Il giorno del riposo. Alcuni significati
Di recente si è parlato e si parlerà
ancora in Italia riguardo alla chiusura dei negozi di domenica. Dato che qui
non ci occupiamo di politica attiva (talvolta solo di teoria), allargheremo il
discorso al concetto di riposo, al suo significato, cercando per quanto
possibile di non dilungarci sugli aspetti ovvi del discorso, presenti peraltro
in vari siti.
Generalmente, nel mondo occidentale, il
giorno di riposo è la domenica, che – come suggerisce il termine – rimanda al
Signore. Prima del Cristianesimo, la domenica era dedicata al Sol Invictus, un’entità
divina in cui in età severiana si identificarono una serie di divinità legate
al sole e alla luce.
È piuttosto sicuro che la nuova
religione riprese questo giorno per dedicarlo al proprio, unico, Dio, sebbene
non sia da escludere del tutto l’idea che le prime comunità cristiane assunsero
la domenica come giorno di riposo in modo autonomo. D’altra parte, la Storia è
costituita da queste analogie e similitudini, a cui è sempre difficile attribuire
il caso o il destino. Un po’ come la concomitanza tra l’avvento di Cristo e l’età
augustea, che per secoli fu sottolineata da molti teologi.
Sta di fatto che secondo le Scritture,
Gesù resuscitò proprio di domenica e tanto basta a spiegare la scelta del
giorno, concomitanze o meno.
In àmbito cristiano, però, la domenica
nacque come giorno da dedicare al ricordo di Cristo e alla preghiera prima
ancora che come giorno di riposo. Il concetto stesso di riposo fu un’eredità
dell’Ebraismo, per quanto stravolta nel tempo. Le prime comunità cristiane, in
particolare quelle di origine giudaica, seguivano anzi i precetti della Legge
mosaica ed erano in tutto e per tutto Ebrei.
Solo nei decenni successivi si
assistette ad una progressiva differenziazione tra le due fedi, segnatamente
anche attraverso l’accesso al Cristianesimo da parte dei non Giudei e all’introduzione
di dogmi che elevarono la figura di Cristo alla dignità divina. Questo, almeno,
raccontato in estrema sintesi.
Per rintracciare dunque l’origine di
questa idea del riposo bisogna risalire ovviamente a Genesi 2,2-3: «Allora Dio, nel settimo giorno, portò a termine il
lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio
benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni
lavoro che egli creando aveva fatto».
Più che riposare, Dio ammira la propria
creazione. Si tratta di un altro genere di attività, meno attiva e più riflessiva,
interiore, in cui è ciò che abbiamo prodotto a ritornare a noi come per un’attrazione
dettata dall’origine stessa dell’opera. Curiosamente, il giorno sacro per i
Mussulmani è il venerdì, noto come giorno dell’adunanza. Per loro tuttavia il
mondo fu creato in sei giorni e Dio non si riposò: si tratta dunque di una
particolare sospensione dal lavoro quotidiano, segnata dalla preghiera.
D’altra parte, il numero sette è da
sempre collegato nella tradizione alla completezza, alla perfezione, alla
ricerca interiore compiuta. Prendiamo invece il termine “riposo”: esso si accosta
bene, a livello concettuale, a termini come silenzio, pace, oppure all’idea di
un ambiente che ci fa sentire confortati, sia noto (per esempio la propria
casa) sia ignoto (per esempio un luogo di vacanza). E nell’Ebraismo stesso il
concetto di riposo si sviluppa nell’anno sabbatico, momento di uguaglianza
sociale, che sollevava dai debiti e persino da una condizione di schiavitù,
esaltazione (già nel nome) del giorno dedicato a Dio e al suo aspetto, appunto,
pacificatorio.
Tutti questi elementi per evidenziare
come il cosiddetto “giorno del riposo” sia in realtà un giorno dedicato ad un
altro genere di attività, più sottile, che ci riavvicina al divino e agli altri
esseri umani, proprio perché cessiamo di preoccuparci del dato materiale per
valorizzare il filo invisibile che collega l’umanità in sé e nel suo rapporto
con il divino.
