Remington, ovvero il problema del sensazionale
[Frederic]
Remington trasferisce nei quadri, e più tardi anche nel bronzo, tutta la sua
abilità, ma anche i suoi limiti di illustratore. Forza i toni per aggredire lo
spettatore, coinvolgerlo, emozionarlo. Ogni scena è sapientemente costruita
bloccando l’azione al suo acme: cavalli che si impennano con criniera al vento
e le narici frementi; muscoli che guizzano veloci sotto il pelo lucido dei
destrieri; cariche frontali che sembra debbano travolgere anche lo spettatore.
Ma questi “effetti speciali” vanno talvolta a scapito di verità più profonde.
In quei casi, lo sforzo di animazione prende il sopravvento sull’approfondimento
strutturale dell’immagine, la concentrazione sull’azione fa perdere di vista l’integrazione
tra figure e spazio, sfondo e primi piani, e la vivacità è ottenuta facendo
perno sul nucleo drammatico della scena e trascurando tutto il resto fino alla
sciatteria.
Questo
brano è utile per inquadrare meglio quanto stia avvenendo negli (almeno) ultimi
venti anni di cinema, televisione e qualunque altro mezzo di comunicazione
multimediale. Ci riferiamo a quel progressivo impoverimento della parte
propriamente artistica di un prodotto-opera inversamente proporzionale al
miglioramento della resa visiva ed emozionale.
Cerchiamo
di fare un po’ di chiarezza. Non è affatto accettabile dire che tutto il cinema
degli ultimi venti anni abbia subìto un lento declino: nostalgici
irrecuperabili a parte, pellicole coraggiose se ne sono viste parecchie, anche
di recente (penso, per esempio, all’equilibrato connubio tra immagine e parola
in un film come The Neon Demon, o Dunkirk). Così
anche altrove, come per le serie tv, abbiamo assistito ad un salto di qualità,
pur tra picchi indiscutibili (Breaking
Bad su tutti) e cadute rovinose (alcune delle ultime uscite di serie
Marvel). In termini generali, però, le idee non mancano e anche alcuni dei vari
reboot, remake e sequel hanno
proposto nuove vie anche di un certo interesse (Jurassic World).
Ciò
nonostante, in questi ultimi tre casi, sono stati più i flop che i successi.
Anche qui, occorre fare chiarezza. Pensiamo alle ultime due pellicole di Star Wars, piuttosto che ai vari film
Marvel. A livello di entrate economiche, questi film continueranno ancora a
lungo a fare soldi facili, a mani basse, in un meccanismo in cui ormai persino
la pubblicità risulta superflua. Che bisogno c’è di invogliare uno spettatore
ad andare a vedere ST? Basteranno
pochi teaser, un trailer che riassuma
a grandi linee tutta la storia e anche a quel punto – non importa – il film
andremo a vederlo in automatico. Perché in questi film l’importante è ritrovare
certi personaggi, certe espressioni e certe strutture visive e di
sceneggiatura. Tutto ciò che esula da questi parametri non solo rischia al
novanta percento di non essere “commerciale”, ma va incontro alle critiche di
chi non è in grado di comprendere uno schema narrativo diverso. Ovvero il
novanta percento delle persone che guardano quel film: non per loro colpa, ma
perché semplicemente non hanno interesse ad “ammirare” un’opera d’arte.
Vogliono solo che il film sia riconoscibile nelle sue caratteristiche generali, mentre il
dettaglio, la sfumatura, il particolare sono un di più.
Per
intenderci, una persona benestante ma non eccessivamente ricca non ha alcun
bisogno di decorare la propria villetta con sculture originali, mobili d’epoca
e un giardino in perfetto stile inglese. Basterà un’imitazione, una
riproduzione di valore e tutto sembrerà riconoscibile, accettabile. Ora, quel
novanta percento si ferma qui, e ne ha tutte le ragioni (a patto che non abbia
ambizioni critiche senza fondamenta). Chi invece ha quel “brutto vizio” di voler
cercare l’opera d’arte originale o peggio ancora si appassiona ad essa tanto da
conoscerne la storia, i precedenti e gli sviluppi, allora si trova spesso di
fronte a un problema.
Il
problema è che la maggioranza inesperta è sempre più portata a decretare il
successo o meno di un film o di qualunque altra opera d’arte in base al semplice
concetto di gusto personale, capace di relativizzare ogni cosa, con la conseguenza
che quelli che dovrebbero essere artisti si ritrovano a praticare un lavoro
seriale qualunque. Senza sfumature, senza prese di posizione (e quanto è triste
leggere di quei grandi registi che prima accusano una produzione e poi fanno
passi indietro spogliandosi di ogni dignità).
