Il giovane Holden tra psicologia e scrittura... con Argyros Singh

Settimo appuntamento psicologico-letterario a cui partecipo sul canale Il bar della psicologia, gestito dal dottor Adriano Grazioli, che potete trovare sui vari social. La rubrica in cui mi inserisco è il Podcast letterario, all’episodio 44. Di seguito, trovate il video su YouTube e qui il link a Spotify: segue una selezione scritta di alcuni interventi centrali.

Per un ulteriore approfondimento su Salinger, rimando a questo post del blog.



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AS: La copertina bianca del romanzo doveva rispettare la volontà dell’Autore, affinché essa non costituisse un discrimine per il lettore o un modo per anticipare il contenuto. Nella prima edizione americana, però, troviamo un cavallo delle giostre in primo piano: uno degli elementi topici del romanzo, scelto dalla casa editrice che voleva dare una veste commerciale in antitesi alla volontà dello scrittore.

 

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AG: Il testo, per come è strutturato, è un’evoluzione costante. Il giovane Holden è un pugno allo stomaco, mette in luce l’inesorabilità degli eventi e la difficoltà ad adattarvisi. Quando il protagonista chiede a una donna di ballare, si finge più grande di quanto non sia, ma questo voler giocare a fare i grandi, e la sua non consapevolezza, è molto umano.

 

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AS: Questa è un’opera che fa scuola, anche solo dal punto di vista linguistico. Il contenuto da un lato è semplice, con una serie di eventi verosimili (anche se forse non sovrapponibili nella realtà), dall’altro è una ricca costruzione di punti di vista, filtrati dal protagonista. La lettura de Il giovane Holden è l’equivalente – negli Stati Uniti – della lettura di Melville e altri grandi scrittori americani, e in Italia di Dante, Leopardi, etc. Ma è un libro che può essere rivolto anche ai genitori.

Holden racconta la storia in prima persona: bisogna leggere tra le righe i non detti, le omissioni o i discorsi ingigantiti. Lo scrittore offre dei suggerimenti a livello linguistico, dei segnali che ci dicono che, forse, Holden non la stia raccontando proprio giusta. C’è quindi il punto di vista interno, ma dall’esterno può essere letto da genitori, insegnanti e adulti in generale. Il romanzo è un’opera universale proprio perché parla a tutti.

 

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AG: Quando cresci vale la pena riprendere in mano questo libro. Riprendo una mia precedente diretta, dedicata a Sinfonia d’autunno (1978) di Ingmar Bergman: lì ti identifichi con la figlia, perché è una personalità ferita; poi però invecchi, e magari ti schieri con la madre. La dualità dell’opera funziona perché questa è onnipresente: in Sinfonia d’autunno è il rapporto madre-figlia; ne Il giovane Holden il rapporto tra giovinezza ed età adulta. Il pugno allo stomaco è quello che in analisi è la barriera del reale: la tua realtà fantastica si scontra con la realtà fattuale.

 

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AS: Sì, c’è chi ha bisogno di un pizzicotto e chi di un pugno in faccia. È il “sogno o son desto” l’aspetto più interessante dell’opera. Salinger parla di relazioni umane, ma non è un profiler: gli scrittori americani degli anni Trenta e Quaranta avevano assimilato tutta quella eredità psicoanalitica importata dall’Europa, influenzando la letteratura. Il giovane Holden fu pubblicato nel 1951, ed è ambientato nel 1949: Salinger non si concentra tanto sulla descrizione dei personaggi, ma sulla loro azione, in particolare verbale, attraverso il dialogo. Se vogliamo, questa è una forma di psicoanalisi.

Quando Salinger viaggiò in Europa durante la SGM, si occupò di controspionaggio e del processo di denazificazione della Germania postbellica: in guerra, intervistò anche Hemingway. Non si sa di preciso che cosa si dissero, ma pare che Hemingway ne apprezzò la scrittura. Salinger disse che stava lavorando a un nuovo personaggio di una commedia – quindi un’opera dialogica per eccellenza – che voleva interpretare egli stesso. Stava parlando di Holden. In una precedente diretta, dedicata a Gogol’, avevo già detto che lo scrittore, prima di dedicarsi alla scrittura, volesse diventare un attore teatrale. Credo ci possa essere un’affinità psicologica tra i due sotto questo aspetto.

