La giustizia dello Stato e la giustizia dell'Uomo
Voci a favore
In pieno XIII secolo, Tommaso d’Aquino discusse la questione della pena di morte e si schierò a suo favore. Oggi questo può apparirci strano, non tanto per l’epoca, ma perché una simile dichiarazione proveniva nientemeno che da un uomo di Chiesa, peraltro destinato alla santità. Eppure, a ben guardare, il suo discorso rientrava in una tipica ottica medievale, in cui la società, che era allora cristiana in ogni sua espressione, rappresentava un vero e proprio organismo.
«Ora, il medico fa una cosa
buona e utile nel recidere un organo in putrefazione, quando esso minaccia l’infezione
di tutto il corpo», così per Tommaso il reggitore dello Stato «uccide con
giustizia e senza peccato gli uomini malvagi».
Si potrebbe ribattere che di
certo nemmeno lo Stato avrebbe dato in questo modo un buon esempio, ma questo
significherebbe fare un torto alla storia. Il reggitore dello Stato si trovava in
quella condizione di potere per “grazia di Dio” e di per sé, quindi, la sua giustizia
era un riflesso di quella divina. Da cui le citazioni bibliche di Tommaso, come
«Non lasciar vivere i malfattori» (Es 22, 18) e via discorrendo. Anche in
questo caso si esplicava il millenario scontro tra bene e male, una vera e
propria lotta in cui doveva prevalere il bene, anche con la forza. Non fu un
caso che Tommaso riprese Agostino d’Ippona e riportò in auge il discorso sulla “guerra
giusta”. In Oriente si continuava a lottare per la Terra Santa e persino i
monaci erano in parte divenuti guerrieri. Per non parlare di Bernardo di
Chiaravalle, che circa un secolo prima di Tommaso aveva parlato di “malicidio”,
in riferimento al cristiano che uccideva un infedele. In poche parole, il
cristiano non commetteva un reale omicidio uccidendo un mussulmano, ma
contribuiva a “liberarlo” da un male. In questa concezione della morte, si
aggiungeva il forte valore simbolico dell’aldilà, tale per cui «anche di fronte
alla morte essi [i malvagi] hanno la possibilità di convertirsi a Dio col
pentimento».
Voci contrarie
La società organicistica e una
certa interpretazione delle Scritture furono comunque messe in crisi da vari
fattori storici, ma solo con l’Illuminismo il razionalismo di Tommaso fu
veramente sostituito da un razionalismo di tipo scientifico ed etico. Così tra
tutti spiccò la figura di Cesare Beccaria, che con Dei delitti e delle pene (1764) addusse argomenti convincenti
contro la pena capitale. E le leggi di molti Stati si adattarono al clima di
cambiamento, come risulta per esempio dal Codice leopoldino, dove si parla di
«una ben diversa legislazione [che] potesse più convenire alla maggior
dolcezza, e docilità di costumi del presente secolo».
Se in questo caso sembra
ancora persistere una scarsa convinzione sul tema (quel termine "dolcezza" ha qualcosa di sfuggente), ciò nondimeno furono gettati
i primi, importanti, semi. Nella Leopoldina, per esempio, si parla di «lavori
pubblici».
La forza dello Stato è la mediazione
I due secoli seguenti
portarono ad una rivoluzione e ad una vera e propria scoperta dei diritti dell’uomo e dell’individuo,
con estensione anche ai criminali, che ad oggi devono peraltro seguire specifici
percorsi di “riabilitazione”. Certo non tutte le voci furono (e sono) concordi
rispetto a quella che viene vista come una debolezza dello Stato. Così
Jean-Marie Le Pen fece una netta divisione tra chi rispetta la legge e i
criminali, escludendo all’apparenza ogni zona intermedia. In particolare, i
criminali meriterebbero di «correre il rischio di subire un castigo che sia in
proporzione ai crimini che hanno commesso» (e in quel termine, “castigo”,
sembra riecheggiare tanta mal digerita etica veterotestamentaria). Inoltre, il
problema sarebbe che si «possono incontrare criminali in libera circolazione e
questo è un rischio per eventuali, future vittime».
Così si renderebbe necessaria
la pena di morte per evitare un “rischio”, ovvero per non affrontare la paura e
la necessità di una riforma legislativa che renda invece le pene più severe, ma
umane. E certamente non può considerarsi civile uno Stato che toglie la vita a
un proprio cittadino, dichiarando non la sua forza, ma l’incapacità. Una dimostrazione di forza,
semmai, sarebbe la capacità dello Stato di spezzare la catena di violenza che
lega un male all’altro. Come disse Norberto Bobbio «la salvezza dell’umanità,
ora più che mai, dipende dall’interruzione di questa catena». E un condannato a
morte, Napoleon Beazley, espresse un pensiero simile quando affermò: «Nessuno
uscirà di qui vittorioso».
Una soluzione
Se è vero che in passato la
concezione organicistica si intrise di uno pseudo-razionalismo “cristiano”, è
altresì vero che quella logica si fondò su una distorsione di un messaggio
spirituale, contaminato dall’influenza umana e dell’inserimento in un contesto
sociale più incline alla violenza. Il vantaggio di noi contemporanei, in questo
caso specifico, risiede tuttavia nel poter filtrare quell’esperienza con un’altra
concezione, che potremmo definire “giuridica” e che si fondò dal Settecento su
un razionalismo “etico”, non meno spirituale del precedente ed anzi più incline
alla rivalutazione dei propri sistemi.
Allora forse, per cambiare la
sensibilità di uno Stato, dovremmo fare tesoro di tutti quei diritti che noi
esseri umani abbiamo conquistato alle nostre paure, e inoltre rinunciare a un
poco del nostro individualismo degenerato. Per riscoprire anche quel senso di
appartenenza comunitario che ben conosceva Tommaso, ricoprendolo di nuove
interpretazioni e di una nuova etica (mai applicata fino in fondo nemmeno ai
tempi della Rivoluzione, che anzi degenerò), in cui vi sia la speranza di una
serena giustizia. Senza “rischi” e senza paure. Con la superiorità morale di
uno Stato che spezzi la catena di infinite rivendicazioni e renda la propria giustizia la giustizia dell'Uomo Nuovo.
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