Letture commerciali IV
Johannes Jeigerhuis, The bookshop of Pieter Meijer Warnars on the Vijgendam in Amsterdam (1820) |
La rubrica Letture
commerciali si propone di analizzare alcuni libri di autori italiani e
stranieri molto venduti in Italia, in un periodo compreso tra il 2000 e il
tempo presente.
Non si tratta di vere e proprie recensioni, bensì di
impressioni, utili a fornire un rapido sguardo d’insieme. Mi occupo di letture
commerciali, talvolta trash, consapevole del fatto che i due termini non siano
necessariamente intercambiabili. L’obiettivo è individuare chi, tra i nomi più
diffusi nelle classifiche di vendita, meriti davvero attenzione.
Nella rubrica di oggi parlo di cinque libri: L’Élégance du hérisson di M. Barbery, Milk & Honey di R. Kaur, 4 3 2 1 di P. Auster, The Half-Drowned King di L. Hartsuyker, Piranesi di S. Clarke.
Per queste e altre impressioni mi trovate anche su Goodreads
(qui).
Muriel Barbery, L’eleganza
del riccio (L’Élégance du hérisson,
2007)
Premessa commerciale: generalmente apprezzato dalla critica,
il romanzo è divenuto un best-seller e un long-seller, vincendo diversi premi,
tra cui il French Booksellers Prize (2007), e conoscendo nuove ristampe
internazionali.
Edizione: M. Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, Roma, 2007.
Una portinaia come protagonista, Renée, pronta a smantellare
i pregiudizi classisti e di genere, pur non essendo un’attivista: la sua è un’etica
universale che prende le mosse dalla gentilezza e dall’umiltà. Tuttavia, anche
lei non è estranea a forme di pregiudizio, un aspetto che la rende più umana,
in quanto il suo pensiero è alimentato da tristi esperienze di vita, che l’hanno
segnata. Ciò che più conta, e che la distingue, è il fatto di averne coscienza.
Inoltre, l’amicizia con Manuela e l’affinità con la giovane
Paloma e con il signor Ozu nobilitano il suo animo: Renée è alla ricerca di
istanti puri, che, pur brevi nel tempo, mettano in luce la Bellezza del mondo.
La trama narrata da Barbery non è esente da luoghi comuni,
piccole cadute di stile e inverosimiglianze, ma tutto questo è armonizzato
dallo stile della scrittrice, che dosa con equilibrio ironia e dramma, note da
telenovela e significative riflessioni filosofiche.
Come tutti i titoli recenti definiti “capolavori”, ho
preferito leggerlo in “tempi non sospetti”, con pacatezza: ho scoperto un
romanzo che non è affatto un capolavoro – e ciò non mi ha sorpreso – ma che, a
ogni riga, si è rivelato un elegante esercizio di stile e di umanità.
Rupi Kaur, Milk and
Honey (2014)
Premessa commerciale: pubblicata per la prima volta nel 2014,
questa raccolta poetica ha venduto milioni di copie nel mondo. A giugno 2020,
risultava inserita nella The New York
Time Best Seller list da 165 settimane.
Edizione: R. Kaur, Milk
and Honey, Tre60, Milano, 2017.
Milk and
Honey è quel genere di opera in cui puoi
concordare con tutti i pensieri dell’Autrice, ma non apprezzarne la forma.
Il problema non nasce tanto dalla lunghezza dei
componimenti, perché la storia della poesia ci ricorda con facilità poesie di
poeti ermetici quanto mai brevi. Brevi, ma non concise. Per citare un classico
esempio, Mattina di Ungaretti, il
poeta esprime in quattro parole un universo articolato e che potenzialmente può
racchiudere ogni cosa; inoltre, di fronte all’evidente rottura di un canone,
egli cela – in modo speculare – una ricerca metrica e sonora che è un tributo
al passato. Questi due aspetti vengono meno in Kaur.
Certo, a livello di temi, non si può non condividere la
necessità di amare se stessi e soprattutto di amarsi prima di potersi rivolgere
agli altri; non si può negare il maschilismo prevaricatore nei confronti delle
donne, a partire dalla vita familiare; non si può non riconoscere con la
scrittrice come oggi il corpo sia trattato da merce e i sentimenti siano
diventati un gioco.
Questi sono temi caldi del presente che l’Autrice affronta con sincero
trasporto emotivo, ma la questione è: si può davvero parlare di poesia? Per
difendere questa definizione, non si può accusare il lettore di non essere
abbastanza “moderno”, perché la brevità, la quasi totale assenza di
punteggiatura, la ripartizione in versi sono ormai essi stessi canone
letterario, a distanza di oltre un secolo dalle prime avanguardie. E le
tematiche non sono affatto una novità assoluta né in termini prettamente
letterari, né di attivismo.