In Salinger, i dialoghi vengono espressi con scorrettezze verbali, parolacce e pensieri non ortodossi: Holden è un personaggio in rivolta, si dichiara ateo perché è un modo di dire che non ha bisogno di un’autorità o della scuola, che è libero. Inconsciamente, Holden sa che il professor Spencer, a inizio romanzo, sta cercando di aiutarlo, ma non riesce ad accettarlo, perché il personaggio è in procinto di iniziare la propria quest, la ricerca interiore. E questo è un topos della letteratura mondiale.

 

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AG: Riguardo all’azione per esprimere un’interiorità: ci sono momenti in cui si rende necessario lo “spiegone”, ma Salinger decide di non impiegarlo. Holden è nella fase di ribellione che precede la fase di individuazione: è il tentativo di diventare uomo adulto. E l’azione parla più della parola stessa. Oggi, al contrario, sembra parlare più la parola dei fatti: la ribellione egocentrata non mira al dialogo costruttivo o alla maturazione dell’individuo.

 

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AS: In Holden, il dialogo porta a qualcosa, a una presa di coscienza. Quando parla con il vecchio amico d’infanzia, Carl Luce, questi si vergogna del protagonista, perché per lui il sesso è diventato un tabù; non può più fare il ragazzino. E gli domanda se abbia mai fatto psicoanalisi. In un altro dialogo Holden chiede se la psicoanalisi sia servita a qualcosa, e il personaggio risponde che l’ha adattato. In secondo luogo, ci sono le parole menzognere, che veicolano un messaggio non reale. Lì la questione si complica.

 

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AG: Il catastrofismo è un meccanismo impiegato per rendere saliente la propria visione. L’idea fondamentale è che a volte la violenza ha delle forme totalmente diverse tra loro (fisica, verbale, etc.), come per il passivo-aggressivo. Quando tu vieti una comunicazione, lasci l’altro in sospeso in un baratro.

 

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AS: Nel dialogo con Luce, emerge che questi si stia “civilizzando”, stia maturando in seno a una società, che si aspetta determinate cose dal cittadino. Holden è invece un personaggio che vuole crescere, ma non nei codici metropolitani o cittadini. A margine, la New York di Holden è la stessa città dalla quale se ne andò Melville, proprio perché l’espansione del modello di vita metropolitano non era nelle corde esistenziali dello scrittore, e questo già nell’Ottocento.

 

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AG: Foucault attribuì alla psicoanalisi il demerito di voler inserire nella società meccanismi non funzionanti. Perché vuoi reinserire un depresso o uno psicotico? Perché altrimenti non lavorerebbe: secondo questa critica, la psicoanalisi svolgeva una funzione pratica. O sei un outsider e te ne vai, ma non ti manterrò, oppure ti reinserisci. In parte la critica è condivisibile: se ti venisse van Gogh in terapia, davvero vorresti riportarlo a un concetto di sanità?

Oggi ci stiamo impegnando ad accettare l’altro così com’è, ma anche questo è problematico. Siamo sì unici da un punto di vista genetico, ma tutto ciò va per forza tutelato? Non necessariamente: l’analisi ti dovrebbe far capire che sei unico, ma che c’è comunque qualcosa che può essere migliorato.

 

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AS: Personaggi storici come Hitler o il serial killer Dahmer sono in qualche modo speciali, benché in forma totalmente negativa. Anche i soldati uccidono, ma all’interno di un codice sociale che rende, se non etico, quantomeno possibile il loro omicidio: in questo senso, non sono speciali. Invece Dahmer che uccide risulta speciale. C’è chi va nel totalmente negativo e chi nel totalmente positivo, penso in quest’ultimo caso a Gandhi o altri.

 

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AG: Il concetto dell’unicità, il suo senso, nasce in seno a una psicologia umanista (Rogers, Maslow), per far capire che tutti meritano di essere aiutati, non solo i borghesi. Quando Basaglia fece chiudere i manicomi, aveva una motivazione precisa: era sfruttamento della persona. C’era dunque una necessità storica.

