Racconto. Le mie vite future
Cerco un’immagine di futuro che sia da film. E non mi
basta. Ogni volta che accendo l’OPSIS vengo proiettato in un futuro che è
ragionevolmente possibile, ma che non mi appaga mai. Forse perché, da quando la
rete è diventata la nostra realtà ipotetica, non riusciamo più ad accettare la
realtà concreta. Sin dall’era dei primi dispositivi fotografici, dell’alta
definizione, abbiamo abituato i nostri sensi ad andare ben oltre la perfezione
della natura, ben oltre noi stessi. Ed ogni volta che utilizziamo l’OPSIS per
vivere la nostra ennesima esistenza non ci rendiamo conto di nulla. Almeno
finché non usciamo di casa e ci troviamo di fronte a quegli orribili colori
sbiaditi. Dove abito io, ogni giorno, verso le dieci del mattino, si materializza
l’autostrada che da Nouv-Lyon porta al cratere Mandel’shtam. La chiamano “la
cicatrice”, un termine che indicava il segno che rimaneva sulla pelle dopo aver
subìto alcuni traumi. Insomma, non proprio un complimento.
Ora dopo ora, quando è ormai tempo di avviare i sistemi
che dovranno mettere in funzione le macchine, ai lati dell’autostrada si
espandono centinaia di chilometri di fabbriche, impianti per l’estrazione ed
edifici per i servizi pubblici. Il mio problema nasce proprio da questo. Perché
in tutte le mie vite future non vedo mai niente di simile. Mai una dannata
fabbrica, o un’autostrada: certe volte mancano persino gli elementi naturali di
base, come il cielo o gli alberi.
Ho chiesto al dottor Ferguson se fosse il caso di sostituire l'OPSIS, ma secondo lui il problema è nella mia testa. Nel senso che nelle vite
che produco esistono i cieli e le fabbriche, ma non le voglio vedere. A detta
del dottor Ferguson ho una sorta di malattia invisibile. Potrei fare analisi al
cervello per il resto della mia vita di base, senza però trovare l’errore.
A questo punto il dottore mi ha dato degli esercizi da
fare: la sua idea è quella di creare una serie di vite nuove aggiungendo gli
elementi mancanti in corsa. Si tratta di barare, ma ovviamente non uscirò dalla
rete domestica e mi ucciderò prima di andare troppo oltre. Tempo un mese, poco
più, e sarò guarito.
Nel frattempo ho generato me stesso una decina di volte,
sempre perdendo qualche elemento di base, anche dopo averlo aggiunto più volte.
È abbastanza frustrante, ma mi consolo: questo male è niente in confronto alle
vite che fanno certe persone che conosco. Le loro esistenze sono diventate così
popolari, che qualunque canale di vita usino vengono rintracciate dai droni
elementari, capaci di individuare la fonte comune di ogni individuo. A quel
punto sei finito, la voce si diffonde e ti ritrovi con una montagna di
richieste d’accesso per ogni esistenza che ti sei creato. La tua vita di base
ti sembrerà la migliore realtà di sempre. Ti abituerai ai colori sbiaditi, a
dover accettare le cose come stanno e a farle evolvere secondo natura. Sembra
una gran fregatura - e in effetti lo è – ma ognuno è schiavo del suo limbo.
Prendo in mano l’OPSIS e me lo fisso sulla testa; poi
avvio il comando vocale e descrivo all’operatore i termini generali della nuova
esistenza. Il resto è routine: l’operatore individua tutti gli utenti che hanno
desideri compatibili ai miei e ci combina in un nuovo universo, dove però
ognuno è padrone del proprio punto di vista. Per esempio, se decido di sposare
una ragazza piuttosto attraente non saprò mai se ha accettato anche dal suo
punto di vista o solo perché ero io a volerlo.
Nel mio piccolo, posso dire che mi costerno di amori
impossibili, accetto e rifiuto amicizie come se dovessi rispondere al vero e
falso di un quiz online. Rincorro il dolore perché ho già sperimentato ogni
bellezza, ogni amore ed ogni piacere. Mi spingo laddove mi porta la noia o quel
briciolo di curiosità che mi resta. Mi perdo in particolari insignificanti e il
risultato è che mi dimentico di pensare al cielo.
Sopra la mia testa c’è il nulla, un nero impenetrabile
che reprime ogni atto della ragione. Quando il nulla mi avvolge è sempre la
stessa storia: gli edifici si sgretolano come castelli di sabbia, le spiagge
vengono inondate, le montagne si spaccano in due ed ogni cosa, nell’arco di
un’ora, si disintegra.
La cura che sto seguendo non sta dando risultati, e sono
ormai due settimane e mezzo che ci provo. Per questa ragione mi trovo qui
davanti a voi, a leggere questa pagina di diario a persone in carne ed ossa,
che hanno forse un’idea di quello che sto dicendo loro. Voi siete una specie in
via di estinzione, siete l’eccezione alla selezione naturale, sebbene ancora
per poco. Due secoli dividono i vostri anni dai nostri. E noi non possiamo
farvi uscire; dobbiamo tenervi in questa specie di riserva per morti viventi,
nella speranza che un giorno siate pronti per accettare il nuovo mondo.
Immagino che non sia questo il futuro che avevate
sognato. Provenite da un tempo in cui c’era una crisi mondiale e scommetto che
avete pensato che un giorno il mondo sarebbe diventato un paradiso, oppure che
tutto sarebbe finito secondo la peggiore profezia del momento. Invece nulla è
finito, ma non avete ottenuto nessun paradiso. Più la nostra storia va avanti e
più si contano nuove scoperte, le conoscenze si allargano e tutti gli anni che
la scienza guadagna alla vita sono spesi per apprendere centinaia di nozioni
dell’ultima ora. No, qualunque cosa vi sareste aspettati, nel bene e nel male,
non è di certo questo limbo, che non dà ragione o torto a nessuno di noi.
Ad ogni modo avete fatto la vostra scelta, e questa volta
non si torna indietro. Quando sarete pronti ad uscire di qui potrete fare
quello che volete di voi stessi, anche se non nella vita reale. Nella vita di
tutti i giorni sarete solo un codice numerico da correggere quando create vite
contro la legge. Questo non significa che non si possa sognare. Quando non
siamo connessi, nessuno può davvero entrare nei nostri pensieri. La nostra mente
continua a rimanere un universo infinitamente vasto, ma dopo giornate intere
trascorse a vivere esistenze straordinarie, nessuno, alla sera, ha ancora la
forza di sognare qualcosa che non esiste e che non può esistere. Tutti noi
siamo obbligati a vivere queste vite immaginarie illudendoci che siano vere, e
per molto tempo è stato un gioco affascinante, ma ora, quando il sole tramonta,
ci distendiamo a fatica sul letto. E a quel punto cadono i primi palazzi, una
pioggia intensa ci colpisce e la stanchezza ci assale, fino a quando, tempo
un’ora, tutto il mondo si dissolve.
Nota: il termine OPSIS è tratto dal greco antico ὄψις, che significa “vista”.
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