Forse è più appropriato parlare di aforismi, di pensieri, o
anche di “stati”: in quest’ultimo caso, forse la riflessione contemporanea
potrebbe ragionare sulla creazione di un nuovo genere o sottogenere, che
rispecchi pienamente la natura di componimenti che nascono e si rivolgono alla
rete. Forse la forma-libro non è, in casi come questo, un vantaggio e un’elevazione
per chi scrive, ma un impoverimento, in cui le parole sembrano smarrirsi nella
superficialità, non perché siano superficiali, bensì, semplicemente, fuori
posto. Forse la rivoluzione letteraria odierna è riconoscere la libertà delle
parole rispetto al recinto di carta, fisica o digitale, a cui le releghiamo.
Paul Auster, 4
3 2 1 (2017)
Premessa commerciale: il 19 febbraio 2017, il romanzo
ottenne la posizione numero 13 nella lista dei best seller di New York Times.
Negli anni seguenti ha continuato a destare l’attenzione di lettori e
recensori.
Edizione: P. Auster, 4 3 2 1, Einaudi, Torino, 2017.
Romanzo di formazione, il testo propone quattro diversi
sviluppi della vita di Archibald “Archie” Ferguson, nati dall’avverarsi o meno
di differenti possibilità. Ogni capitolo porta avanti le quattro vite in modo
simultaneo e il punto di incontro risiede in due fattori: il carattere di base
del protagonista e le vicende storiche del suo tempo, dalla fine degli anni
Quaranta all’inizio dei Settanta.
L’opera appare come una grande metafora della giovinezza e
di come sia possibile, in quella fase, trasformarsi (o essere trasformati) con
più facilità a contatto con le esperienze di vita. Ma è presente una notevole
quantità di altri temi, tra cui risaltano: il complicato rapporto padre-figlio;
la scoperta della propria sessualità; l’importanza dell’amicizia; l’analisi
letteraria e cinematografica, inserita nel più ampio tema della scrittura.
Nella trama, il rapporto con la cugina Amy acquisisce sempre
un ruolo peculiare e in diversi brani la loro relazione sembra ricordare quella
tra Forrest Gump e Jenny Curran, peraltro ambientata in parte negli stessi
anni. Il contesto storico non è affatto secondario e gioca un ruolo chiave
nelle scelte e nel modo di pensare dei personaggi, riflettendo su come
l’ambiente condizioni in larga parte i pensieri e le azioni delle persone.
In generale, la prosa di Paul Auster accompagna con comodità
il lettore, nonostante le oltre novecento pagine del testo, per quanto vi sia
spesso una ridondanza (inevitabile) di contenuti, un eccessivo citazionismo e
una tendenza all’enumerazione. Quest’ultima sembra stia diventando sempre più
una caratteristica della narrativa degli ultimi anni (ne abbiamo anche un
esempio italiano, ne Il colibrì di S.
Veronesi), un’epoca in cui si accumulano liste per ogni cosa e in cui libri,
film e serie tv esplorano il Novecento, e non solo, alla ricerca di nuove
storie da mitizzare.
L’opera monumentale di Auster gioca con il lettore a livello
meta-testuale e allude a giganti come Guerra
e pace e Il conte di Montecristo,
quasi a voler stimolare una connessione mentale tra quei titoli e 4 3 2 1. Il finale stesso è un’aperta
dichiarazione d’intenti, in cui lo scrittore-narratore sintetizza la propria
idea sulla storia raccontata, ma facendo trasparire, forse, la stanchezza di un
modulo narrativo ormai usurato, che si perde, nell’ultima pagina, nell’ennesimo
fuori fuoco a tema storico. A mancare, rispetto ai grandi romanzi qui citati, è
il respiro epico attribuito ai personaggi, oppure, ricollegandosi a scrittori
quali J. L. Borges, la profondità analitica celata al di sotto del mero gusto
di narrare.
Linnea Hartsuyker, Viking.
Le ossa di Ardal (The Half-Drowned
King, 2017)
Premessa commerciale: la saga The Golden Wolf è stata una delle più lette negli ultimi anni,
ammiccando a un pubblico YA e agli appassionati di fantasy, benché si tratti in
realtà di una saga storica.
Edizione: L. Hartsuyker, Viking.
Le ossa di Ardal, Giunti, Firenze, 2017.
Il libro è il primo capitolo di una trilogia, scritto
palesemente sulla scia del successo della serie tv Vikings, di cui risulta essere un pallido riflesso. È un romanzo
storico che affronta la presa del potere del primo re norvegese, Harald Bellachioma,
raccontata però sullo sfondo delle vicende legate a Ragnvald Eysteinsson, jarl
di Møre.