Il
discorso è come sempre a doppio senso. Da un lato, multinazionali come la
Disney hanno un potere tale nelle loro mani da poter condizionare i gusti, le
scelte, le preferenze. Non crediamo tuttavia che possano ancora determinarli in
modo completo. Se non altro perché il mercato offre alternative (nel caso
specifico del cinema sempre meno) e spesso quelle alternative propongono effettivamente
qualcosa di diverso, migliore o peggiore a seconda del caso. D’altra parte,
stiamo assistendo ad un’omologazione anche da parte di case di produzione che
un tempo avevano una loro linea (si pensi all’evoluzione/involuzione degli
ultimi film DC).
Quale
ago della bilancia, il pubblico, considerato sempre più mero consumatore che
individuo dotato di una pur minima intelligenza. E quel pubblico ama chi forza «i
toni per aggredire lo spettatore, coinvolgerlo, emozionarlo»; chi costruisce
la scena per creare il colpo di scena, anche fine a se stesso e in fin dei
conti prevedibile. In metafora, al pubblico piacciono le «cariche frontali che
sembra debbano travolgere anche lo spettatore». E tutte queste banalità (che sono tali poiché fini a se stesse) vengono persino definite "novità", perché sul momento creano "sensazione".
Eppure
tutto questo sembra sempre di più distogliere l’attenzione dal pensiero. Sì, il
pensiero, la riflessione, l’elaborazione mentale: «la vivacità è ottenuta
facendo perno sul nucleo drammatico della scena e trascurando tutto il resto
fino alla sciatteria». Persino quando il problema non è affatto il
budget (si pensi di nuovo a ST), o
forse, in realtà, è proprio quello.
Difficile,
se non impossibile, dire quali siano le ragioni di queste scelte. Ci riesce
semplicistico affermare che case di produzione come la Walt Disney Pictures
mirino a rendere “ignorante” il proprio pubblico, servendogli facili
antagonismi e finali tanto concilianti quanto privi di pathos. Al contrario,
potrebbe essere che proprio quel cinema si è dovuto adattare ad un pubblico
sempre più “impreparato”, incapace di elaborare concetti anche solo un poco
complessi. E questo adattamento è forse stato una risposta ad un pubblico di
massa sempre più variegato (anche nell’omologazione), con il risultato che la Disney
stessa (e non solo) ha dovuto abbassare il proprio livello di produzione,
facendo dell’arte cinematografica una farsa. Ad ogni scena.
Ci
troviamo di fronte a film che non si prendono sul serio proprio perché siamo
noi a non prenderci sul serio, a credere che tutto lo spettacolo sia solamente
intrattenimento.
Il
concetto di “prendersi sul serio”, peraltro, non ha nulla a che fare con la “serietà”
in senso stretto. Significa anzi avere la maturità di affrontare con coscienza
e senso estetico tanto temi delicati quanto temi più dimessi, senza mai cadere,
appunto, nella sciatteria.
Curiosamente
Remington, la figura che ha accompagnato questa riflessione, fu uno di quegli
artisti che visse proprio alle origini della cinematografia e che con le
proprie opere contribuì a caratterizzare molte pellicole ambientate nel Far
West. Quando ormai la sua vita volgeva al termine, senza più nulla da dover
dimostrare, Remington si adoperò per realizzare opere d’arte più intense, con
un’emotività meno immediata, ma più sincera e profonda.
Verso
la fine della sua vita, però, Remington riuscì sempre più di frequente a
trascendere questi limiti, liberandosi da quell’ansia di eccitazione epidermica
e ottenendo invece il massimo di concentrazione e di intensità emotiva dell’immagine
con il minimo dei mezzi, come in quel capolavoro del 1905 che è Sera su un lago canadese. Due anni prima
Remington scriveva: «La grande arte è un processo di eliminazione: riduci,
taglia via, lascia che lo spettatore abbia qualcosa su cui pensare, immaginare.
Ciò che tu vuoi fare è proprio creare il pensiero, materializzare lo spirito di
una cosa».
Non
c’è una risposta univoca in merito alle cause che hanno portato a questa
tipologia di prodotti cinematografici seriali. Un dato certo è che il pubblico
è profondamente cambiato in questi ultimi vent’anni, e l’età conta solo in
parte, poiché il peso maggiore è dato dalle innovazioni dell’era digitale.
Quello
che però l’esperienza di Remington e di altri artisti dimostra è che, liberi
prima di tutto dai condizionamenti autoimposti, è possibile realizzare un’opera
d’arte il cui “spirito indipendente” costringa l’osservatore ad essere
partecipe di un evento. Quando l’artista
produce opere d’arte per nient’altro che l’arte stessa, anche l’osservatore più
impreparato rimane colpito dalla sincerità e dalla bellezza delle immagini
ideali.
Nota: le due citazioni sono tratte da A. Pinelli, Primitivismi nell’arte dell’Ottocento, Carocci, Roma, 2005, p. 131.
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