L’arte quotidiana. Rapporto tra immagine social e realtà
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Éduard Manet, Olympia (1863) |
Rispetto ai
consueti articoli di questo blog, in questo caso sarò più breve, diretto e – in
certa misura – sentimentale. Da cui (chi mi segue regolarmente lo avrà già
notato) l’uso della prima persona.
Tutto è nato
settimane addietro, quando di fronte all’ennesimo fenomeno naturale degno di
nota, presi lo smartphone per fare
una storia. Ero di fronte a un bel campo verdeggiante, con l’erba ad un’altezza
medio-bassa, costituita da fili verdi sottili radunati in ciuffi rigogliosi.
Intorno a me nessuna persona, nessuna abitazione. Sullo sfondo, in lontananza,
alcune case di campagna molto uguali tra loro, con sincere pareti bianche e una
canna fumaria segnalata all’esterno da una pittura di diverso colore, terra di
Siena. A rendere quel campo più suggestivo del solito era il vento, agente
esterno, imprevisto ma non imprevedibile, che con forza posava la sua mano
sulla distesa verde, che in modo lento e uniforme si adagiava sul fianco. A
coronare il tutto, il suono di quel vento, che a seconda dell’oggetto
attraversato pronunciava un diverso pensiero.
Avevo tutto
questo davanti agli occhi, ma la suggestione che avevo dentro non era così
nitida da definire quanto, ora, ho riportato qui con il ricordo. Sul momento
raggelai quella suggestione e la osservai attraverso uno schermo, come se –
spenta la fiamma che si era accesa – avessi preferito riprendere il fumo
provocato dal suo spegnimento. È facile pensare che quando acquisti coscienza
di qualcosa, chiunque debba aver percepito la medesima sensazione. Quel che
compresi, ad ogni modo, è come talvolta una storia di Instagram sia come
mostrare al mondo un bel momento che non abbiamo vissuto. Un po’ come dire: «Questa
bellezza è quello che mi sto perdendo; guardate, perché per mostrarla a voi mi
sto perdendo questo attimo».
Mi resi conto di
come la tecnologia fosse una sorta di lente, nata non per osservare meglio il
mondo, ma solo per registrarlo. Perché non importa la qualità del dispositivo o
del medium utilizzato: anche il migliore strumento sul pianeta non può mostrare
oltre la realtà sensibile e questo è evidente di per sé. Che cosa era dunque
necessario fare per creare uno scarto significativo tra quella registrazione e
il mio contributo ad essa?
Il problema è
che il medium, sia esso una macchina fotografica o uno smartphone, diviene una
parete simbolica tra due coppie di spazi: quello che separa l’agente dall’evento
che ha di fronte e quello che separa agente ed evento dalla comunità in connessione.
In termini
generali, che esulano dalla mia esperienza di partenza, l’agente cessa di
essere parte di un evento; smette di essere attore per divenire regista. Egli
mostra la realtà di cui ha colto un dato valore; mette in risalto quelli che
per lui sono i punti di forza o di interesse, ma – di fatto – si estrania dalla
rappresentazione.
E questo vale
anche nel caso di quelle storie che mostrano la persona stessa che riprende,
dal momento che anziché vivere quel particolare momento, l’azione di
riprenderlo – che è di per sé un’aggiunta innaturale – sminuisce l’autenticità
del gesto che segue.
Eppure, la
risposta sembra essere meno difficile di quello che sembra. Potrebbe infatti
essere sufficiente prendere atto di questo artificio e sfruttarlo – al pari
della letteratura, del cinema e dell’arte in generale – come modello
espressivo. Forse è un’elucubrazione suggestiva, pensare cioè di formulare un’espressione
in modo volontario piuttosto che subirla naturalmente, tuttavia è ciò che
avviene appunto in altre forme espressive come il teatro. E non è certo da
sottovalutare l’impatto che un’azione cosciente e meditata è capace di avere
nello sviluppo interiore dell’individuo. Si tratterebbe di un sano controllo
delle emozioni, a patto però che questo processo avvenga.
A ciò si
aggiunge un altro elemento: quello delle immagini non-video. Siamo ormai
abituati a un certo grado di standardizzazione, a tal punto da poter
identificare e catalogare determinati “generi” di fotografie e di immagini.
Durante l’estate appena trascorsa, per esempio, un leitmotiv è stato quello delle gambe femminili, talvolta solo della
caviglia, intorno alla quale era legata una cavigliera con una serie di
conchiglie. Gli esempi, in ogni caso, sono numerosi. Come nel caso delle
storie, anche qui la sostanza è che l’aspetto riflessivo viene meno a favore
dell’aspetto visivo fine a se stesso, ovvero a favore di quell’ossimoro che è l’“autocelebrazione
comunitaria”. L’individuo che subisce la propria passività in cambio di un’apparenza.
L’immagine a cui non corrisponde più il pensiero.
Non sono però
qui per una critica e un’autocritica puramente distruttive. Vi sono infatti
diversi spiragli di luce in questo panorama. A livello concettuale, la
standardizzazione è quasi sinonimo di massa; e massa e standardizzazione non sono
che il punto più basso di un fenomeno riservato non a tutti, che è l’arte.
Chiariamo questo punto: l’arte è accessibile a tutti e idealmente a tutti
comprensibile, ma il fare arte è
decisamente un’altra storia.
Prendiamo Manet:
la sua Olympia (1863) aveva non pochi
precedenti, tra cui due opere in particolare, la Venere dormiente (1510 ca) di Giorgione e la Venere di Urbino (1538) di Tiziano. In Manet vi era indubbiamente
la volontà di volersi confrontare con quei precedenti. Nei social, questa
imitazione ha però solo in parte i segni di una rivisitazione (radicale o meno),
concentrandosi piuttosto su una ripresa “aggiornata” di una certa immagine, che
in luogo dell’ispirazione favorisce la ricomposizione di una materia già
offerta. Potrebbe al massimo trattarsi di un esercizio di stile, ma – anche qui
– in difetto è la coscienza. In parole semplici: solo di rado siamo consapevoli
e abbiamo anzi la volontà di ispirarci a un modello autorevole in vista di una
riproposizione che abbia anche il minimo pregio e contenga parte di noi stessi.
Eppure questi
casi esistono. Esistono, più o meno nascosti, più o meno visibili, molti
profili e pagine, che costruiscono una visione positiva, cosciente e in certi
casi persino artistica. Dunque i social – oltre al loro risvolto idealistico e
standardizzato – riflettono non di rado la realtà, in cui fattori come l’istruzione
e la morale intervengono con notevole eccezione, certo, ma quando si mostrano
mettono in luce una rara bellezza che deve essere ricercata, indagata e
apprezzata. Valorizzata, forse? Fino a un certo punto, fino a quel limite “naturale”
dove iniziano le imitazioni e i riflessi. E ricompare quel velo che assimila
tutto a un piatto egualitarismo, che lungi dall’esaltare l’individuo, lo riduce
al fantasma di una potenzialità mancata.
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