Metanarrazione e memorie condivise. Libro senza nome di Shushan Avagyan

 


Scritto sperimentale costruito come un mosaico metanarrativo, Libro senza nome (Utopia, 2024) della scrittrice Shushan Avagyan inscena un duplice dialogo: da una parte l’incontro immaginario tra due scrittrici armene del primo Novecento, Shushanik Kurghinian e Zabel Yesayan; dall’altra una serie di conversazioni contemporanee tra la stessa Avagyan (inserita come personaggio narrante) e Lara, entrambe impegnate in una ricerca d’archivio sulle prime due autrici.

Questi piani temporali – il 1926, anno in cui Kurghinian e Yesayan si trovano per l’unica volta nella stessa città, e il presente post-sovietico in cui Avagyan e Lara riscoprono le loro tracce – si alternano nel testo e finiscono per convergere in una struttura complessa: «Per la precisione, potremmo considerarlo [questo libro] uno spazio immaginario dove si trovano elementi reali o, con le parole di quel francese, un’eterotopia autocreata.»

 

Struttura labirintica e concetto di memoria

 

I capitoli procedono in modo non lineare e sono articolati su tre piani di scrittura alternati, leggermente sfalsati così che ciascuno possa scivolare nell’altro. In altre parole, la voce delle due autrici storiche, i frammenti dei loro testi e di altri documenti, e il dialogo tra Avagyan e Lara coesistono e si fondono sulla pagina: «Caro lettore, prima di continuare, raccomando la massima attenzione. Molti si sono irrimediabilmente persi tra le pagine di questo libretto velenoso.»

Questa architettura metaletteraria fa sì che il libro parli apertamente della propria costruzione: Avagyan commenta il materiale d’archivio, riflette sul processo di scrittura e traduzione, e arriva perfino ad ammonire il lettore all’interno del testo stesso. In alcuni brani ironici, la narratrice invita ad assumere un ruolo attivo nell’assemblare il significato complessivo: «Comunque sia, lettore, devi sapere che questo libro ti arriva incompleto, con un contenuto dimezzato. […] Ogni libro, soprattutto se si tratta di una raccolta di poesie in traduzione, viene sottoposto a un lavoro di repulisti. Per te, lettore, perché a quanto pare i redattori sanno (e sanno bene!) quel che a te serve, in che misura e forma.»

Avagyan “taglia e incolla” nel testo una moltitudine di materiali eterogenei: poesie e brani in prosa, stralci di diario e lettere, cartoline mai spedite, dialoghi e interrogatori, citazioni di altre figure letterarie (non solo armene), titoli di canzoni, note biografiche e documenti d’epoca parzialmente redatti o censurati.

 

La narrazione assume così un aspetto frammentario e policromo, riproducendo la stratificazione documentale tipica di un archivio. Le due scrittrici del passato rivivono tra le pagine, mentre la narratrice registra il faticoso processo di recupero di quelle fonti disperse. Non c’è una trama lineare tradizionale, quanto un montaggio di voci e documenti che l’Autrice ricompone creativamente per colmare i vuoti lasciati dalla Storia. Questo dispositivo consente al libro di interrogarsi sui meccanismi stessi della memoria letteraria: la presenza di pagine strappate, brani mancanti e censure negli archivi diventa parte della narrazione e simboleggia le lacune nella trasmissione del sapere storico.

Libro senza nome si configura dunque come un deposito narrativo postmoderno, dove fonti reali e fittizie si confondono deliberatamente: «Le lingue giallastre del fuoco inghiottano con avidità le espressioni superflue e sgraziate che hanno aggiunto i redattori del libro, o che derivano da qualche modifica. Se non sapete di cosa si tratta, vi chiedo la cortesia di non alterare l’essenza e il significato dell’opera. Non rendetela “comprensibile”.»

Questa scelta strutturale dà anche al libro un carattere profondamente riflessivo: il testo non solo racconta una vicenda, ma riflette su come essa venga costruita e su quante altre vicende siano andate perdute nel processo.

 

Il fulcro tematico dell’opera risiede nell’esplorazione della memoria collettiva e nell’atto del ricordo come resistenza all’oblio. Avagyan scrive di due figure marginalizzate: Kurghinian e Yesayan, infatti, furono vittime di processi di cancellazione. La prima (1876-1927), poetessa rivoluzionaria e proto-femminista, fu perseguitata nell’Impero zarista e costretta all’esilio; più tardi, in epoca sovietica, la componente emancipatrice e sociale della sua opera venne oscurata o reinterpretata a scopi propagandistici, tanto che dopo l’indipendenza armena del 1991 la sua figura rimase relegata a un ruolo minore, ricordata soltanto come “poetessa proletaria”.

