La superiorità culturale nel confronto tra pratiche di società diverse


La riflessione prende spunto dalla lettura di un libro di Caterina Satta, intitolato Per sport e per amore. Bambini, genitori e agonismo.
Al di là del titolo che potrebbe apparire generico, questo libro è stato scritto da una sociologa dell’infanzia, la quale, analizzando una squadra di calcio di bambini, appartenente ad una società di serie A, mette in evidenza come il punto di vista dei bambini sia messo sempre più da parte e prevalga su questi ultimi la visione degli adulti, fino a controllare ad oggi quasi ogni spazio pubblico e privato della loro vita.
Il libro parla di tante altre cose e anche degli aspetti positivi che mettono in relazione genitori e figli, ma questo aspetto ha attirato in particolare la nostra attenzione, tanto da collegarlo alla recente lettura del manuale di Fabio Dei intitolato Antropologia culturale.
Forse non ci siamo mai resi davvero conto di come la nostra visione dell’infanzia non sia affatto comune a tutto il pianeta e tanto meno risulti essere per forza la migliore (il concetto stesso di “migliore” è di per sé discutibile).


Lucas Cranach il Vecchio, La fontana della giovinezza (1546)


Per capirci, nella nostra società, il passaggio all’età adulta è spinto sempre più in là nel tempo. Al contrario, in molte altre civiltà, è normale che i bambini si inseriscano molto prima nel mondo degli adulti. L’occidentale che è in noi potrebbe sùbito pensare a concetti come il “lavoro minorile” e via discorrendo. Ma alla luce dei fatti, esistono realtà in cui è normale che il bambino sia considerato adulto prima rispetto a noi, senza che questo comporti una violazione dei suoi diritti in quanto bambino o un trauma per il soggetto stesso.
Da cui una distinzione: lo sfruttamento è una cosa; il lavoro minorile è un'altra; lo sfruttamento del lavoro minorile un’altra ancora. Esistono tutte e tre le realtà, ma, delle tre, il lavoro minorile non ha sempre una connotazione negativa a tutte le latitudini, e può anzi essere parte di una determinata cultura, che ha tutto il diritto di esistere al pari della nostra.

Le organizzazioni internazionali stanno cominciando da diversi anni a comprendere questa realtà, prima offuscata da una visione eurocentrica/occidentale, frutto di una specifica storia, soprattutto sociale.
Dopodiché il discorso è ampio e si aprono molte altre discussioni: forse che allora, in nome di una determinata cultura, siano legittime tutte le pratiche che questa ritiene valide? Evidentemente no, ed evidentemente bisogna stare attenti a non generalizzare, ma ad avere polso nel considerare di volta in volta il contesto in cui una manifestazione culturale ha luogo e con quali modalità. Dopotutto, alla fine, le culture si incontrano e si contaminano da sempre: su questo terreno comune bisogna esercitare tutto l’equilibrio di cui siamo capaci.

Alla luce di quanto detto, allargo il discorso e provo a fare un esperimento. Supponiamo che esista una certa tribù in Amazzonia, appena scoperta. Sono cannibali. Lo sono da migliaia di anni e il cannibalismo è parte fondamentale della loro cultura, coinvolgendo aspetti sacrali, rituali o più semplicemente sociali e di vita quotidiana. Sarebbe corretto, se non doveroso, porre fine a questa pratica da noi ritenuta barbara, oppure no? Pensateci bene; poi proseguite la lettura.

In un recente sondaggio su Instagram – che ovviamente non ha alcun valore statistico – è emerso ciò che mi aspettavo: il 32% ha votato per “Porre fine al cannibalismo”; il 68% per “Lasciarli liberi di praticarlo”.
Credo che il discorso si possa concentrare su questo punto: se al posto del cannibalismo avessi detto che la tribù amazzonica pratica l’infibulazione, la maggioranza avrebbe ugualmente votato per lasciargliela praticare? Anche se come per il cannibalismo avessi detto che si tratta di una pratica millenaria per quella tribù, che è parte della loro società, suppongo che i più avrebbero votato per impedire loro di continuare a realizzarla.
Forse, non si può nemmeno sostenere che il cannibalismo sia meno grave dell’infibulazione, perché il primo coinvolge uomini e donne nell’interezza dei loro corpi e quindi – per quanto inopportuno sia stilare classifiche, che servono qui solo per capirci – è da considerarsi pure peggiore. E perché mai lasciare la libertà di praticare una cosa tanto grave (per noi, si intende) come il cannibalismo e non qualcosa di altrettanto grave?

