Presentazione della raccolta poetica 'Miele e chimere. Poesie e meditazioni'
Miele e chimere. Poesie e meditazioni è una raccolta poetica scritta da Andrea Pighin, alias Argyros Singh, edita da Aletti Editore (2018).
Frederick Edwin Church, Morning in the Tropics (1858 ca) |
Una forma
universale
Partiamo dalla
forma. Questa raccolta di poesie utilizza il prosimetro, ovvero alterna poesie
in versi a parti in prosa, talvolta anche amalgamando le due forme in un’unica
composizione.
In certi casi, è
possibile notare dei versi particolarmente lunghi, ma a ben guardare non manca
un ragionamento metrico: si tratta spesso di versi alessandrini, rivisitati, in
cui collaborano doppi settenari e non solo. Così – in parallelo – laddove si
incontra una parte in prosa, ho voluto operare sull’aspetto eufonico,
utilizzando rime ravvicinate, allitterazioni e qualunque altro artificio
“retorico” che l’ispirazione proponeva al pensiero.
Si può quindi
parlare a buon diritto di un romanzo di poesia, che segue un ritmo particolare,
con un’introduzione, uno sviluppo, una caduta e una soluzione. Come quasi
sempre accade, non si inizia a scrivere poesie con una visione unitaria. Il
percorso richiede anni, rivalutazioni e correzioni; lo scrittore deve meditare
su quanto ha scritto facendosi trasportare dal sentimento interiore e deve
quindi sottoporlo al vaglio critico di se stesso. La domanda che si deve porre
– secondo quella che è la mia prospettiva – è la seguente: «Quanto ho scritto
quale valore universale può avere?».
Tutto ruota
intorno a quel termine: “universale”. Ad un certo punto della mia indagine
retrospettiva, compresi che il mio messaggio voleva prendere la forma di una
poesia corale, in cui il dato intimistico e la prima persona avrebbero avuto un
ruolo marginale nel contesto di un’opera che volesse trattare degli
“universali”. Partendo, certo, dalla personalità del poeta, ma abbandonando a
poco a poco quella desolazione e quella sciagura esistenziale per qualcosa di più
grande. E che cosa c’è di più grande della Natura e del Divino, qualunque siano
i loro volti in questa realtà?
La magia della
parola
Le poesie di
questo libro non hanno nome e, d’altra parte, anche anticamente le poesie non
portavano un vero e proprio titolo, aggiunto solo in seguito, riprendendo
spesso l’incipit.
I titoli che
possiedono le mie poesie, riferiti ai fiori, hanno un altro valore. Ogni poesia
che ho scritto non è altro che un insieme di parole unico, che in quella
specifica sequenza diviene una costruzione o un organismo. Il fiore che viene
attribuito ad ogni poesia è quindi un metodo per “codificare” una sequenza, per
renderla in qualche modo riconoscibile. Oggi si potrebbe aggiungere un’affinità
con gli hashtag, ma pur accettando
questa sfumatura, essa non è che una parte di un discorso molto più ampio,
riguardante il valore del nome e la sua capacità creatrice ed evocatrice.
Spesso la
“parola che codifica” è andata perduta, oppure – sotto i nostri occhi – non è
più riconoscibile. Oggi non conosciamo più il nome degli alberi, dei fiori e di
molto altro in questa Natura, e poiché non riconosciamo la Madre siamo per
certi versi orfani. Il nostro sentimento è confuso, siamo in fuga da noi stessi
e dalla realtà, poiché in questa realtà non vediamo che oggetti e fenomeni che
non sappiamo decifrare. Siamo arrabbiati verso qualunque cosa, ma indossiamo
l’abito della correttezza e dell’autocommiserazione, in religioso silenzio.
Ecco allora che imparare a conoscere le cose, a contestualizzarle e a nominarle ci renderebbe tutti meno soli
e più curiosi verso un mondo che ha di nuovo molto da comunicarci.
La parola è una
funzione dell’Uomo che riflette la sua somiglianza con il Divino, dunque è
anche in essa che l’essere umano può ritrovare la capacità di codificare la
realtà.
