L'antiaura che domina in Pet Sematary

 


Romanzo horror pubblicato nel 1983, Pet Sematary di Stephen King è un libro con cui ho avuto alcune difficoltà. Ne avevo iniziato la lettura, lasciandola poi in sospeso. Ci ero tornato anni dopo, arrivando a concludere la prima delle tre parti che costituiscono il romanzo. Infine, dopo una nuova pausa di due mesi, l’ho portato a termine.

Nel frattempo, ho visto e rivisto l’adattamento cinematografico del 1989 – ormai un cult, anche grazie all’omonima canzone dei Ramones – e ho guardato una volta il mediocre film del 2019. Inoltre, nelle settimane in cui scrivo questa analisi, sta per uscire il film Pet Sematary: Bloodlines (2023), un prequel della storia principale, ambientato nel 1969, con un giovane Jud Crandall – uno dei personaggi principali di Pet Sematary – nei panni del protagonista.

 

Il libro è stato nominato per un World Fantasy Award come miglior romanzo nel 1984, e ha avuto un ottimo successo di pubblico, eppure l’ho trovato lento, ridondante e verboso.

King riprende il suo tipico espediente di rivolgersi direttamente al personaggio, manifestandone la coscienza, il dialogo interiore con l’inconscio, ma le frasi ricorrenti – tra cui quel «Oz the Gweat and Tewwible» – risultano alla lunga sfiancanti.

Un altro punto debole, a cui King ci ha abituati, è dato dalle numerose digressioni, con descrizioni lunghe e, spesso, del tutto gratuite, come per esempio la narrazione della modalità certosina con cui Jud ha organizzato il funerale della moglie. O l’interminabile monologo di Jud sulle sue esperienze giovanili con il cimitero: un vero e proprio racconto nel racconto, che potrebbe vivere di vita propria.

È però proprio il filone narrativo che lo riguarda a rappresentare la parte più interessante di Pet Sematary e chi ha prodotto il prequel cinematografico deve essersene reso conto. Anche perché è in quella storia che, in potenza, si può ritrovare la produzione “classica” dello scrittore, con un tipico gruppo di giovani degli anni Cinquanta o Sessanta che va incontro a un oscuro male.

 

Vengo però ai dettagli del romanzo. Nel 1979, King risiedeva in una casa del Maine adiacente a una strada pericolosa, dove cani e gatti venivano uccisi dai veicoli. Fu la sorte che toccò proprio al gatto di sua figlia. Da qui lo spunto della trama: l’ipotesi che quell’animale potesse tornare in vita, ma «fondamentalmente sbagliato».

King volle anche realizzare una rivisitazione del racconto The Monkey’s Paw (1902) di W. W. Jacobs, in cui un giovane resuscitava dopo che i genitori ne avevano espresso il desiderio.

La trama divenne quindi la seguente: il medico Louis Creed si trasferisce con la famiglia in una nuova casa nella cittadina di Ludlow, nel Maine. L’uomo fa amicizia con il vecchio vicino, Jud Crandall, che gli mostra il cimitero degli animali, un luogo dove generazioni di bambini hanno seppellito i loro animali domestici. Oltre a quel cimitero, però, ce n’è un secondo, che un tempo apparteneva ai nativi Micmac e che presenta un oscuro segreto che stravolgerà la vita di Louis.

 

Come l’Overlook Hotel di The Shining, così il cimitero dei nativi influenza le azioni dei protagonisti. Jud sembrerebbe Dick Hallorann, colui che è consapevole del male in agguato, se non fosse che il suo passato appare meno limpido di quello dello chef dell’Overlook e, non a caso, King gli riserva una sorte ben diversa. Hallorann è pure un lume di bene che cerca di agire contro il male, un po’ come l’anima di Victor Pascow, in Pet Sematary, tenta di mettere in guardia Louis e Ellie.