 

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AS: Una cosa può accadere in un momento storico ed essere rivoluzionaria, oppure accadere in un altro periodo ed essere conservatrice. Ed è il motivo per cui tanti figli dei fiori degli anni Sessanta e Settanta hanno poi votato Trump. Dipende dal momento storico e dalle necessità sociali. Ho visto di recente un’intervista alla politica Lina Merlin, che portò alla chiusura delle case chiuse. Spiegava che era ora di finirla con lo sfruttamento legalizzato del corpo della donna. Oggi, c’è chi dice di riaprire le case chiuse proprio per la stessa motivazione. La legge Merlin andava bene all’epoca; oggi si può ridiscutere per il medesimo principio.

D’altra parte c’è chi parte da rivoluzionario (Robespierre) e poi diventa conservatore (il Robespierre ghigliottinatore): di fronte a un problema, per esempio ambientale, chi si batte per esso e ne trae anche profitto, ha davvero interesse, nel lungo periodo, affinché il problema sia risolto?

 

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AG: Quando ci fu il boom dell’eroina, nacquero i distributori di siringhe pulite. La soppressione, violenta o meno, è inefficace. Bisogna ammortizzare il problema, tutelare, e poi fare educazione, altrimenti non reinserisci più in società.

 

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AS: Il giovane Holden non va letto solo da adolescenti, proprio perché letto dall’altra parte della barricata ha comunque qualcosa da dire. A quindici anni sei d’accordo con il protagonista; poi venti anni dopo scopri che forse il professor Spencer e altri non erano così in errore. E questo si può allargare anche ai movimenti sociali, con le debite differenze. Sul piano individuale, invece, è centrale l’elemento dell’ipocrisia. Il dialogo può portare alla verità, se vi è l’interesse reciproco, ma può essere mendace: Holden afferma di non accettare l’ipocrisia. In un contesto formale, Holden è capace di essere garbato; non capisce però perché l’ipocrisia sia diffusa nel contesto informale (in famiglia, tra amici, etc.). Holden non è rivoluzionario, né anarchico, né la figura del ribelle che pensiamo sia. Anzi, in certi casi è abbastanza conservatore, per formazione o per scelta deliberata. Quando la prostituta entra nella sua stanza d’albergo, si può dire che Holden abbia abbattuto la sovrastruttura ideologica (religiosa, morale) che lo aveva formato e che quindi l’atto successivo di allontanare la donna sia invece una scelta di libero arbitrio. Holden abbatte le sovrastrutture e poi sceglie liberamente se qualcosa faccia al caso suo o meno: qui sta l’intelligenza del personaggio e il suo senso critico.

 

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AG: Holden è un personaggio complesso, perché racchiude elementi di maturità e di infantilità, andandosi a trovare in situazioni opinabili. L’incoerenza completa di una persona si manifesta nella totale accettazione di qualsiasi istanza, ma è un caso limite. Nella vita quotidiana, di fronte a una situazione complicata, si avvia una mediazione, che talvolta può essere vista come un processo di incoerenza. Holden fa questo: la vita non è un tutto o niente, quindi fa anche dei passi indietro ammettendo (implicitamente) l’errore.

 

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AS: Le persone tendono a dire “io vado bene così”, perché siamo più insicuri e in ansia rispetto al passato, con una società che investe sulle nostre paure. E noi facciamo la cosa più sbagliata: pensiamo che rimanendo conservativi saremo protetti dall'ambiente sociale. Holden invece non si accetta per quello che è: l’incoerenza è l’anticamera dell’irrazionalità. Quando compi un’azione irrazionale non segui alcuna logica, probabilmente in maniera non coerente con quanto avvenuto prima. Chi fa arte in senso esteso conosce bene questo meccanismo. E forse non è un caso che il fratello maggiore di Holden sia un soggettivista per Hollywood e che Holden citi di continuo la settima arte e la letteratura (Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, etc.). Nel mondo dell’irrazionale, dell’arte, Holden riconosce qualcosa di autentico: l’abbandono della scuola e della casa è un’idea di vita che ha precedenti nell’hobo americano, nel bluesman del delta del Mississippi o nel viandante dei grandi spazi naturali. Salinger però anticipa anche la nuova figura del vagabondo, quello che verrà ereditato prima dalla beat generation e poi dai figli dei fiori. Holden avrebbe le capacità di perseguire gli obiettivi previsti dalla società (scolastici, sportivi, familiari), ma sceglie di buttare tutto all’aria, e non per un motivo specifico, bensì per incoerenza: è un azzardo, un dire che non va tutto bene irrazionale, che può portarti nel precipizio o sull’Olimpo.

