Il valore magico del nome
Riprendo
il discorso sul valore magico del nome (già introdotto qui), prendendo come esempio il nome segreto
di Roma e il mito riguardante il vero nome di Ra.
Il nome segreto di
Roma
Roma
ebbe un nome segreto, impronunciabile, pena la morte. Solo i Pontefici Massimi
lo conoscevano e tramandavano, come ci conferma Giulio Solino, un dotto vissuto
nel III secolo d.C. Egli afferma che questo nome era a conoscenza dei soli capi
di stato, che lo tramandavano al momento del passaggio del potere.
Il
Pontefice Massimo pronunciava il nome segreto solo ed esclusivamente durante i
sacrifici rituali. Si ha prova di un antico rituale compiuto durante il
solstizio d’inverno in onore della dea Angerona, la cui statua ha la bocca
bendata, forse proprio per alludere alla segretezza.
Macrobio,
un funzionario imperiale vissuto tra il IV ed il V secolo d.C., nei suoi Saturnalia, riporta che il nome arcano
era scritto in libri antichissimi, però ognuno di essi citava un nome diverso,
quasi a voler rendere impossibile una conferma definitiva. Molti associarono il
nome segreto dell’Urbe a Giove, o ad Angerona, oppure ancora alla Luna.
Altre
prove che Roma avesse un nome segreto si possono trovare nel corso della storia
anche nelle testimonianze di scrittori. Un esempio è quello dell’antico commentatore
di Virgilio, Servius, che in una nota all’Eneide
scrisse: «Nessuno,
nemmeno nei sacrifici, ripete il vero nome della città. Ché, anzi, un tribuno
della plebe, Valerio Sorano (come disse anche Varrone), fu messo in croce per
aver ardito pronunciare quel nome».
Nel
corso del Rinascimento, in quel clima di recupero e studio della classicità,
Poliziano suggerì che il nome segreto di Roma fosse “Amarillis” e “Antusa”, che
in greco significa “fiorente”. Per altri, di conseguenza, il nome fu “Flora”,
termine che si ricollega anche con quello di aprile (da “aperire”, aprirsi alla
vita, il mese di Roma). A Flora erano dedicati i “Floralia”, feste che
inneggiavano la natura e la vegetazione, e si svolgevano dal 28 aprile sino al
3 maggio. Per questo motivo (come si diceva nel post precedente), quello di
“Flora” sarebbe il nome religioso (o sacrale) della città, e non il nome
segreto. Per altri ancora il nome fu “Valentia”, e via dicendo.
Infine,
per la maggior parte degli storici, il nome fu “Amor”, che è il bifronte di
Roma. Esiste anche un palindromo in favore di questa ipotesi: ROMA TIBI SUBITO
MOTIBUS IBIT AMOR (Roma, con dei movimenti letterari, diventerà Amor).
Non meno
curioso, è il fatto che in lingua serba Roma sia detta “Rim”, e che il suo
bifronte, “Mir”, significhi “pace”. È chiaro quindi che “Amor” e “Mir” siano in
perfetta armonia con la missione che questa città si era prefissata in periodi
storici come quello augusteo (Augusto divenne Cesare proprio perché considerato
un diretto discendente di Venere, dea dell’amore), oppure, con una certa forza
profetica, la volontà di pace e amore della città sede del papato.
Ma se
queste ultime ipotesi sembrano essere più suggestive che veritiere, ancora più
improbabile pare essere la supposizione del giornalista Silvio Cremonese, che
ha proposto il nome di “Petra” (in Paese
Sera del 15/12/1949), facendo notare che la parola “Petra” si presta alla
creazione dell’anagramma: “ept a” che, in greco e in latino arcaico, significa
“i sette colli” (altrettanto profetico sarebbe un legame con Pietro, il padre
della Chiesa romana).
Guardando
ancora a tempi più recenti, Giovanni Pascoli, nel famoso Inno a Roma, scrive: “O, ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi dirà
l’Italia? Il nome arcano è tempo che si riveli, poi ché il tempo sacro. Risuoni
il nome che nessun profano sapea qual fosse, e solo nei misteri, segretamente
si innalzò tra gli inni…”
Come si
può dedurre dai versi, Roma possedeva tre nomi (come detto nel post
precedente): quello noto (o pubblico), quello sacrale, quello segreto. Anche
per Pascoli, il nome segreto di Roma era Amor, per quanto possano aver influito
anche le motivazioni poetiche e lo spirito dell’autore. Il nome celeste,
invece, per Pascoli era “Flora”, in onore a Venere, dea della natura e dell’amore.
Ma che
importanza riveste il nome segreto? Avere un nome segreto, per esempio, poteva
mettere al riparo la città stessa dai nemici, ponendola al riparo da
maledizioni che ne invocavano appunto il nome. Conoscendo il vero nome, di
conseguenza, si poteva ingraziare il nume tutelare della città stessa. Una
prova è data dalla presa di Veio, raccontata da Tito Livio, in cui i romani
invocarono il nume protettore, promettendo che lo avrebbero adorato meglio
degli stessi abitanti: la battaglia (sarà destino?) volse in modo favorevole
all’esercito romano.
