La lunga marcia del proibizionismo statunitense

 

Il 17 gennaio 1920, entrava in vigore negli Stati Uniti il XVIII Emendamento alla Costituzione, che vietava di vendere, importare e produrre bevande che avessero un tasso alcolico superiore allo 0,5%. Era iniziata l’era del proibizionismo, che riguardava non solo gli Stati Uniti, ma, in forme più o meno severe, anche nazioni come il Canada, la Gran Bretagna e i Paesi scandinavi.

 

 

Prodromi

 

La piaga dell’alcolismo imperversava negli Stati Uniti almeno dalla prima metà dell’Ottocento. Senza particolari distinzioni di età o di ceto sociale, sia donne che uomini bevevano in media più di altre parti del mondo. In alcune città, esisteva una vera e propria pausa alcolica dei lavoratori, il “grog time”, sancita dalle campane delle 11 del mattino e delle 4 del pomeriggio.

La drinking culture è un insieme di comportamenti sociali e di tradizioni che riguardano il consumo di bevande alcoliche per motivi ricreativi. L’esempio statunitense offre molte informazioni agli studiosi, anche rispetto a coloro che si opponevano al consumo di alcol, definiti i dry.

 

Gli abolizionisti ottennero una prima sconfitta nel corso della Guerra civile americana, che portò alla diffusione degli alcolici tra i soldati. In seguito, la compagine si organizzò in forme più strutturate. Nel 1869, venne fondato il Partito proibizionista (Prohibition Party) e nel 1874 nacque l’Unione delle donne cristiane per la temperanza (Woman’s Christian Temperance Union, WCTU).

I proibizionisti avevano séguito soprattutto nelle aree agricole, influenzate dalle Chiese battista e metodista e così diversi Stati – come Kansas, Vermont e Iowa – divennero dry.

Si stima che alcune di queste associazioni spesero decine di milioni di dollari per informare sui danni fisici e morali dell’alcol, eppure, nel 1890, la sola città di New York contava circa 7.500 saloon, mentre a livello nazionale le stime variano da 100mila a 300mila attività tra il 1870 e il 1900. Le grandi città rimanevano roccaforti wet e il consumo pro capite di alcolici triplicò nella seconda metà dell’Ottocento.

 

Le “Temperance Unions” erano di varia natura e si ispiravano alle virtù evangeliche. Create e gestite, in genere, da donne, divennero anche un elemento di promozione dei diritti politici femminili. Uno dei loro slogan era: “The lips that touch liquor will never touch mine” (“Le labbra che toccano un alcolico non toccheranno mai le mie”). Un modo alternativo e meno conosciuto di portare avanti la lotta femminista.

La loro battaglia si affiancò a quella dei nativisti, coloro che promuovevano la “pura” America delle origini. Si trattava di agricoltori protestanti anglosassoni, di ceto medio-alto, favorevoli alla proibizione degli alcolici per i lavoratori stranieri, che erano soliti ubriacarsi a fine giornata. Si sviluppò così, nel 1893, l’Anti-Saloon League, di cui Wayne Wheeler fu un noto esponente. Il movimento nativista e proibizionista trovò poi una sponda nell’organizzazione razzista del Ku Klux Klan. Durante le primarie del maggio 1928 in Alabama, la Lega si unì ai Klansmen e ai membri della WCTU, condizionando la politica dello Stato.

 

L’Anti-Saloon League era nata nell’Ohio a opera di Howard Hyde Russell e si era diffusa al sud e nel nord rurale, raccogliendo membri dalle congregazioni metodiste, battiste e congregazioniste. In breve, ottenne un successo nazionale e oscurò la WCTU e il Prohibition Party. Divenne un gruppo di pressione moderno organizzato su un tema specifico e, al contrario dei suoi predecessori, impiegò metodi burocratici e tecnici, appresi dal mondo degli affari, per portare avanti la propria istanza. Ottenne così il supporto e il finanziamento di figure di spicco come John D. Rockefeller e Henry Ford.

