L'edizione WoM de La storia di Venere e Tannhäuser di Aubrey Beardsley

 


La storia di Venere e Tannhäuser (Under the Hill) di Aubrey Beardsley: vi voglio parlare di questo classico del Decadentismo, forse oggi poco conosciuto dalle nuove generazioni, ma prima fidatemi di me, perché intendo spendere due parole sull’edizione WoM del 2024.

Questa si distingue prima di tutto per l’alta qualità della carta (non chiedetemi i mm e cose del genere: non me ne intendo!) e per la rilegatura in cartonato. Un centinaio di pagine che colpisce a partire dalla copertina, con una sontuosa illustrazione originale dell’Autore, stampata in bianco e nero con eleganti dettagli in lamina dorata. Il libro acquisisce così un aspetto prezioso, quasi fosse un oggetto d’arte liberty d’epoca, e ciò permette al lettore di immergersi fin da sùbito nell’atmosfera fin de siècle evocata dall’opera.

 

Un altro pregio notevole dell’edizione è l’apparato illustrativo completo. WoM ha incluso tutte le illustrazioni originali che accompagnavano il testo: tavole come The Abbé e The Coiffing, nonché scene simboliche disegnate da Beardsley che qui troviamo stampate in alta definizione. L’impaginazione valorizza i disegni: spesso occupano intere pagine a fronte del testo, permettendo al lettore di apprezzarne i particolari. Insomma, questa edizione costituisce un’esperienza estetica completa e un tributo rispettoso nei confronti dell’Autore.

Sotto il profilo critico, il volume prevede la curatela di Debora Barattin e di Matteo Pinna, che accompagnano qualsiasi tipologia di lettore (esperto o ignaro) nella comprensione del testo. L’introduzione inquadra l’opera nel contesto storico e artistico: vi si delineano la genesi e le caratteristiche del racconto, con riferimenti biografici e alle fonti del mito di Tannhäuser. Concepito in origine per la rivista The Savoy (1896), ma rimasto incompiuto per la prematura scomparsa dell’Autore, il libro fu pubblicato postumo in forma censurata nel 1904 e solo nel 1907 uscì in edizione (privata) integrale. Si ricorda anche la curiosa edizione del 1959 presso Olympia Press, in cui il poeta John Glassco completò il finale imitando lo stile di Beardsley.

 

Una nota a parte dev’essere riservata alla traduzione italiana, moderna ma rispettosa dell’eleganza arcaicizzante dell’originale. La traduzione è dunque scorrevole, pur nella ricchezza ornamentale della prosa. Infine, il volume è completato da alcune note esplicative a piè di pagina – discrete ma utili – che chiariscono riferimenti storici, mitologici o lessicali più ostici.

Nel complesso, l’apparato critico dimostra un eccellente equilibrio tra rigore accademico e volontà divulgativa: l’edizione WoM è adatta tanto al lettore colto e al collezionista, quanto al neofita attratto dalla fama scandalosa dell’opera.

Siamo di fronte a un oggetto-libro di pregio, dove ogni scelta editoriale rispecchia la profonda passione per il proprio lavoro. Se non sostenete case editrici indipendenti come WoM, lasciatevelo dire: non avete il minimo gusto estetico.

 

Stile, simbologia e contesto storico-artistico

 

Bene, dopo questa doverosa premessa vengo al contenuto. La storia di Venere e Tannhäuser è un racconto che riflette in pieno l’estetica decadente di fine Ottocento, sia per i temi trattati sia per lo stile sontuoso ed eccessivo con cui è scritto.

Va anzitutto ricordato che si tratta della rielaborazione di una leggenda medievale molto popolare nel XIX secolo grazie al revival romantico e simbolista. Nella tradizione originaria, il menestrello Tannhäuser scende nel Venusberg – il regno sotterraneo di Venere – e vi indugia nei piaceri proibiti; pentito, torna nel mondo cristiano cercando la redenzione, ma il papa gli nega il perdono finché avverrà un miracolo (la fioritura del suo bastone). Disperato, Tannhäuser fa ritorno da Venere, condannandosi, e solo troppo tardi giunge la notizia del perdono divino.

 

Da questa leggenda, Richard Wagner trasse l’opera Tannhäuser (1845), caricando la vicenda dei contrasti tra amore sacro e profano e tra redenzione e dannazione. Beardsley, invece, compie un gesto di aperta sovversione dei valori tradizionali: nella sua versione non c’è traccia di pentimento, e tutta l’attenzione è rivolta alla celebrazione estenuata del piacere sensuale.