Lo strumento dell’Arte
Quando è
avvenuto questo distacco? «La civilizzazione porta ad un maggiore razionalismo
e il razionalismo inaridisce l’immaginazione, l’estro […]. Vico mette la
scienza ad uno stadio di civiltà successivo a quello dell’arte e a quello della
filosofia, il che presuppone, rispetto a Diderot, uno scarto ancora più deciso
verso un’impalcatura di pensiero che implica, per chi voglia coltivare l’arte,
la necessità di regredire ad una condizione di “infanzia”: se infatti la
scienza e la razionalità moderne inaridiscono la fantasia, chi si dedica
all’arte dovrà necessariamente contrapporsi alla modernità e sforzarsi di
tornare “primitivo”, risalendo alla sorgente originaria dell’estro e della
fantasia poetica». (Pinelli A., Primitivismi
nell’arte dell’Ottocento, Carocci, Roma, 2005, p.13)
Questi concetti
furono sviluppati nel pieno di quel confronto serrato tra Ragione e Sentimento,
Scienza e Fede e via discorrendo. Ad oggi, si può mantenere la sostanza di quel
messaggio, ovvero che fu la civilizzazione ad inaridire l’immaginazione, ma non
è più del tutto accettabile la dicotomia che prevede un artista che ritorni
alla condizione di “infanzia” e si contrapponga alla modernità.
Questo pensiero
– efficace in quel dato contesto dialettico – genera oggi un cortocircuito. Una
netta separazione tra modernità e primitivismo, tra tradizione e attualità.
Così abbiamo da un lato l’arroganza razionalista e dall’altro un cieco
fideismo.
«Se Goya
ammonisce che il sonno della ragione genera mostri, Blake sembra voler aggiungere
che anche ad occhi aperti la “tirannide della Ragione” partorisce la piatta e
desolante mostruosità di un mondo abbandonato dall’immaginazione. Un mondo che
Blake, con il suo linguaggio immaginifico, nutrito di letture sapienziali,
definirà il “mondo di Ulro”, ovvero dell’assoluta Unicità, irreggimentato dalle
leggi di Urizen, che nell’immaginario dell’artista incarna la “Ragione
oppressiva”». (Pinelli A., op. cit., p. 97)
Ad oggi, viviamo
nell’errata convinzione che il “nuovo” debba necessariamente contrapporsi al
“vecchio”, anziché identificarne, per esempio, una rivalutazione o una reinterpretazione.
Non esiste infatti – e mai è esistito – un fenomeno nuovo che non sia connesso
in qualche modo a ciò che lo ha preceduto. Il mito del progresso è finalmente
sotto gli occhi di tutti. Ma che cosa significa questo? Che sia necessario un
ritorno al primitivo? E se è così, che cosa indica questo termine?
«I maestri
antichi – sosteneva in sostanza la dottrina neoclassica – hanno operato una
selezione nella realtà naturale, scartando impurità e imperfezioni per
distillarne il Bello ideale, di cui la realtà è il riflesso pallido e incerto.
Gli artisti moderni dovranno afferrare quella via maestra e liberare l’arte
dall’ingannevole labirinto in cui si è smarrita». (Pinelli A., Il Neoclassicismo nell’arte del Settecento,
Carocci, Roma, 2005, p. 200)
In sostanza, un
ritorno al primitivo, alla condizione “infantile”, non sarebbe altro che un
passo falso, al pari della cieca fede nel razionalismo. Gli antichi maestri –
identificati nel passo appena citato negli artisti, filosofi e scienziati greci
– ci indicano in che cosa consista questa Via. Si tratta di operare una
selezione, di identificare con gli strumenti della ragione e dell’intuito quanto
di Bello si celi all’interno di ogni forma rude e imperfetta.
Una parte
dell’arte contemporanea si è troppo spesso adagiata in comodi rifugi astratti:
pur essendoci state riflessioni nella direzione qui suggerita, essa oggi appare
piuttosto un diversivo per non affrontare quel concetto ostico che è il Bello
ideale; ostico in quanto contrario al razionalismo.
Poiché anche
nell’astratto sopravive la Natura; una natura piccola, caotica e primitiva, in
cerca di una linearità. Ed è proprio nella linearità che si costruiscono solide
fondamenta e da esse la Natura – riconosciuta dall’Uomo – è in grado di
produrre la Bellezza, che non è altro che l’articolazione della grazia su un
modello di giustizia, ovvero di ordine. È il Bello che si innesta sul Vero e
offre a noi l’opportunità di apprezzarlo, pur in modo parziale e non ancora
compiuto.
Il non-manifesto
Una sezione di Miele e chimere è legata al “vuoto”, un
termine vago e sfuggente quanto “infinito”.
L’assimilazione
concettuale del nulla al vuoto è dovuta al fatto che ciò che nel nostro piano
può essere definito (per quanto in modo improprio) “nulla” non è altro che il
non-manifesto. In una concezione materialistica, tuttavia, questa
non-manifestazione ha assunto i contorni del vuoto assoluto, assimilato
nell’immaginario comune ad una sorta di buco nero.