La Lega aveva un apparato pubblicitario, gestito da Edward Young Clarke e da Mary Elizabeth Tyler, e una sezione editoriale, l’American Issue Publishing House, che stampava oltre quaranta tonnellate di posta al mese nel 1909. Riusciva così a farsi ricevere per le udienze al Congresso e a esprimere le proprie teorie attraverso la Scientific Temperance Federation. A livello locale, faceva pressioni sulla polizia affinché ritirassero le licenze di quei locali che violavano gli orari di chiusura o che servivano donne e minori, facendosi avanti come testimoni.

 

La Lega, invece, non fece progressi significativi nelle grandi città e tra i cattolici, gli ebrei e i luterani tedeschi. In particolare, nel Maryland non riuscì a adeguarsi alle condizioni locali, che vedevano un’importante presenza di cittadini di origine germanica.

A ogni modo, dalla Guerra civile alla Prima guerra mondiale, la situazione si era capovolta. L’esigenza di conservare i cereali per le forniture belliche portò il Congresso a vietare l’uso di prodotti alimentari per la distillazione. Vi era poi una motivazione patriottica, dato che molte birrerie e distillerie erano di proprietà di cittadini di origine tedesca.

Fu così che nel 1916, ancora prima dell’ingresso degli Stati Uniti in guerra, ventitré Stati su quarantotto introdussero leggi che limitavano o impedivano la produzione e la vendita di alcolici.

 

Proibizionismo

 

Il XVIII Emendamento alla Costituzione fu approvato dal Congresso nel 1918, venne ratificato l’anno successivo ed entrò in vigore il 17 gennaio del 1920, scavalcando il veto del presidente Thomas Woodrow Wilson. Esso prevedeva il divieto di vendere, importare e produrre bevande che avessero un tasso alcolico superiore allo 0,5%.

Le uniche esenzioni riguardavano i distillati a uso medico, nella quantità massima di una pinta ogni dieci giorni, e l’alcol riservato alle congregazioni religiose. Nacquero così finte chiese e comparvero sacerdoti dai trascorsi quantomeno discutibili.

Il provvedimento abolizionista, chiamato National Prohibition Act, ma meglio noto come Volstead Act, prendeva il nome dal senatore repubblicano Andrew John Volstead. Oltre alla politica, questi era stato avvocato e non a caso fu presidente della Commissione giudiziaria della Camera dal 1919 al 1923. Nella stesura dell’emendamento, collaborò con Wayne Wheeler della Anti-Saloon League. Al Congresso per diversi mandati, venne sconfitto nel 1922, ma divenne consulente legale del capo del National Prohibition Enforcement Bureau.

 

Come è naturale, il divieto scatenò il bootlegging, lo spaccio illegale di alcol. Nacque la pratica del rum-running, la corsa clandestina per rifornirsi di alcolici ai Caraibi, allora sotto amministrazione britannica. Le istituzioni statunitensi protestarono con i corrispettivi britannici, ma il premier Winston Churchill liquidò il proibizionismo come «un affronto all’intera storia dell’umanità.»

Entro i confini nazionali, si diffuse il bathtub gin, la produzione di distillati da una vasca da bagno o da un termosifone, che poteva però portare a contaminazioni. Non era raro soffrire di cecità o di paralisi motoria. Nel 2010, la giornalista scientifica Deborah Blum, nel suo libro The Poisoner’s Handbook, vincitore di un Premio Pulitzer, ha raccontato la storia di quei chimici che lavorarono per i contrabbandieri, ridistillando l’alcol industriale e rendendolo vendibile come liquore.

Nel 1926, nel solo ospedale di Bellevue, Washington, vennero registrati 716 casi di avvelenamento da metanolo, 61 dei quali letali. Altri 700 morti giunsero alla fine del 1927. Secondo il medico legale Charles Norris, prima del proibizionismo i casi del genere si limitavano a una dozzina all’anno.

