sequel, ma anche promozionale. Divenne la mascotte della società di produzione
e di animazione di Steven Spielberg, la Amblimation, comparendo nel logo fino
al 1997, anno della dissoluzione dello studio.
Nel 2000 divenne
poi il portavoce ufficiale dei bambini per l’UNICEF: personaggio amabile da
parte di tutti i bambini nel mondo, era l’esempio di un migrante che aveva
trovato una vita migliore, un apparente orfano in grado di incoraggiare persone
nella sua stessa condizione a non perdere la speranza. Se è vero dunque che
Fievel svolse un ruolo che andava oltre l’àmbito cinematografico e che sì,
coinvolse anche il merchandising, ciò che più conta è ciò per cui fu impiegato,
ovvero come mito positivo per
identificare una condizione ricorrente dall’Ottocento ad oggi, benché spesso in
una geografia (anche politica) modificata.
Il pregio del
mito di Fievel è di essere ancorato ad una storia reale, che in questo caso
amplifica la fantasia del film ed è a sua volta arricchita da quest’ultima. A
confronto, Turbo e altri film del
periodo risultano piccoli: se ad un livello tecnico-visivo possono
indubbiamente vantare un certo pregio, manca in loro una solida base. Quale
base? Tra Fievel sbarca in America e Turbo c’è una diversa ispirazione
culturale: una maggiore profondità storico-sociale, psicologica e culturale nel
primo; una maggiore prevedibilità, data da un approccio da “adagiato-sugli-allori”,
nel secondo.
Per assurdo, in
un’epoca – quella contemporanea – in cui nonostante tutto si è raggiunto un
notevole grado di libertà individuale che non sia limitata dalle proprie
origini, proprio un film così politicamente corretto come Turbo chi pone come antagonista odioso? Un canadese, ovviamente.
Quel “vicino strano” che certi statunitensi trattano alla stregua dello scemo
del villaggio, deridendolo anche in quelli che sono i suoi grandi pregi. E
ridicolizzandone la lingua, che conserva una marcata impronta francese.
Ad ogni modo, i
messaggi dei due film partono ipoteticamente da un fondo comune: non discriminare
chi è diverso, perché potrebbe rivelarsi una risorsa utile alla società. In tal
senso, Fievel sbarca in America gioca
bene le proprie carte per non apparire mai troppo manipolatorio e retorico, ma Turbo – come simbolo di una serie di
film simili – mostra al contrario con insistenza il messaggio che vuole
comunicare, forse ritenendo che genitori e figli non possano capire le ovvie
metafore/allusioni o forse per l’effettiva sottomissione inconsapevole di
sceneggiatori e registi alla cosiddetta “dittatura della parola” nel cinema, in
cui si rende necessario esplicitare ogni cosa per paura di non essere mai
compresi a pieno.
Per intenderci,
nello specifico, parlare di sogno americano ottocentesco negli anni Ottanta del
Novecento significava evocare un mito che univa, poiché la fase di contrasto
(tra migranti di diverse generazioni e origini o tra “nativi” e migranti
tout-court) era ormai venuta meno. Ma nei miti odierni, di cui talvolta i film
d’animazione costituiscono una vera e propria propaganda (giusta o sbagliata
che possa essere), la percezione è che si stia esprimendo non un messaggio
condiviso, bensì una possibile realtà in maniera tendenziosa, quando non
marcatamente politica, che fa perdere autenticità al mito stesso. Il quale
necessita sì di un fondo di verità storico-sociale, ma anche di un distacco
temporale, della rievocazione di un passato antico, a tratti oscuro, in cui la
storia, con le sue contrapposizioni contingenti, si esaurisca per dare vita a
una narrazione condivisa.
Commenti
Posta un commento
Grazie per aver visitato "La Voce d'Argento"! Condividi il tuo pensiero o lascia un commento: ogni opinione è importante e arricchisce la conversazione. Ti ricordo di rispettare le opinioni altrui e di evitare linguaggi inappropriati: i commenti sono moderati per garantire un ambiente costruttivo e piacevole. Buona lettura e grazie per il tuo contributo!