Uno degli
obiettivi dell’essere umano contemporaneo è riuscire ad uscire da questo
errore, per cui al vuoto non si contrappone il pieno e il nulla non è
paragonabile a qualcosa di negativo, tantomeno al male in opposizione al bene.
No, il vuoto ontologicamente non esiste, e – per assurdo – il vuoto non è che
un contenitore di cui non siamo capaci di vedere il contenuto. Anche in esso,
tuttavia, ci sono tanto le potenzialità del bene quanto quelle del male.
Questo spazio
sconosciuto e non-manifesto non è che un ulteriore livello di indagine per
l’individuo, un livello in cui egli può analizzare se stesso non più in
rapporto al visibile, ma all’Indefinito. Con il risultato, nella migliore delle
ipotesi, di un abbandono del proprio essere materiale.
Nel mio libro,
dunque, convive questa dialettica tra un nulla distruttivo, caotico, e un nulla
pacifico, nel contesto di una ricerca che tenti di escludere la prima
soluzione.
Come in fondo scriveva
Thomas Mann in La morte a Venezia,
ponendo questo pensiero nella mente del protagonista Gustav von Aschenbach: «Riposare
nella perfezione è l’anelito di chi si affatica verso l’eccelso; e non è forse
anche il nulla una forma di perfezione?».
Il ritorno alla
Natura
Quando parliamo
di “ritorno alla Natura”, molti si immaginano un individuo che abbandona la
civiltà e si ritira in un bosco, per vivere allo stato primitivo. Tuttavia, pur
essendoci un certo valore in questo, quel ritorno alla Natura è solo un passo
che scalfisce appena la superficie. In effetti, significa imparare a
riconoscere l’essenza delle cose, il loro cosiddetto “aspetto ideale”, che in
realtà è ben più di un’immagine; va oltre l’apparenza delle cose e ci dà la
misura dell’armonia tra il visibile e l’invisibile, aspetti a cui ho appena
accennato. Questo, in definitiva, è il ritorno alla Natura. Che comunque
permette un approccio più diretto al tema del ritorno, senza per questo rendere
tale processo imprescindibile. Si tratta inoltre di invertire la tendenza alla
dispersione.
La natura, in
sé, non è né buona né cattiva, né bella né brutta; la natura possiede, semplicemente,
l’essenza del sublime. Ma – come spiegato in precedenza – necessita della
partecipazione dell’Uomo affinché possa essere apprezzata. Una Natura senza
Uomo, infatti, potrebbe esistere, ma senza coscienza. Non si tratta nemmeno
qui, ad ogni modo, di una dicotomia.
La Natura ha
permesso un tale sviluppo della coscienza umana poiché è proprio attraverso
l’Uomo che ha scelto di esplorare il proprio significato in relazione alla vita
e alla morte. In termini più semplici: l’essere umano è parte fondamentale di
una Natura che intende ammirare se stessa quale perfetta costruzione di un
Architetto.
Il ritorno alla
Natura suggerito dalla mia opera ha il significato – soprattutto per gli
occidentali – di un’indagine delle cose prime libera dalle sovrastrutture del
progresso, della civiltà e del pragmatismo. Sovrastrutture peraltro senza
radici e quindi estranee alla più intima natura umana. Così Miele e chimere discute quello che René Guénon
chiamava, rispettivamente, “sentimentalità” e “materialismo pratico”; appunto
questo: miele e chimere. L’opera è costituita non a caso da quattro sezioni.
La prima si può
considerare – nonostante il contenuto – positiva, dal momento che affronta
un’indagine; rappresenta il processo esplorativo, necessario a produrre le
conseguenti domande.
La seconda
sezione affronta l’aspetto dell’amore, che oggi è situato tra le catene di una
esagerata sessualità e lo squilibrio provocato da individui non più capaci di
vivere un’esperienza compiuta, poiché tormentati da un contesto affabulatorio e
dalla totale mancanza di un giudizio critico. Così l’amore ideale emerge a
tratti tra le sbarre di questa prigione, ma stenta a venire alla luce.
La terza
sezione, anch’essa di segno prevalentemente negativo, precipita nel nulla, nella
dissoluzione prima materiale e infine esistenziale. La rovina di questo
meccanismo segna però la rinascita ad una vita nuova: le domande sono ancora
molte, ancora limitate alle dicotomie occidentali, ma con la consapevolezza dei
fallimenti propri e di una intera civiltà, l’individuo si libera dagli oggetti
e riscopre le cose.
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