Il nome
di una città era inoltre considerato sinonimo di potenza e grandezza magica,
quindi pronunciarlo significava acquisire tali forze. Per questo, non si doveva
conoscere nemmeno il nome della divinità protettrice di Roma, per evitare che
questa favorisse i nemici. Addirittura il sesso del nume non doveva essere
rivelato, come attesta un’iscrizione rinvenuta nell’Ottocento, ai piedi del
Palatino: “Sei Deo sei Deas” che vuol dire “Sii tu un dio o una dea”.
Il nome segreto di Ra
Solo il
cielo conosce il vero nome di una persona (ne parleremo più avanti), perché,
come affermano molte culture pagane, questa persona rischierebbe di diventare
manipolabile.
Nella
cultura egiziana, per esempio, si assegnava un nome pubblico ed uno segreto,
riservato solo ai componenti della famiglia.
Il mito
seguente mostra l’importanza del nome come essenza della conoscenza. Si dice
infatti che conoscere il nome di una cosa significhi avere potere sulla cosa
stessa, un concetto valido per la magia e per quella serie di riti che
riguardano il controllo di persone ed oggetti. Per chi fosse interessato, il
papiro da cui è tratto questo mito è il Papiro 1993 di Torino (XIX Dinastia),
conservato nel Museo delle Antichità Egizie di Torino.
In
questo link vi è una traduzione: link
In sintesi,
Iside, la Grande Maga, decise di scoprire il nome segreto di Ra, “quello che le
dava il potere sul resto degli uomini e degli dèi”. Creò così un cobra,
tendendo un agguato a Ra. Avvelenato, il dio chiese aiuto agli altri dèi; Iside
cercò allora di aiutarlo: «Venite, ditemi,
oh Signore, il vostro nome, oh divino padre, il vostro vero nome, il nome
segreto che voi solo conoscete, perché vivrà solamente colui che è chiamato con
il suo vero nome».
Tuttavia
Ra pronuncia i nomi che erano già noti, così la dea tenta di nuovo: «Non sono quelli i nomi di cui ho bisogno per
curarvi, è necessario che mi diciate il vostro nome segreto, quello che solo
voi conoscete, ed il veleno sarà espulso. Vivrà solo colui che rende manifesto
il suo vero nome».
A quel punto
Ra, scosso dal tremendo dolore, dice alla dea: «Avvicinati
Iside, guarda qui e lascia che il nome passi dal mio corpo al tuo. Io, il più
divino tra gli dèi, l’ho tenuto nascosto, affinché il mio trono nella Barca
Divina, da milioni di anni, potesse essere esteso. Quando uscirà dal mio cuore,
dillo a tuo figlio Horus, dopo che egli abbia giurato per la vita del dio, ed
abbia messo il dio nei suoi occhi».
Raggiunto
il proprio obiettivo, Iside pronuncia un incantesimo, liberando Ra dal veleno.
Altri esempi: Cristianesimo ed
Ebraismo
In
precedenza abbiamo affermato che solo il Cielo conosce il vero nome di una
persona. Infatti, quella del nome segreto non è una tradizione solo egiziana (o
romana), poiché anche nel libro dell’Apocalisse
si legge che alla fine dei tempi coloro che avranno vinto la battaglia contro i
nemici di Dio saranno premiati, tra le altre cose, con una pietra bianca, sulla
quale è scritto il loro nome segreto. Quello che svela la vera identità. Il
passaggio è il seguente:
«A chi
vince io darò da mangiare della manna nascosta, e una pietruzza bianca; sulla
pietruzza sta scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo
riceve.» (Apocalisse 2:17)
Qualcosa
di simile si riscontra ancora in alcune tribù indigene, o, per esempio, negli
Indiani d’America, i quali possiedono un nome che li caratterizza anche nel loro
rapporto con la natura, con il mondo.
Inoltre,
può essere utile ricordare il secondo comandamento, che dice: “Non nominare il
nome di Dio invano”. Al di là del suo significato letterale, di rispetto della
grandezza divina, anche gli ebrei ritenevano il nome importantissimo (come gli
egizi, non dimentichiamo che Mosè era cresciuto alla corte del Faraone,
trasmettendo nei comandamenti parte degli insegnamenti ricevuti dai sacerdoti
egizi).
Conoscere
il nome di Dio è un segreto iniziatico, riservato a pochi, anzi, forse, a
nessuno. In Esodo 6, 2-3 è scritto:
«E Dio
parlò a Moshè dicendogli: “Io sono Ha-Shem. E Mi sono mostrato ad Abramo, a
Isacco e a Giacobbe con (il nome di) EL SHADAI, e il Mio Nome Y-H-V-H non l’ho
fatto loro conoscere”».
È noto
che nell’ebraico il tetragramma è Yahwe, in italiano tradotto con Geova. Secondo
alcuni, però, questo nome non si potrebbe tradurre, in quanto le vocali
inserite in Y.H.W.H. sono sconosciute.
Forse questo
è il punto di arrivo accettabile in questa analisi. D’altronde sarebbe
inspiegabile che Dio affermasse di aver rivelato solamente ad alcuni il suo
nome, salvo poi riportarlo e renderlo noto a tutti. Ricordiamo inoltre che
pronunciare il nome di Dio significa avere il potere di Dio, basti pensare al
precedente mito di Ra. Tutto ciò rafforza quanto appena detto: da qui in poi si
entra nel merito della teologia e delle interpretazioni dogmatiche ed esclusiviste delle singole religioni.
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