Le leggende e i fatti storici da raccontare su quel periodo
sono molteplici, ma in centinaia di pagine non emerge quasi nulla della cultura
norrena; in particolare, ogni aspetto sacro è saltato di pari passo e la vita
di questi Vichinghi è solo un susseguirsi di conflitti senza altra ragione che
la brama di potere. Un esempio è la festa di Yule, solo citata come elemento
temporale, senza alcun approfondimento sui contenuti: ne emerge una civiltà di
guerrieri, il cui unico scopo è combattere, ignari di ogni aspetto sacro e
inesistenti nella vita quotidiana. La stessa violenza è in realtà trattenuta a
forza, forse per venire incontro all’esigenza commerciale di rivolgersi a un
pubblico più giovane (denunciato dalla copertina dell’edizione italiana, che è
una sorta di “inganno fantasy” per i potenziali lettori). Il risultato è l’inverosimiglianza
di molti duelli raccontati.
La scrittura di Hartsuyker è lineare, spesso piatta; ogni
emozione è tenuta a freno, dai momenti intimi alle grandi battaglie: sembra che
gli eventi si succedano solo perché debbano accadere e non perché siano la
conseguenza delle scelte dei personaggi. Questi compaiono sulle pagine come
figure che tutti dovremmo conoscere, ma nei fatti è molto difficile una
qualsiasi immedesimazione.
Alla luce delle fonti storiche e letterarie citate dall’Autrice,
questo romanzo risulta essere un’occasione mancata per raccontare i Vichinghi,
anche nel tentativo di migliorare la trama storica della nota serie.
Susanna Clarke, Piranesi
(2021)
Premessa commerciale: secondo romanzo dell’Autrice, uscito
dopo una lunga attesa (Jonathan Strange
& Mr Norrell è del 2004), è diventato uno dei “casi letterari” del
2021, vendendo milioni di copie.
Edizione: S. Clarke, Piranesi,
Fazi Editore, Roma, 2021.
Piranesi è un’opera apparentemente atipica nello scenario della
narrativa degli ultimi anni. E senza dubbio lo è, ma solo in parte.
Si tratta della storia di un certo Piranesi, un personaggio
il cui nome allude all’architetto e teorico dell’architettura Giovanni Battista
Piranesi, autore delle stampe note come Carceri
d’invenzione (1745-50). Come in quelle rappresentazioni, il protagonista si
trova a vivere in un mondo particolare, costituito da una serie di stanze,
molte delle quali soggette a inondazioni dovute alle maree. La struttura-mondo
– chiamata Casa – si configura come un labirinto, potenzialmente pericoloso
fino a quando non si entra in armonia con esso, comprendendone i cicli.
Numerosi sono i riferimenti e i tributi alle opere di C. S.
Lewis, ma evidenti sono anche le fonti di ispirazione più antiche, a partire
dal mito platonico della caverna, fino alla reinterpretazione di una certa
narrativa enciclopedica illuminista e al romanzo epistolare. Susanna Clarke dà
tuttavia vita a un universo personale con non pochi elementi di originalità. E
qui risiede il limite. Poiché la Casa è un luogo con un potenziale narrativo
immenso, che però non viene mai davvero portato alle estreme conseguenze.
La trama, quando viene ridotta ai suoi elementi essenziali,
è semplice, quasi banale; i personaggi secondari sono quasi tutti inutili e
superflui, ovvero non funzionali alla trama; statue, animali e ambienti sono
poco più che comparse, anche quando mirano a svolgere un ruolo simbolico
centrale. Per questo il libro si regge su un dato tecnico, lo stile abile della
scrittrice, in grado di coinvolgerti nel suo mondo, o quantomeno nel mistero
che lo circonda, anche quando tale mistero appare di facile soluzione.
I messaggi che il libro vuole comunicare sono abbastanza
semplici da identificare: vanno dal rapporto tra sé e l’altro, o il diverso,
fino al limite tutto umano per cui non siamo in grado di apprezzare il mondo
nel quale viviamo finché non ci accorgiamo che potrebbe diventare qualcosa di
drammaticamente più terribile. Da cui il valore della generosità, della
riconoscenza, della gentilezza e via discorrendo. Temi certamente validi, ma
collocati su livelli di lettura piuttosto semplici, che vanno poco oltre i
sensi letterale e metaforico.
Piranesi non è certo un capolavoro e non è solo il fatto che l’opera
sia spesso derivativa (anche i capolavori possono esserlo senza troppi
problemi). Ciò nonostante è un’opera ben scritta, a tratti piacevolmente (e
volutamente) ripetitiva, talvolta fastidiosa, con le sue maiuscole generalizzate
e le manie da catalogatore seriale del protagonista. Ma – sebbene i più
fatichino ad accettarlo – le opere, non solo letterarie, possono
tranquillamente essere né capolavori né obbrobri, situandosi invece in una
posizione intermedia e ragionevole.
Di certo, lo stile di Susanna Clarke si presenta come una
provocazione al lettore medio, abituato a periodi-base e dal contenuto lineare,
e già questo è un ottimo pregio da tenere in considerazione, anche a fronte di
un contenuto solo in parte appagante.
Nota: per il precedente episodio della rubrica, si veda qui; per quello successivo qui. Su questo blog si trova anche la rubrica Impronte di classici, dedicata alle impressioni riguardanti i classici della letteratura (qui il primo post).
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