Il giorno del riposo, in questo senso, si
colora di una diversa sfumatura. Riposo – che è bene precisare – non ha nulla a
che fare con il divertimento, il quale anzi affatica il corpo e spesso anche la
mente ed è quindi collegato ad altri aspetti della vita.
Come società, oggi agiamo invece sette
giorni su sette, senza alcun ritmo, tantomeno legato alla vita umana e alla
natura. Iniettiamo piccole dosi di riposo tra una fatica e un’altra, che hanno
tuttavia una doppia funzione: da un lato distraggono la mente dalla fatica
passata e da quella imminente, dall’altro rilassano, ma non facendoci apprezzare
quanto già compiuto, bensì nella prospettiva di quanto dovrà ancora venire.
Ciò che manca è proprio l’idea di
concludere. Dare un ritmo ad un lavoro, prevedendo più processi di inizio e di
fine, e soprattutto portarlo a termine.
Tutto questo, ovviamente, si scontra con
la realtà su più piani. Per esempio – lo abbiamo appena visto – le tre
religioni abramitiche prevedono tre differenti giorni di “riposo”. Senza
contare come, nella società attuale, prevalgano ragioni di laicismo e di
liberalismo rispetto al particolarismo religioso. Quest’ultimo fattore, lungi
dall’essere critico, è un valore aggiunto proprio dinanzi al particolarismo,
con un unico difetto: quello di aver respinto il dato spirituale confondendolo
con la religione.
Per dirla in altri termini, le nostre
vite sono prive di un ritmo perché abbiamo smesso di ascoltare la nostra parte
interiore, connessa al cuore dell’esistenza e che si muove all’interno della
più vasta armonia dell’Universo. Siamo – per così dire – fuori fase, anzi,
fuori tempo. Le nostre azioni sono le più vane di sempre non perché lo siano di
per sé, a priori, ma proprio perché non ci prendiamo il tempo di renderle
compiute, significanti, ammirevoli, ovvero degne di ammirazione.
Si può quindi porre la questione in due
termini, uno pratico e uno interiore. Dal punto di vista pratico, il Codice Giustinianeo (3.12.2) prevedeva: «Nel
venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle
città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia
libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non
si possa rimandare la mietitura del grano o la semina delle vigne; sia così,
per timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il
momento opportuno, stabilito dal cielo».
C’è sicuramente tutta la praticità della
mentalità romana, che pur considerando le eccezioni le ritiene stabilite “dal
cielo”: è l’Uomo che viene incontro al divino, dandosi un ordine, nella
consapevolezza che l’Infinito è per sua stessa definizione incontenibile e
necessita quindi di un certo grado di ragionevolezza e di sensibilità.
Ai nostri tempi abbiamo quasi timore di
aprirci a questa prospettiva, forse perché ormai troppo codificata dagli
ambienti religiosi, eppure nel momento in cui riscopriremo – come società – l’aspetto
spirituale, ben al di là delle singole fedi, anche il riposo tornerà ad avere
un valore di fatto, all’interno di processi, piccoli o grandi, comunque
connessi tra loro, che prevedano infine la contemplazione.
Un ultimo esempio, per spiegare le
potenzialità di questo percorso, che certo si può aprire alla spiritualità
orientale, ma che in questo articolo manterremo nel contesto a noi più vicino.
Il benedettino Anselm Grün ricorda la
pratica di alcuni monaci delle origini, che per affrontare le turbolenze
interiori si sedevano nel loro rifugio e rimanevano fermi, senza far nulla,
nemmeno pregare. I pensieri emergevano dal profondo e si sceglieva quali
valesse la pena di conservare. Riprendendo questa usanza, Grün scrive: «Nelle
comunità spirituali è consuetudine concedersi un ‘giorno del deserto’. Alcuni
lo fanno ogni mese, altri una volta al trimestre o ogni semestre. In questo
giorno del deserto non si fa nulla da esibire e di cui vantarsi. Si va a
camminare per l’intera giornata e si presta attenzione a ciò che affiora nel
silenzio. Altri si siedono semplicemente nella loro stanza e stanno a vedere
ciò che accade nella loro anima» (A. Grün, Nella dimensione del tempo dei monaci. Come vivere il tempo,
Editrice Queriniana, Brescia, 2007).
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