Nel 1926, il governo introdusse nuove formule per rendere più difficile la ridistillazione e venne raddoppiato il contenuto di metanolo, quasi impossibile da separare completamente dall’etanolo, con il quale ha caratteristiche simili.

 

Più sicuro era l’impiego dei wine-bricks, “mattoni” di mosto concentrato, commercializzato in maniera legale. La ricetta riportata sulla confezione era ingegnosa e spiegava come non far fermentare il blocco di acqua e succo d’uva, ovvero dava indicazioni indirette su come trasformarlo in vino.

Durante il proibizionismo, proprio i viticoltori si arricchirono con rapidità e alcuni, come il celebre Cesare Mondavi, si trasferirono in Napa Valley.

Il più grande giro d’affari era però quello della malavita, che si stima ammontasse, per il solo traffico illegale di liquori, a 3,6 miliardi di dollari. Il gangster Al Capone si arricchì, durante questa fase, di circa 60 milioni di dollari. Dal 1920 al 1932, la produzione di alcolici passò negli Stati Uniti da 190 a 290 milioni di litri e, sette anni dopo l’inizio della proibizione, si contavano oltre ottantamila centri di produzione di alcolici, rispetto alle quattrocento distillerie precedenti al 1920.

 

Il proibizionismo fu il periodo della storia statunitense in cui si bevve di più e lo sintetizza bene una battuta di Groucho Marx, che diceva: “Sono stato astemio fino al proibizionismo.” La costituzione del tabù provocò una reazione a esso.

Crebbe inoltre il crimine organizzato e venne inaugurata l’era dei gangster. Nella sola Chicago degli anni Trenta, la polizia federale aveva individuato almeno diecimila attività illecite, luoghi in cui, in piena crisi economica, andarono in fumo miliardi di dollari di tasse non pagate.

 

Speakeasy e Roaring Twenties

 

Queste ingenti quantità di alcolici venivano consumate soprattutto negli speakeasy, i locali illeciti che caratterizzarono il decennio noto come i “ruggenti anni Venti”.

Il termine ha origini incerte e risale almeno al 1837, quando comparve in un articolo del quotidiano australiano Sydney Herald, in riferimento a infìdi negozi di grog. Un’espressione analoga è “speak soft shop”, registrato in un dizionario dello slang britannico del 1823 e indicante la “casa del contrabbandiere”. Espressione simile, ovvero “speak easy shop”, si ritrova in un libro di memorie della marina britannica del 1844.

Uno dei primi usi del termine negli Stati Uniti risale al 1889, quando comparve in un articolo del Pittsburgh Dispatch, per indicare una parola usata nella città di McKeesport, Pennsylvania, che segnalava un saloon senza licenza.

Speakeasy si riferisce alla pratica di parlare a bassa voce per non allertare la polizia e il vicinato. Secondo una tradizione americana, risalirebbe a una proprietaria di saloon, Kate Hester. Espressioni analoghe erano blind pig e blind tiger, che alludevano alla pratica di far pagare ai clienti la vista di un’attrazione, come appunto una tigre, per poi servire una bevanda alcolica gratuita, aggirando così la legge.

 

La polizia e gli agenti dell’Ufficio del Proibizionismo facevano spesso irruzione e arresti, ma gli speakeasy erano talmente redditizi da continuare ad aprire, mascherati magari dietro la facciata di una gelateria o di una pasticceria.

Il liquore era spesso di scarsa qualità, il classico moonshine realizzato in clandestinità al chiaro di luna. Per coprire il sapore non troppo gradevole, si utilizzavano aromi e fu proprio in questo periodo che nacquero diversi cocktail. Altre volte, il liquore era di buona qualità o era venduto come tale, con l’apposizione di un’etichetta fittizia. I prezzi potevano variare, in media, dai quattro ai cinque dollari a bottiglia.

