Remington, ovvero il problema del sensazionale


Frederic S. Remington,
An Evening on a Canadian Lake (1905)


[Frederic] Remington trasferisce nei quadri, e più tardi anche nel bronzo, tutta la sua abilità, ma anche i suoi limiti di illustratore. Forza i toni per aggredire lo spettatore, coinvolgerlo, emozionarlo. Ogni scena è sapientemente costruita bloccando l’azione al suo acme: cavalli che si impennano con criniera al vento e le narici frementi; muscoli che guizzano veloci sotto il pelo lucido dei destrieri; cariche frontali che sembra debbano travolgere anche lo spettatore. Ma questi “effetti speciali” vanno talvolta a scapito di verità più profonde. In quei casi, lo sforzo di animazione prende il sopravvento sull’approfondimento strutturale dell’immagine, la concentrazione sull’azione fa perdere di vista l’integrazione tra figure e spazio, sfondo e primi piani, e la vivacità è ottenuta facendo perno sul nucleo drammatico della scena e trascurando tutto il resto fino alla sciatteria.


Questo brano è utile per inquadrare meglio quanto stia avvenendo negli (almeno) ultimi venti anni di cinema, televisione e qualunque altro mezzo di comunicazione multimediale. Ci riferiamo a quel progressivo impoverimento della parte propriamente artistica di un prodotto-opera inversamente proporzionale al miglioramento della resa visiva ed emozionale.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Non è affatto accettabile dire che tutto il cinema degli ultimi venti anni abbia subìto un lento declino: nostalgici irrecuperabili a parte, pellicole coraggiose se ne sono viste parecchie, anche di recente (penso, per esempio, all’equilibrato connubio tra immagine e parola in un film come The Neon Demon, o Dunkirk). Così anche altrove, come per le serie tv, abbiamo assistito ad un salto di qualità, pur tra picchi indiscutibili (Breaking Bad su tutti) e cadute rovinose (alcune delle ultime uscite di serie Marvel). In termini generali, però, le idee non mancano e anche alcuni dei vari reboot, remake e sequel hanno proposto nuove vie anche di un certo interesse (Jurassic World).

Ciò nonostante, in questi ultimi tre casi, sono stati più i flop che i successi. Anche qui, occorre fare chiarezza. Pensiamo alle ultime due pellicole di Star Wars, piuttosto che ai vari film Marvel. A livello di entrate economiche, questi film continueranno ancora a lungo a fare soldi facili, a mani basse, in un meccanismo in cui ormai persino la pubblicità risulta superflua. Che bisogno c’è di invogliare uno spettatore ad andare a vedere ST? Basteranno pochi teaser, un trailer che riassuma a grandi linee tutta la storia e anche a quel punto – non importa – il film andremo a vederlo in automatico. Perché in questi film l’importante è ritrovare certi personaggi, certe espressioni e certe strutture visive e di sceneggiatura. Tutto ciò che esula da questi parametri non solo rischia al novanta percento di non essere “commerciale”, ma va incontro alle critiche di chi non è in grado di comprendere uno schema narrativo diverso. Ovvero il novanta percento delle persone che guardano quel film: non per loro colpa, ma perché semplicemente non hanno interesse ad “ammirare” un’opera d’arte. Vogliono solo che il film sia riconoscibile nelle sue caratteristiche generali, mentre il dettaglio, la sfumatura, il particolare sono un di più.

Per intenderci, una persona benestante ma non eccessivamente ricca non ha alcun bisogno di decorare la propria villetta con sculture originali, mobili d’epoca e un giardino in perfetto stile inglese. Basterà un’imitazione, una riproduzione di valore e tutto sembrerà riconoscibile, accettabile. Ora, quel novanta percento si ferma qui, e ne ha tutte le ragioni (a patto che non abbia ambizioni critiche senza fondamenta). Chi invece ha quel “brutto vizio” di voler cercare l’opera d’arte originale o peggio ancora si appassiona ad essa tanto da conoscerne la storia, i precedenti e gli sviluppi, allora si trova spesso di fronte a un problema.
Il problema è che la maggioranza inesperta è sempre più portata a decretare il successo o meno di un film o di qualunque altra opera d’arte in base al semplice concetto di gusto personale, capace di relativizzare ogni cosa, con la conseguenza che quelli che dovrebbero essere artisti si ritrovano a praticare un lavoro seriale qualunque. Senza sfumature, senza prese di posizione (e quanto è triste leggere di quei grandi registi che prima accusano una produzione e poi fanno passi indietro spogliandosi di ogni dignità).