Il regno di Venere è al centro della narrazione; d’altra parte, il racconto – così come ci è pervenuto – si interrompe prima della partenza dal Venusberg. Il risultato è un maggiore focus sui valori pagani rispetto a quelli cristiani. La Venere di Beardsley trionfa incontrastata: il suo regno non è una parentesi peccaminosa da espiare, bensì un luogo dove la nozione stessa di peccato è sospesa, sostituita da un’estetica della voluttà senza sensi di colpa. È un mito riscritto in chiave anti-moralistica e anti-vittoriana, in linea con l’ideale decadente dell’arte per l’arte.

 

Tono e stile letterario sono quantomai distanti dalla sobrietà vittoriana: Beardsley adotta un registro alto, artificioso, intriso di ironia ed erotismo velato. Già la forma epistolare della dedica iniziale ne è un esempio: il libro si apre con una lunga lettera dedicatoria a un fittizio cardinale, in cui l’Autore chiede perdono per l’arditezza del soggetto. La dedica è scritta in uno stile démodé, imitante le formule cerimoniose del Settecento e infarcito di umiltà parodica: un espediente che mostra sùbito il gusto per il pastiche letterario e per la satira.

Anche l’introduzione al protagonista avviene in modo inaspettato: Beardsley rende Tannhäuser una figura androgina e leziosa che incarna il dandy decadente e sulla quale l’Autore si sofferma con dovizia di particolari. Siamo lontanissimi dall’eroe romantico penitente e di fronte, invece, a un antieroe che sceglie l’antro pagano senza aver subìto alcuna tentazione.

 

Lo scenario del Venusberg viene dipinto con un barocchismo sensoriale mozzafiato: abbondano i dettagli visivi, olfattivi e tattili; la prosa è densa di aggettivi e di metafore; fiaba e pornografia si fondono in una narrazione che non scade mai nella volgarità e si gioca tutta sulle allusioni.

La trama è ridotta al minimo, e tutta l’attenzione è rivolta alle sequenze descrittive (ambienti, cerimonie, personaggi): si valorizza la contemplazione rispetto all’intreccio, una scelta che potrebbe spiazzare il lettore medio contemporaneo. Beardsley spinge all’estremo gli stilemi decadenti, dando vita a un manifesto del genere che assomiglia al contempo alla sua stessa parodia.

Sul piano dei significati simbolici, Venere rappresenta qui la quintessenza dell’eros non censurato: Venere è la Bellezza contrapposta alla Morale cristiana, e il fatto che Tannhäuser rinunci al pentimento per restare con lei può essere letto come la vittoria dell’ideale estetico-pagano sull’ideologia ascetico-cristiana. Un esempio è dato dall’unicorno, animale legato alla purezza virginale, nonché simbolo cristiano, che viene asservito a Venere in un rito mattutino erotico-sacrale che vi invito a scoprire.

 

Che cosa aggiungere?

 

Ora, immaginatevi un autore malato di tubercolosi e consapevole della sua fine imminente, che si congeda dalla vita attraverso un’ultima fantasia sfrenata, una discesa agli inferi tramutata in un viaggio misterico per l’amore.

Accanto alle parole, le illustrazioni rivestono un ruolo imprescindibile nella fruizione dell’opera. Le tavole dialogano con il testo; ne amplificano simboli e atmosfere, forse completano persino il testo.

Linee nere nitide e sinuose su sfondi bianchi; spazi sapientemente bilanciati tra pieni e vuoti; decorazioni floreali che rimandano alla nascente Art Nouveau; elementi grotteschi mescolati a figure femminili sensuali e a figure maschili effeminate. Si avverte l’eredità preraffaelita, ma anche l’influenza dell’arte giapponese nelle composizioni piatte e nei pattern decorativi. Le immagini di Venere realizzate da Beardsley non assomigliano alle idealizzate Veneri classiche, ma ricordano una femme fatale dal sorriso enigmatico e dall’aria sorniona. Una Venere decadente che abbandona tanto la bellezza rinascimentale quanto la solennità wagneriana, per abbracciare le seducenti protagoniste dei dipinti di Burne-Jones o di Gustav Klimt.

 

Questo racconto ha le sembianze di un poema in prosa illustrato: non conta per niente ciò che succede, ma come viene descritto. È un racconto statico, privo di una vera conclusione, ma è anche una tale allucinazione letteraria e al contempo un tableau vivant da commuovere il giusto lettore.

Per di più, l’inserimento delle illustrazioni in un volume moderno, come realizzato da WoM, restituisce al pubblico l’esperienza che i primi estimatori di Beardsley ebbero a fine Ottocento, sfogliando riviste come The Yellow Book o The Savoy. Non è poco in questi tempi dove la “volgarità volgare” ha ammorbato ogni forma di piacere.

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