Al locale illecito si entrava in genere con una parola d’ordine, dopo essere stati vagliati attraverso uno spioncino. Uno dei più famosi locali dell’epoca era il club “21” di New York, che impiegava un portiere per inviare un avviso al bar in pericolo, reso poi legale con l’azionamento di un meccanismo che nascondeva gli alcolici.

 

Al principio, gli speakeasy erano piccoli spazi spogli, ma con il tempo si diffusero il gioco d’azzardo e la musica dal vivo.

Divennero così degli hub culturali, nonché luoghi di integrazione etnica, in cui poter ascoltare swing e charleston e ballare lo shimmy. Crebbe anche la partecipazione femminile e molte donne si misero nel business, come Texas Guinan, un’ex attrice cinematografica e teatrale che aprì diversi locali come il 300 Club e l’El Fey. Nella sua concorrenza c’erano altre due donne, Helen Morgan e Belle Livingston.

 

Ci furono poi altri storici speakeasy. Tra questi, l’Arizona Biltmore Hotel di Phoenix venne inaugurato nel 1929. Era stato progettato dall’architetto Albert Chase McArthur, con la consulenza di Frank Lloyd Wright. Al secondo piano, si trovava la Mystery Room, una sala fumatori che mascherava uno speakeasy. Vi potevano accedere soltanto ospiti che conoscevano il codice segreto e nella stanza si trovava un bar dietro a una libreria girevole. L’hotel aveva posizionato un faretto sul tetto e un impiegato lo puntava sulla stanza quando la polizia stava per fare un’irruzione. Gli ospiti tornavano così nelle loro stanze attraverso passaggi segreti. Attori come Clark Gable e Carole Lombard soggiornarono spesso in una stanza adiacente alla Mystery Room, collegata da un passaggio segreto.

L’Arizona Biltmore Hotel era una pregevole opera architettonica, fornita di una Gold Room con soffitto in foglia d’oro e un’orchestra dal vivo ogni sera, e di una lussuosa Sala Azteca per il ballo. Qui, infine, venne creato il Tequila Sunrise, inventato alla fine degli anni Trenta dal barista Gene Sulit, su richiesta di un cliente.

 

Il Gallagher’s Steakhouse di Manhattan e il Delmonico’s di New York sono invece legati soprattutto all’àmbito culinario. Il primo venne fondato nel 1927 da Helen Gallagher e da Jack Solomon, un pittoresco giocatore d’azzardo che raccolse giocatori, personaggi dello sport e star di Broadway. È qui che venne servita la prima bistecca “New York Strip”, in un ambiente confortevole che mescolava lo stile di una locanda di campagna americana al più dimesso speakeasy.

Il Delmonico’s nacque come bar e pasticceria nel lontano 1827, a opera della famiglia italo-svizzera che diede il nome al locale. Nel 1926, le varie sedi del marchio divennero proprietà dell’immigrato italiano Oscar Tucci, inclusa la storica sede del 56 di Beaver Street, a Manhattan. Nel tempo, il marchio era diventato il simbolo della ristorazione raffinata americana, accogliendo personalità di spicco come Lana Turner, Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, John Fitzgerald Kennedy e molti altri.

Oscar aveva organizzato uno speakeasy al piano inferiore del ristorante, ma creò anche sale da pranzo sontuose ai piani superiori, che vennero poi utilizzate da grandi aziende quali Lehman Brothers o da università come Harvard. All’apice dell’era Tucci, Delmonico’s serviva oltre mille pranzi al giorno, anche in stanze private che richiamavano con eleganza la storia italiana e mediterranea.

 

Sotto il profilo culturale, spiccavano invece il Krazy Kat Klub e il Dil Pickle Club. Il primo era un caffè bohémien di Washington D.C. durante l’età del jazz. Fondato nel 1919 dal ritrattista e scenografo Cleon “Throck” Throckmorton, il locale divenne uno speakeasy già nel 1917, quando il Congresso impose il divieto agli alcolici nel Distretto di Columbia, con lo Sheppard Bone-Dry Act. Il provvedimento portò alla chiusura di 267 bar e di quasi 90 stabilimenti all’ingrosso: oltre duemila dipendenti vennero licenziati e il distretto perse quasi mezzo milione di dollari all’anno in entrate fiscali.