Egli ritorna, infine, nel lungo viaggio di Rachel verso Ludlow, nella convinzione della donna che una forza la stia tenendo lontana da casa («qualcosa stava cercando di trattenerla...»). Al contrario di Hallorann, dotato dello shining, Rachel non potrà che averne soltanto un sentore. Eppure, qualcosa agisce, e il suo raggio d’azione è più vasto del previsto.

Rachel è una donna talmente innamorata del marito da averlo scelto contro il parere del padre, che invece disprezza Louis. La donna vive un conflitto, che non risolve, con la figura paterna e nel matrimonio e nella famiglia decide di investire tutte le sue forze. Quando i due coniugi subiscono un grave lutto, Rachel rimane fedele all’uomo e sembra voler escludere ogni sua responsabilità.

Se si vuole, è un personaggio più debole e meno resistente rispetto a Wendy in The Shining, ma certo il suo amore viene ricambiato da Louis, che dopotutto è un brav’uomo e finisce, in maniera macabra, per dimostrare questo amore.

 

In questo romanzo, King non punta sui colpi di scena, e anzi anticipa in anticlimax la morte di uno dei personaggi, per poi tornare all’evento nelle pagine successive, fornendo i dettagli.

Il vero orrore è qui dato dal modo in cui i personaggi si rapportano alla morte: la moglie di Louis, Rachel, rifiuta l’argomento, tormentata dal fantasma della sorella; la piccola figlia Ellie si mostra più matura del previsto e impara ad accettarla; Louis passa da un approccio medico e razionalista sul tema al totale delirio.

L’intento dello scrittore sembra quello di voler mostrare le diverse reazioni al lutto e al dolore, ma è anche un’espansione del suo universo letterario, con quel cimitero dei Micmac che, in maniera subdola, conduce la famiglia Creed in una spirale di morte. Come ogni mistero millenario che si rispetti, l’osservatore del momento non può che carpire una leggenda, un ricordo d’infanzia sul Wendigo e mettere insieme i fili di un segreto che – è il caso di dirlo – andrebbe lasciato sepolto.

 

Dopotutto è King a dirci, in una pagina introduttiva: «La morte è un mistero e la sepoltura è un segreto.» E ci elenca una serie di persone che, per così dire, hanno assistito la morte, rimanendo anonime: dall’uomo che rivestì d’oro il cadavere di Alessandro Magno a coloro che mummificarono i faraoni, fino all’uomo che imbalsamò Elvis Presley.

La morte resta il più grande tabù dell’essere umano. Vogliamo delegare ad altri la gestione della salma, la sepoltura e la burocrazia, nascondendoci dietro all’idea che sia qualcosa di troppo grande per noi. E certo è indispensabile che tutto ciò venga gestito da esperti, eppure ho la sensazione che sia anche un modo per alleggerire un fardello e renderlo il più indolore possibile. Questa è la figura di Rachel.

 

Al contrario, ci sono individui che nel dolore del lutto si immergono, come fossero essi stessi morti, riversando su di sé colpe e responsabilità. E qui siamo dalle parti di Louis. La sua disperazione diviene ossessiva e – come dice Rachel al marito, riferendosi al cimitero degli animali – è «maledettamente morboso» curare le tombe e pulire il sentiero nella forma maniacale dei bambini del luogo.

Louis è un medico, dotato di un certo pragmatismo. Persino in fase di delirio, sopravvive in lui una folle lucidità. Louis non è fatto per ricevere le condoglianze dei parenti e di semisconosciuti. Frasi come «le vie del Signore sono misteriose» lo colpiscono ai nervi, mentre in lui si insinua il tarlo dell’azione, conseguenza della sua incapacità di rassegnarsi alla cruda verità.

Il più grande pregio di Pet Sematary risiede qui: non tanto nei suoi risvolti soprannaturali, più allusivi che concreti, ma nell’indagine drammatica e morbosa dell’elaborazione del lutto.

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