 

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AG: Holden è un bruco che cerca di diventare una farfalla: il processo di fuoriuscita dal baco è la distruzione di una realtà protetta, la comfort zone. Davanti a una crisi – la presa di coscienza di un’altra incoerenza, quella di dati aspetti della società – egli evolve, in una maniera anche incerta. Il finale del romanzo smonta il lettore, perché non si chiude in maniera circolare.

Noi non andiamo bene così come siamo; dobbiamo accettarci per quello che siamo e da lì partire. Holden si accorge di una vibrazione interna, di una relazione problematica con l’altro: quei momenti di messa in discussione hanno bisogno di una base, che parte da se stessi. Oggi si tende a valorizzare il narcisismo delle persone, e il soggetto tende a imporre il suo ego allontanando gli altri, salvo poi chiedersi tristemente che cosa sia andato storto. La domanda invece dovrebbe essere: quanto vale, nel mio sistema, la mia relazione con l’altro?

 

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AS: La relazione con gli altri ci cambia. Se invece diciamo che va tutto bene così, ci circondiamo di persone inadatte. Se non siamo selettivi, critici con noi stessi e con l’altro, tutto resterebbe immobile. Ma noi non siamo il motore immobile dell’universo; quasi niente dipende davvero da noi, quindi dovremmo tentare un approccio più umile.

Riguardo alla conclusione del romanzo, io avrei terminato un capitolo prima. Le ultime righe che abbozzano il seguito della storia le ho trovate posticce ed è un regalo ai lettori curiosi. La conclusione è comunque un bel monito. Ci sono quelle persone che prevedono che cosa faranno da qui a dieci anni, per filo e per segno, perseguendo in maniera molto coerente – direi quasi volgare – questi obiettivi. Poi c’è chi si dispera, non vedendo un futuro. Infine, però, c’è Holden che decide di partire verso l’ignoto, Melville che parte per il mare aperto, Huckleberry Finn che viaggia per gli spazi aperti degli Stati Uniti. Melville, Twain e Salinger appartengono allo stesso filone dei grandi spazi naturali e dell’essere umano che forgia se stesso a contatto con la natura. Abbattendo i limiti che si è autoimposto e riconoscendo solo quelli che provengono dalla natura stessa. Un altro scrittore di questo filone è Robert Frost: mentre Salinger è il narratore del rapporto tra uomo e città, e tra esseri umani nell’àmbito cittadino; Frost narra il legame tra uomini e spazi naturali.

Trovo invece che altri scrittori dell’epoca rimasero imprigionati tra le mura della metropoli e dell’umano, come Scott Fitzgerald. Salinger, come Melville, va oltre anche nella propria vita personale. Salinger ottiene il successo, pubblica ancora pochi testi e poi scompare dai radar. Dove? In un paesino di periferia in mezzo al nulla. Noi in realtà sappiamo che fine fa Holden: riesce a trovare casa sua, la sua dimensione.

 

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AG: Una delle cose più toccanti che sento in terapia è la cosiddetta “lunga strada verso casa”, dove è andato Holden, dove è andato Salinger. Un tipo di pensiero opposto al reinserimento dell’ingranaggio dentro la macchina: è un dire all’ingranaggio che se vuole si può reinserire, ma se vuole può essere qualcosa di diverso. L’aspettativa giusta del terapista è poter contribuire a questa visione. Se Salinger ha scelto quella strada, il processo di individuazione si è concretizzato. Non bisogna sottostare solo alle aspettative esterne, della società, ma soprattutto a quelle interne.

 

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AS: Salinger è un grande anche perché lo scopo del suo successo non era fine a se stesso. Egli non voleva diventare famoso perché è ciò che tutti vogliono, ma perché la fama gli permettesse di vivere. Salinger si avvicinò anche alla spiritualità orientale, in particolare indù, ma ne abbiamo solo cenni, al contrario di quanto riportò per esempio Jack Kerouac ne I vagabondi del Dharma. Salinger ottiene il successo e a quel punto decide di dedicarsi per se stesso alle cose serie.

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