La seconda (1878-1943), scrittrice e accademica originaria di Costantinopoli, sopravvisse al genocidio armeno del 1915 riuscendo a fuggire e più tardi testimoniò gli orrori subìti dal suo popolo. Rifugiatasi nell’Armenia sovietica, venne però travolta dalle purghe staliniane: arrestata nel 1937 con l’accusa di nazionalismo, morì presumibilmente in prigione o in un gulag.

 

Le loro memorie personali – fatte di persecuzione, violenza e lotta – furono a lungo silenziate: Kurghinian subì la damnatio memoriae riservata alle intellettuali scomode; Yesayan divenne addirittura una non-persona sotto il regime sovietico, con opere sparite dalle biblioteche e il nome cancellato dai registri. Avagyan affronta dunque il doppio trauma storico armeno: quello del genocidio e quello della repressione totalitaria che seguì.

Nel libro, la memoria storica non è mai neutra, ma si mostra come terreno di scontro ideologico: «Il peccato più grave, per ogni fede, per ogni lingua, per ogni cultura, per ogni persona, è la dimenticanza.» Viene esplicitato che le tracce biografiche siano frammentarie e manomesse: le due ricercatrici faticano a trovare materiali negli archivi del Museo della Letteratura di Erevan. Il libro si propone allora come un atto di riparazione della memoria: mettendo in scena un dialogo impossibile, Avagyan colma simbolicamente quel vuoto e restituisce voce a chi era stato mutato.

In questo senso Libro senza nome è anche opera politica, un gesto di sfida all’oblio istituzionalizzato. L’identità culturale armena vi è riletta attraverso le sue assenze, la mancanza di quelle donne intellettuali progressiste, cosmopolite e ribelli, di cui raramente si è parlato.

 

Il tema del trauma attraversa il testo sia in forma esplicita che sotterranea. Da una parte c’è la ferita collettiva del genocidio del 1915; dall’altra c’è quella più sottile dell’aver perso la continuità con il proprio passato culturale: Avagyan e Lara, nella finzione, provano un senso di smarrimento e frustrazione di fronte all’assenza di fonti, alla difficoltà di ricostruire vite ormai spezzate e disperse. Questo disagio riflette in parte anche l’esperienza di una generazione post-sovietica che ha dovuto fare i conti con le memorie mutilate.

L’Autrice, nata nel 1976 in piena epoca sovietica, ma formatasi poi anche negli Stati Uniti, incarna in sé quel desiderio di poter ricucire i fili della storia. Libro senza nome suggerisce che affrontare quel passato scomodo comporti benefici profondi: significa rinnovare i legami con la propria tradizione e persino riforgiare il linguaggio con cui si racconta la propria identità. In un passaggio troviamo scritto: «Sia quindi questo libro il mio ritorno, il mio rientro a casa.»

 

Stratificazione linguistica e documentale

 

Uno degli aspetti più originali del libro è la sua stratificazione linguistica, strettamente connessa alla natura multiforme dei documenti presentati. Da quanto ho appreso facendo ricerche, Avagyan sperimenta audacemente con la lingua armena, forgiando neologismi e scomponendo le parole per risalire al loro significato più profondo. Questa inventiva linguistica contribuisce a dare al testo un tono poetico e visionario, dove il lessico può mutare da un registro alto e lirico a termini colloquiali o tecnici. La contaminazione di linguaggi è del resto inevitabile in un libro che mette in dialogo epoche diverse, dalle inflessioni dell’armeno classico o occidentale (quello parlato nella comunità ottomana di Yesayan), mentre la cornice contemporanea è in armeno orientale moderno, la lingua madre di Avagyan, con innesti di termini russi o inglesi dovuti al contesto post-sovietico e globale.

Questa stratificazione poliglotta trasporta sulla pagina la complessità culturale armena, segnata dalla coesistenza di più idiomi nel corso del Novecento (armeno orientale e occidentale, russo, turco, francese per l’esule parigina Yesayan, etc.): «Ogni parola di una lingua è inclusa nel dizionario di quella lingua, ma gli scrittori di genio scrivono in più lingue contemporaneamente.»

 

Il traduttore Minas Lourian ha dovuto confrontarsi con tale ricchezza e ha dovuto farsi co-autore, per certi versi. La stessa Avagyan, traduttrice di professione, inserisce nel libro frequenti riflessioni sul significato del suo lavoro. In un passaggio metatestuale significativo, la narratrice si definisce infatti “dattilografa-scrittrice-traduttrice” e confessa di aver deliberatamente dimenticato di mettere le virgolette attorno a certe citazioni.

