L'uccellino e la Fenice
Oggi è morto un uccellino. Non so
quale fosse il suo nome, né se ne avesse uno. So per certo che è esistito,
perché di lui si parlò a lungo nei libri, nei telegiornali e nelle radio.
Un tempo era riuscito in qualche
strano modo a fuggire dalla gabbia. La sua compagna non aveva osato seguirlo,
diceva che dai racconti di quelli che erano liberi non valeva la pena scappare
da una gabbia più piccola ad una più grande. “È solo più difficile trovare il
cibo, anzi, è proprio il fatto che devi saperlo trovare… e non parliamo delle
migrazioni, della lotta per la sopravvivenza… e la riproduzione!”. Un giorno
gli avevano riferito questo i passeri della zona, solo che quell’uccellino, al
contrario della compagna, non si era perso d’animo. Architettò alla buona un
piano di fuga, e quando lei chiuse gli occhi per dormire, ecco che in un batter
di ciglio era uscito. Lei, mezza assonnata e raggomitolata tra le piume, riaprì
per un momento gli occhi, poi li richiuse, per poi riaprirli di nuovo con immenso
stupore. “Torna subito dentro!” gli aveva fischiato. Ma lui era già di spalle,
convinto che il volo sarebbe riuscito facile. Planò come facevano gli uccelli
di fuori e, per quanto impacciato, fece il suo primo vero volo. Era ancora
notte fonda, e l’uccellino andò a rifugiarsi dentro il tronco di un albero.
Appena posò le zampe, però, rimase intrappolato in una sostanza appiccicosa e,
avvicinando il becco per capire cosa fosse, pure la bocca rimase incollata!
D’un tratto arrivò il suo amico
passero, il quale, per niente sorpreso di vederlo fuori, incominciò a fischiare
di gusto alle spese del malcapitato, svegliando col suo fischio tutto il
vicinato. Il gufo di zona gli intimò di calmarsi, “non erano mica modi questi”.
Il passero si scusò, mormorando qualche ghigno sotto becco. Il nostro uccellino
accennava qualcosa con gli occhi, quando finalmente il passero intese e con
l’aiuto di alcune foglie e dello scoiattolo che abitava quel tronco, lo
liberarono dalla resina.
Per il resto della notte lo
scoiattolo fu cordiale e l’ospitò, ma il mattino seguente era scomparso, mentre
da fuori, sugli alberi, le case e le tane, c’era un gran formicolare di
animali. Tutti erano mossi dalle cosiddette necessità, ovvero bere, mangiare,
sopravvivere. Nessuno aveva tempo di stare a fischiettare per il puro gusto di
farlo, forse solo certe specie, ma anche per loro era un caso se per dire “ho
fame” avessero una bella voce. Sicché l’uccellino rimase solo a guardare, senza
sapere da dove cominciare. Passò un giorno intero in questa contemplazione, con
un certo languorino allo stomaco. Poi, consolato dal ritorno dello scoiattolo,
andò a dormire con una rinata speranza per il domani.
Tuttavia il secondo giorno fu
come quello precedente, e così per un’intera settimana. Di tanto in tanto lo
scoiattolo rimediava qualcosa per lui, fino a quando, stanco e deluso di quella
nuova dipendenza, tornò alla vecchia gabbia con la coda tra le zampe. Mogio
com’era, la compagna non ebbe il coraggio di aggredirlo, e lo consolò. L’uccellino
era più triste di prima, perché aveva assaggiato per un attimo la presunta
libertà e ne era rimasto incantato. Ma mentre guardava assiduamente gli altri
animali, gli era venuta come l’impressione che nessuno di loro fosse veramente
libero, e che un po’ tutti dipendessero dall’altro, o dalle proprie capacità, o
da entrambe le cose. E notò che nessuno aveva tempo di gustare un guadagno o
una conquista, perché ad ogni guadagno seguiva la necessità di non perderlo,
mentre ad ogni conquista la necessità di ingrandirla. Sicché in questa continua
tensione all’ingrandimento, all’espansione e alla ricerca di un benessere
sempre nuovo, non era rimasto libero più nessuno. L’uccellino, tornato in
gabbia, si chiuse allora in se stesso, con la testa immersa nelle piume del
corpo. Pensava e ripensava alla libertà; trovava sempre nuove storie; poi
definizioni; poi ancora ripensamenti in vista di una riconferma. E tutto
assorto in questa sua filosofia, non ricordava nemmeno più di avere una
compagna, né di mangiare e bere, né di essere vivo. Tutto in lui era spirito.
La sua storia fece il giro del
mondo. Animali – uomini inclusi – andavano da lui per sapere come
ricongiungersi con lo spirito, e lui, quando poteva, era ben contento di
esporre il suo pensiero agli altri. Per un attimo sembrò che quel successo lo
avesse riportato alle cose concrete. Aprì una scuola, le sue idee divennero
come leggi, che tutti amavano e nessuno seguiva. Neanche per pensare c’era più
tempo.
E a poco a poco la moda della sua
filosofia venne meno; tornò ad essere l’unico a professarla. La scuola venne
chiusa, le sue leggi furono ridotte ad aforismi incompresi e abusati. Così, un
altro giorno, l’ultimo, l’uccellino morì. Ma morì non per la solitudine della
gabbia, né per quella interiore, bensì per l’amarezza di non essere riuscito a
vivere libero. Quella mattina – dicono – si era spostato dalla sua postazione
diretto verso la mangiatoia. E via un seme, via un altro, sprofondò con tutto
il peso nella mangiatoia, e rimase appeso così, finché la sera fu sepolto senza
lapide. La compagna rimase una giornata intera con il morto, fischiettando
qualche peana per celebrarlo. E il suo canto si propagò dalla gabbia a quella a
fianco, e via così per tutte le altre lì vicino; dopodiché i vari suoni si
fecero un solo coro, il giardino un unico lamento di memoria e di celebrazione;
la luna invertì la rotta nel cielo e tornò improvvisamente piena: la sua luce
argentata riscopriva ogni segreto, rischiarava ogni ombra. Tutti gli animali
cantavano a modo loro, e l’orchestra divenne ora dopo ora più articolata, più
completa e più armoniosa.
Tutti si sentirono come mai era
accaduto; alcuni incominciarono a leggere le frasi dell’uccellino, qualcuno
sembrava persino capirle, ora, alla luce argentea. E proprio quando il mormorio
si fece impeto, c’è chi giura che, sullo sfondo della luce cinerea, l’uccellino
avesse preso il volo verso un nuovo cielo; e addirittura non sembrava più un
uccellino come tanti, ma le sue ali e il suo corpo avevano assunto fattezze del
tutto diverse. Anche lei alzò la testa al cielo, e chiamò il suo antico uccello
“fenice”, perché nessuno potesse competere con la sua grandezza. Post fata resurgo! (Dopo la morte
risorgo!), gridarono insieme gli animali del bosco.
Nota: quello appena riportato è il testo originale, di seguito trovate il testo revisionato per la pubblicazione nel volume Il mondo in fiaba, libro dell'Associazione Bondeko rivolto ai bambini in difficoltà in tutto il mondo.

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