Il Krazy Kat Klub divenne famoso per le sue esibizioni di musica hot jazz e in quanto punto di ritrovo per la comunità gay. Il nome si ispirava infatti all’omonimo personaggio androgino di un fumetto popolare dell’epoca. Le autorità identificarono il luogo come un covo di vizi, al cui interno però si incontravano anche dipendenti del governo federale e membri del Congresso.

 

Situato nel Quartiere Latino, in un’area urbana economicamente depressa, l’ingresso del Krazy Kat Klub si trovava in un vicolo stretto, poco appariscente, e sulla porta vi era una raffigurazione del gatto nero colpito da un mattone.

Entrati nel vicolo, i clienti attraversavano una stanza piena di legname, salivano una stretta sala a chiocciola e raggiungevano una stanza poco illuminata e immersa nel fumo, nelle risate e nei rumori. Le pareti erano adornate da quadri impressionisti e futuristi, perché vi si svolgevano mostre d’arte. Il fondatore Throckmorton era un artista che aveva studiato ingegneria e che frequentava i corsi di recitazione della Howard University, un college storicamente nero. Era un pittore preraffaelita, che amava circondarsi di bohémien e flapper, le ragazze anticonformiste che infrangevano i costumi tradizionali. La sua prima moglie, Katherine “Kat” Mullen, era una modella e disegnatrice nota come cantante e suonatrice di ukulele insieme ai Crandall Saturday Nighters.

 

Per finire, a Chicago, Illinois, il Dil Pickle Club fu un popolare club bohémien, influente durante il cosiddetto “Rinascimento di Chicago”. Fondato da John “Jack” Jones, divenne un forum per liberi pensatori. L’uomo era stato un organizzatore dei Wobblies, gli Industrial Workers of the World (IWW), persone che si riunivano ogni settimana per discutere questioni lavorative. Nel 1915, Jones aprì una sede in un fienile e si associò al sindacalista irlandese Jim Larkin e all’anarchico Ben Reitman. Quest’ultimo promosse l’associazione sui giornali locali e, dato il successo di pubblico, Jones creò nel 1917 il Dil Pickle Artisans, un’organizzazione no-profit che promuoveva le arti, l’artigianato, la scienza e la letteratura. Il club stampava poi il bollettino The Creative World e alcuni libri dei soci.

Negli anni del proibizionismo, il Dil Pickle Club fu un polo culturale di primo piano, che cominciò a declinare durante la Grande Depressione, quando ormai il locale era frequentato più da gangster che da bohémien. Inoltre, gli affitti a Chicago cominciarono a lievitare e, a seguito delle difficoltà fiscali del 1933, il club chiuse e il suo fondatore morì sette anni dopo in miseria.

 

L’ingresso del locale era poco visibile ed era segnalato da un cartello con scritto “Pericolo”. Sulla porta c’era scritto: “Passa in alto, abbassati e lascia fuori la tua dignità.” Una volta entrati, un altro cartello diceva: “Eleva la tua mente a un livello di pensiero più basso.” La grande sala principale era arredata con sedie dai colori vivaci e banconi dove si vendevano bevande e panini. Altre stanze erano adibite al tè e alle mostre d’arte, per una capienza in piedi complessiva di settecento persone.

I frequentatori erano scrittori del calibro di Upton Sinclair, Sherwood Anderson e Carl Sandburg, ma c’erano anche molte intellettuali, come la sindacalista e oratrice Lucy Parsons e l’attivista Emma Goldman.