Questo gesto formale ha un forte significato: abbatte il recinto tra la voce dell’Autrice e quelle delle sue protagoniste, mescolando i livelli linguistici in un flusso unico e condiviso. Come spiega la narratrice rivolgendosi a chi legge, le parole non appartengono né al lettore né a chi scrive. In altri termini, il linguaggio è un patrimonio collettivo che viaggia attraverso il tempo tramite le persone, ma senza divenire mai una proprietà esclusiva.

 

In parallelo all’aspetto linguistico, Libro senza nome si fonda su una densa stratificazione documentale, a cui ho già accennato. L’ibridazione di generi testuali arricchisce il libro e richiede al lettore un costante lavoro di interpretazione.

Spesso non vi sono segni tipografici netti a distinguere una citazione da una frase originale dell’Autrice, e questo continuo montaggio è il cuore dell’opera stessa, una costruzione della memoria quale processo complesso, fatto di eco e di frammenti.

La mimesi delle citazioni è un atto che invita a riflettere su come ogni testo del passato venga in realtà riplasmato da chi lo recupera. Transito e trasformazione diventano parole chiave: Avagyan rende omaggio ai documenti originali, ma al contempo li libera dalle loro forme cristallizzate, inventando per loro una seconda vita letteraria, artistica.

 

Ciò equivale anche a liberare i generi dalle loro convenzioni rigide: ad esempio, le lettere diventano parte della narrazione poetica; i versi poetici assumono funzione narrativa; il saggio critico diventa elemento romanzesco: «Ci avete insegnato per anni come differenziare la poesia dalla prosa. Ma quelle differenze non le abbiamo comprese.»

Diversi modi di raccontare la realtà convivono nello stesso recinto formale: al suo interno troviamo un romanzo biografico atipico, un saggio sulla letteratura, un manuale di traduzione, un poema in prosa e un esperimento archivistico-letterario. «L’obiettivo non è confondere il lettore, ma conquistarlo.», scrive l’Autrice.

 

Stile narrativo sperimentale

 

Lo stile di Avagyan ha importanti implicazioni sulla lettura, perché l’approccio sperimentale richiede al lettore di abbandonare le aspettative di linearità e di lasciarsi guidare attraverso un’esperienza letteraria inusuale.

Il lettore può trovarvi un’atmosfera suggestiva, riferimenti colti e tracce intertestuali e storiche. L’edizione italiana facilita questa modalità di lettura fornendo un’introduzione e una guida alla lettura dei capitoli curata dalla traduttrice dell’edizione inglese Deanna Cachoian-Schanz. Sono elementi utili per orientarsi tra i numerosi riferimenti nascosti, ma non è obbligatorio seguire queste guide: io, per esempio, ho prima letto l’opera e, in un secondo momento, alla ricerca di approfondimenti, ho esplorato la guida.

Trovo sia fondamentale potersi perdere temporaneamente nel flusso narrativo, sforzandosi di individuare una propria chiave di lettura.

 

La mescolanza di prosa e poesia genera un insieme ibrido: numerosi passaggi assumono una cadenza lirica, con frasi brevi, immagini evocative e ripetizioni ritmiche, per esempio nelle descrizioni di Erevan all’alba o negli stralci di poesie incastonati nei dialoghi. Altrove il tono diventa saggistico, quando la narratrice riflette sulla storia della letteratura o sul processo di traduzione.

Il montaggio di cui si è detto conferisce inoltre al testo un carattere cinematografico: si passa da una scena all’altra, da un tempo all’altro, quasi con tagli e dissolvenze narrative. Il lettore può immaginarsi a un tavolo insieme ai personaggi. Questa sorta di seduta spiritica letteraria produce un effetto straniante e affascinante: le barriere tra i vivi e i morti si assottigliano; il passato irrompe nel presente e viceversa. Si ha davvero la sensazione di assistere a un dialogo a quattro voci in un tempo annullato, che pure riesce a preservare alcune sue caratteristiche.

 

Certo, c’è anche un forte rischio di spaesamento: mancano quei punti di riferimento tradizionali e il lettore non può che dare fiducia all’Autrice e al progetto artistico che ha voluto consegnare al lettore.

Lo stile di Avagyan non si riduce a un mero esercizio di virtuosismo formale, ma è il veicolo necessario a trasmettere l’idea che la letteratura possa (forse debba) farsi carico delle memorie perdute, reinventando le sue forme narrative per dare loro ospitalità nel presente.