Il discorso è come sempre a doppio senso. Da un lato, multinazionali come la Disney hanno un potere tale nelle loro mani da poter condizionare i gusti, le scelte, le preferenze. Non crediamo tuttavia che possano ancora determinarli in modo completo. Se non altro perché il mercato offre alternative (nel caso specifico del cinema sempre meno) e spesso quelle alternative propongono effettivamente qualcosa di diverso, migliore o peggiore a seconda del caso. D’altra parte, stiamo assistendo ad un’omologazione anche da parte di case di produzione che un tempo avevano una loro linea (si pensi all’evoluzione/involuzione degli ultimi film DC).
Quale ago della bilancia, il pubblico, considerato sempre più mero consumatore che individuo dotato di una pur minima intelligenza. E quel pubblico ama chi forza «i toni per aggredire lo spettatore, coinvolgerlo, emozionarlo»; chi costruisce la scena per creare il colpo di scena, anche fine a se stesso e in fin dei conti prevedibile. In metafora, al pubblico piacciono le «cariche frontali che sembra debbano travolgere anche lo spettatore». E tutte queste banalità (che sono tali poiché fini a se stesse) vengono persino definite "novità", perché sul momento creano "sensazione".

Eppure tutto questo sembra sempre di più distogliere l’attenzione dal pensiero. Sì, il pensiero, la riflessione, l’elaborazione mentale: «la vivacità è ottenuta facendo perno sul nucleo drammatico della scena e trascurando tutto il resto fino alla sciatteria». Persino quando il problema non è affatto il budget (si pensi di nuovo a ST), o forse, in realtà, è proprio quello.
Difficile, se non impossibile, dire quali siano le ragioni di queste scelte. Ci riesce semplicistico affermare che case di produzione come la Walt Disney Pictures mirino a rendere “ignorante” il proprio pubblico, servendogli facili antagonismi e finali tanto concilianti quanto privi di pathos. Al contrario, potrebbe essere che proprio quel cinema si è dovuto adattare ad un pubblico sempre più “impreparato”, incapace di elaborare concetti anche solo un poco complessi. E questo adattamento è forse stato una risposta ad un pubblico di massa sempre più variegato (anche nell’omologazione), con il risultato che la Disney stessa (e non solo) ha dovuto abbassare il proprio livello di produzione, facendo dell’arte cinematografica una farsa. Ad ogni scena.

Ci troviamo di fronte a film che non si prendono sul serio proprio perché siamo noi a non prenderci sul serio, a credere che tutto lo spettacolo sia solamente intrattenimento.
Il concetto di “prendersi sul serio”, peraltro, non ha nulla a che fare con la “serietà” in senso stretto. Significa anzi avere la maturità di affrontare con coscienza e senso estetico tanto temi delicati quanto temi più dimessi, senza mai cadere, appunto, nella sciatteria.
Curiosamente Remington, la figura che ha accompagnato questa riflessione, fu uno di quegli artisti che visse proprio alle origini della cinematografia e che con le proprie opere contribuì a caratterizzare molte pellicole ambientate nel Far West. Quando ormai la sua vita volgeva al termine, senza più nulla da dover dimostrare, Remington si adoperò per realizzare opere d’arte più intense, con un’emotività meno immediata, ma più sincera e profonda.

Verso la fine della sua vita, però, Remington riuscì sempre più di frequente a trascendere questi limiti, liberandosi da quell’ansia di eccitazione epidermica e ottenendo invece il massimo di concentrazione e di intensità emotiva dell’immagine con il minimo dei mezzi, come in quel capolavoro del 1905 che è Sera su un lago canadese. Due anni prima Remington scriveva: «La grande arte è un processo di eliminazione: riduci, taglia via, lascia che lo spettatore abbia qualcosa su cui pensare, immaginare. Ciò che tu vuoi fare è proprio creare il pensiero, materializzare lo spirito di una cosa».

Non c’è una risposta univoca in merito alle cause che hanno portato a questa tipologia di prodotti cinematografici seriali. Un dato certo è che il pubblico è profondamente cambiato in questi ultimi vent’anni, e l’età conta solo in parte, poiché il peso maggiore è dato dalle innovazioni dell’era digitale.
Quello che però l’esperienza di Remington e di altri artisti dimostra è che, liberi prima di tutto dai condizionamenti autoimposti, è possibile realizzare un’opera d’arte il cui “spirito indipendente” costringa l’osservatore ad essere partecipe di un evento. Quando l’artista produce opere d’arte per nient’altro che l’arte stessa, anche l’osservatore più impreparato rimane colpito dalla sincerità e dalla bellezza delle immagini ideali.


Nota: le due citazioni sono tratte da A. Pinelli, Primitivismi nell’arte dell’Ottocento, Carocci, Roma, 2005, p. 131.

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