Al Dil Pickle Club si incontravano scienziati e prostitute, truffatori e vagabondi, fanatici religiosi e anarchici. Fu un angolo di idee e di confronto, oltre che di vita vissuta in libertà: una caratteristica che contraddistinse tutti i più grandi speakeasy.

 

Fine di un’epoca

 

Il presidente repubblicano Herbert Clark Hoover considerava il proibizionismo un «grande esperimento sociale ed economico.»

In quegli anni, erano triplicati gli alcolisti, erano cresciute le morti legate all’abuso di alcol, ed erano aumentati a dismisura gli arresti per guida in stato di ebbrezza, poiché era meglio finire la bottiglia che farsi trovare in possesso di alcolici.

Sul piano sociale, si erano creati dei paradossi. Donne e studenti rivendicavano la libertà di poter bere alcolici. Come le associazioni femminili si erano un tempo organizzate per l’abolizione, così ora nascevano movimenti antiabolizionisti di donne. Nelle case cominciarono a tornare gli alcolici, a partire dalle ricette di cucina. Un tempo, la maggior parte dei leader proibizionisti erano evangelici, un modo per affermare la loro denominazione nei confronti dei lassisti luterani o dei papisti cattolici. Quella battaglia, nei primi anni Trenta, sembrava un lontano ricordo.

 

In termini economici, il proibizionismo aveva cancellato migliaia di produttori di distillati, distruggendo posti di lavoro e favorendo la criminalità, che sfuggiva al fisco. Questo era uno dei cavalli di battaglia dell’Association Against the Prohibition Amendment (AAPA), fondata già nel 1918, ma che ottenne un peso crescente fino alla fine del proibizionismo.

Fu proprio Hoover, nel 1929, a porsi le prime domande, con la nomina di una commissione d’indagine che accertasse quale fosse lo stato delle cose. Emerse che l’uso dell’alcol era troppo radicato nella società statunitense perché potesse essere abolito e che, anche a causa della corruzione della polizia, era difficile far applicare la legge.

Le inchieste dell’epoca avevano evidenziato che, in alcuni soggetti, il proibizionismo aveva prodotto risultati positivi, perché si occupavano di più della famiglia ed evitavano una spesa improduttiva come quella dell’alcol. Tuttavia, in molti giovani si era sviluppata l’inclinazione a infrangere la legge e a contrastare le autorità. Ciò che emergeva dal fallimento del proibizionismo era che lo Stato non poteva risolvere una piaga sociale con l’uso della forza o della legge, ma che fosse necessaria, invece, un’educazione collettiva al consumo di alcolici.

 

I ruggenti anni Venti e l’età del jazz si erano conclusi. Nel 1932, Hoover perse la rielezione contro il democratico Franklin Delano Roosevelt, che il 22 marzo 1933 firmò il Cullen-Harrison Act, che consentiva la produzione di alcolici di gradazione non superiore al 4%. Nell’apporre la propria firma, Roosevelt pronunciò una celebre battuta: «I think this would be a good time for a beer.» (“Penso che sia un buon momento per una birra.”)

Dopo quasi tre lustri, il “nobile esperimento” era fallito e, il 5 dicembre 1933, la ratifica del XXI Emendamento pose fine all’era del proibizionismo, al motto di “Una nuova era, e una birra per ciascuno.”

 

Eredità culturali e sociali

 

Nei primi anni 2000 era riesplosa la moda degli speakeasy, locali in stile retrò che replicavano gli storici bar del proibizionismo. Alcuni di questi sono sopravvissuti al tempo, altri sono scomparsi.

L’Arizona Biltmore Hotel ha conosciuto vari passaggi di proprietà ed è stato visitato da personalità come i coniugi Reagan e Irving Berlin, che qui scrisse l’iconica canzone White Christmas. Nel 2009, è stato inserito nel Phoenix Historic Property Register.