 

Contesto storico e familiarità in letteratura

 

Libro senza nome nasce a Erevan nel 2006, a quindici anni dall’indipendenza dall’Unione Sovietica, in un periodo in cui la società armena sta ancora ridefinendo il proprio rapporto con la storia nazionale. Durante i settant’anni di regime sovietico, infatti, molte pagine di questa storia sono state riscritte o soppresse in funzione dell’ideologia dominante. La memoria del genocidio del 1915 era stata ufficialmente riconosciuta in URSS solo a partire dagli anni Sessanta, ma veniva comunque trattata con cautela, mentre sul fronte letterario diverse figure caddero in disgrazia o vennero manipolate affinché aderissero al canone sovietico.

Gli anni immediatamente successivi all’indipendenza hanno visto un vivace fermento nel ridiscutere questo genere di passato. Attingendo anche al lavoro della diaspora armena, che nel frattempo aveva preservato ricordi e documenti, storici e intellettuali hanno iniziato a riesaminare le figure rimaste nell’ombra.

 

Non è un caso che Avagyan, nel lavorare al libro, abbia collaborato con Lara Aharonian: ricercatrice e attivista femminista di origini armeno-canadesi, Aharonian è co-autrice di un documentario intitolato Finding Zabel Yesayan (2009).

Fortunatamente, negli anni successivi la situazione è migliorata: organizzazioni come l’AIWA (Armenian International Women’s Association) hanno pubblicato traduzioni inglesi delle opere di Yesayan e di Kurghinian. Oggi il nome di Yesayan è tornato nei libri e nelle intitolazioni pubbliche. Avagyan stessa ha contribuito alla riscoperta; l’Autrice appartiene a una generazione di scrittori post-sovietici altamente istruiti, spesso con esperienze formative all’estero, capaci di portare uno sguardo nuovo sulla tradizione: «Per comprendere qualcosa di nuovo, è necessario studiare un’altra lingua, altre tradizioni, un’altra cultura. In poche parole, vivere la vita di un altro.»

Nel caso di Avagyan, è evidente l’influenza di correnti postmoderne e degli studi di genere occidentali, che si sposano con la ricchezza della cultura armena. Il libro è il riflesso di questa società in transizione identitaria: l’Armenia che fa i conti con i fantasmi del passato (genocidio, repressione, marginalizzazione delle donne) e tenta di integrarli in una nuova coscienza nazionale più inclusiva.

 

Citando nello specifico alcune opere con cui Libro senza nome sembra dialogare, Austerlitz o Gli emigrati di W. G. Sebald condividono l’ossessione per la memoria perduta e l’uso di strategie non convenzionali per ricostruirla. Sebald intreccia saggio, narrativa e fotografie d’archivio per affrontare i traumi storici del Novecento europeo in una forma di fiction documentaria. In maniera analoga, Avagyan miscela documenti e riflessioni. Entrambi sfumano i confini tra realtà storica e finzione e adottano uno stile meditativo, ricco di digressioni e rimandi intertestuali che aiutano a riflettere sulla rappresentazione del passato e sull’inafferrabilità della memoria.

Anche lo scrittore serbo Danilo Kis è noto per aver sperimentato con la forma pseudo-documentaristica per raccontare le vittime di totalitarismi e persecuzioni. In particolare, Una tomba per Boris Davidovic raccoglie racconti presentati come estratti d’archivio su personaggi rivoluzionari immaginari perseguitati dallo stalinismo: Kis riprende documenti storici reali e li incorpora nel testo senza segnarne chiaramente le fonti, influenzato dall’enciclopedismo di Borges, secondo cui nessuna storia sia mai veramente finzione pura o verità oggettiva, ma sempre un montaggio di testi preesistenti.

Infine, la scrittrice polacca Olga Tokarczuk ha spesso adottato strutture narrative non lineari e frammentarie per abbracciare una molteplicità di storie e punti di vista. Nel suo romanzo I vagabondi, ad esempio, assembla una serie di racconti brevi, riflessioni saggistiche e persino estratti enciclopedici, creando un collage letterario sul tema del viaggio e del corpo umano attraverso il tempo. Senza entrare troppo nel merito, Avagyan condivide con Tokarczuk anche l’attenzione particolare alla prospettiva femminile e alla polifonia di voci marginali, in contrasto con le versioni ufficiali della storia. Il suo Libro senza nome è un esempio audace di come si possano unire tecnica e passione a uno sguardo etico rivolto al futuro.

Commenti

Post popolari in questo blog

Qual è l'album più compiuto di Fabrizio De André?

Un discorso sulle band. Costi, compensi, opportunità

Arnolfo di Cambio e il ritratto di Carlo I d'Angiò