Sono questioni che, prese singolarmente, diamo spesso per scontate, considerando di volta in volta il caso specifico. Tuttavia, se questa si può considerare una buona scelta operativa, porta con sé un rischio capitale: “correggere”, secondo un principio conscio o inconscio di superiorità culturale, solo ciò che in un momento storico contingente consideriamo un’azione barbara o un pericolo. Qualcosa che forse in passato non condannavamo o che in futuro potremmo non condannare più. Certo, prendendo a esempio una pratica come l’infibulazione questo ci sembra assurdo, ed è lecito supporre che in futuro vi sarà una convergenza molto più estesa sul tema. Non sempre, però, è così semplice distinguere ciò che è (o dovrebbe) essere un principio universale; non è nemmeno semplice stabilire se possa esistere un principio universale eternamente valido nel tempo e nello spazio. Non da una prospettiva di vita concreta, operativa.

Queste sono questioni che lascio aperte, per spronare i lettori a una riflessione personale. Riprendendo però gli esempi evocati in precedenza, mi sono fatto un’idea generale.
Per la nostra visione eurocentrica/occidentale è forse più semplice pensare a una tribù amazzonica e a tutte le libertà di cui è lecito che essa goda, così come è altrettanto facile pensare a popolazioni mediorientali arretrate culturalmente che debbano essere costrette a porre fine alle loro pratiche.
Per ragioni storiche, sociali, in definitiva culturali, è normale per noi pensarla così; è come parte di un luogo mentale collettivo. E in linea di massima non c’è nulla di illegittimo in queste posizioni: sono il prodotto di una data società. Punto.
Però... se è un pregio culturale aver raggiunto la consapevolezza che l’infibulazione sia una pratica barbara, è altresì un difetto culturale conservare un implicito/esplicito pensiero di superiorità culturale, che si spinga al punto da voler “civilizzare il selvaggio”.

Da cui ritorno al punto di partenza. Perché accettare che qualcuno pratichi il cannibalismo e non l’infibulazione? Forse, perché il cannibalismo, collegato a una tribù amazzonica, rimanda a riflessioni comuni, spesso inconsce, come “le popolazioni dell’Amazzonia hanno subìto per lungo tempo l’invasione dei conquistadores; sono stati decimati e ora soffrono ancora per la distruzione delle foreste”. Come a dire: se anche una quarantina di persone pratica il cannibalismo, lasciamoglielo fare, “poveretti”. Mentre implicitamente si sta considerando che si tratta di una minoranza delle minoranze, ormai innocua, che non è vista come una minaccia per la propria cultura.

Al contrario, l’infibulazione è collegata di solito ai Paesi mediorientali, a prevalenza di religione islamica (ma non necessariamente). Qui entra in gioco il conflitto culturale, poiché l’Islām è una religione in espansione, a stretto contatto con noi moderni occidentali, tutt’altro che una minoranza.
Implicitamente, vediamo in quella cultura una minaccia ai nostri valori, fossero anche solo quelli laici, fondati su diritti individuali che, p. es., condannano appunto una pratica come l’infibulazione. Siamo quindi meno generosi nei loro confronti rispetto a quelle tribù amazzoniche per le quali proviamo un misto di rispetto, rimorso e senso di colpa.
La questione complessiva è tutt’altro che semplice e rimane aperta: con queste righe ho però cercato di presentare alcune considerazioni e alcune possibili soluzioni. E tante domande per stimolare il dibattito personale su come ognuno di noi si relazioni con la propria e con le altre culture.

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