La Gallagher’s Steakhouse conserva ancora una Trophy Room, uno spazio per eventi privati al secondo piano, che presenta un’ampia collezione di foto d’epoca. Il Delmonico’s di Oscar chiuse nel 1977, ma la sede del 56 di Beaver Street riaprì fino al 1993. Nel 2023, i nuovi proprietari hanno accolto Max Tucci, nipote di Oscar, come responsabile del marchio globale e partner di terza generazione.

 

Sorte diversa toccò al Krazy Kat Klub, che chiuse già prima del 1928, in data incerta, quando il proprietario Throckmorton divorziò da Katherine Mullen e si trasferì nel New Jersey. In seguito, sposò l’attrice cinematografica Juliet Brenon, nipote dell’irlandese-americano Herbert Brenon, regista del primo adattamento cinematografico de Il grande Gatsby (1926). Throckmorton divenne un famoso scenografo di Broadway e il suo appartamento nel Greenwich Village di Manhattan fu un luogo di ritrovo per intellettuali e artisti del calibro di Eugene O’Neill ed E. E. Cummings. La sua eredità ha continuato a vivere così, non solo nel ricordo, ma nell’imitazione di ristoranti bohémien a Washington, tra cui il Silver Sea Horse e il Carcassonne a Georgetown.

 

Proprio nel Greenwich Village si trovava, inoltre, lo storico pub e speakeasy Chumley’s, luogo di ritrovo per molti membri della Lost Generation e della Beat Generation. Tra le sue mura passarono scrittori di rilievo come John Dos Passos e John Steinbeck. All’epoca del proibizionismo, il doppio ingresso e una fitta serie di passaggi segreti permettevano elaborati sotterfugi.

Purtroppo, questo locale storico, come altri del genere, sono stati chiusi durante la pandemia di Covid-19, proprio nel momento in cui il motivo degli speakeasy tornava popolare, soprattutto nella città di New York.

 

Che fine ha fatto, invece, l’Anti-Saloon League, principale portavoce delle istanze proibizioniste?

Dal 1948 è stata denominata Temperance League, poi National Temperance League e American Council on Alcohol Problems (Acap), fino al nome adottato nel 2016, l’American Council on Addiction and Alcohol Problems (Acaap).

In uno scenario mutato, con il grave problema della diffusione degli psicofarmaci e degli oppioidi come il Fentanyl, l’organizzazione, che ha sede a Birmingham, Alabama, prosegue la sua agenda neoproibizionista, includendo le droghe. Discute queste tematiche sul suo periodico The American Issue, in nome dell’astinenza e della temperanza. È forse all’orizzonte una nuova forma di proibizionismo?

 

Bibliografia e sitografia

 

° Allsop K., L’impero dei gangster. L’era del proibizionismo da Al Capone a Frank Nitti, Odoya, Bologna, 2012

° Dalla Casa Stefano, Quando gli Usa avvelenarono l’alcol per combattere l’alcolismo, wired.it, 22.07.2016

° Detti T., Gozzini G., Storia contemporanea II. Il Novecento, Mondadori, Milano, 2002

° Fonzo E., Il proibizionismo negli USA dagli anni ’20 a oggi: le ragioni e dove è ancora in vigore, geopop.it, 07.11.2023

° Ginzberg Siegmund, L’America del proibizionismo. Quando sotto processo c’era l’alcol, ilfoglio.it, 11.07.2022

° Panigas P., Proibizionismo negli Usa: vietare la vendita di alcolici fu un esperimento fallimentare, focus.it, 05.12.2022

° Perri E., “C’era una volta in America” il Proibizionismo, jamesmagazine.it, 09.04.2021

° RaiCultura.it, Finisce il proibizionismo sull’alcool negli USA

° RaiPlay.it, Passato e Presente. Il Proibizionismo in America, Stagione 2019-2020

° Redazione, L’inizio del Proibizionismo, ilpost.it, 28.10.2019

° Remini R. V., Breve storia degli Stati Uniti d’America, Bompiani, Milano, 2017

° Testi A., Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2008

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