La percezione della realtà. Dietro le apparenze di uno spazio globale
In questo articolo parlerò di alcune opere di quattro
artisti contemporanei, per discutere della linea sottile che nella società
separa ciò che è manifesto da ciò che è dissimulato. Ma l’analisi si estenderà
oltre l’àmbito sociale e parlerà di come sia possibile una conoscenza dello
spazio di tipo verticale, che vada oltre il contingente e abbia un significato
simbolico più esteso. Le quattro opere sono quindi state ordinate in modo tale
da passare dalla realtà sociale alla realtà dell’intelletto.
L'opera di J. Wall |
Partiamo da Jeff Wall e dalla sua Dead Troops Talk (a vision after an ambush of a Red Army Patrol, near
Moqor, Afghanistan, winter 1986) del 1992. Si tratta di una fotografia, strumento
utilizzato in questo caso quale mezzo di finzione: l’allestimento del set
rappresentato richiese un anno e coinvolse esperti di effetti speciali,
truccatori, costumisti e via discorrendo. L’immagine finale è frutto di un
montaggio digitale, costituito da fotografie separate.
L’autore si confronta con il dipinto di storia, cita
Géricault (Le Radeau de la Méduse) e
utilizza strategie concettuali, rielaborando e facendo interagire così la
cospicua eredità dell’arte. Manipola l’immagine e mette quindi in risalto il potere
insito in ogni immagine costruita dall’uomo, tanto nella pittura di storia
quanto nella fotografia digitale.
La scena mostra un gruppo di soldati sovietici che
torna in vita, nel contesto del conflitto in Afghanistan degli anni Ottanta: i
gesti e le azioni dei soldati appaiono autoreferenziali, legate alla centralità
della propria appartenenza. Tutto il resto appare estraneo, nemico: è quel
momento in cui in un film o in un documentario proviamo empatia per
l’atteggiamento umano dei soldati che parlano, senza però riflettere su ciò che
comporta la loro presenza sul campo.
Tale finzione è elaborata da Wall e resa a tratti
grottesca, come nella macabra leggerezza di quei soldati che giocano con le
proprie ferite. La morte diviene finzione essa stessa ed è quasi banalizzata
attraverso il filtro dell’immagine costruita. Questo lavoro, evidentemente,
pone l’accento su come l’arte e il mezzo fotografico possano condizionare la
percezione della realtà, non solo mostrandone una parte, ma rendendo quella
parte più leggera, facendone spesso
una vana tragicommedia.
L'opera di A. Sekula |
Volta a portare alla luce i retroscena del sistema
globale, l’opera Fish Story
(1989-1995) di Allan Sekula è un’esplorazione dell’industria marittima,
attraverso tavole fotografiche in sequenze narrative. Le forze della natura
sono mostrate a confronto con il capitalismo globale: queste fotografie hanno
lo scopo di rendere evidente ciò che i processi delle economie globali
nascondono, apertamente o per il disinteresse dell’artista e del pubblico.
Sekula sostiene il ruolo della fotografia nel narrare
il lavoro e come esso sia mutato con la globalizzazione. Il progetto è
articolato in sette capitoli, con centocinque fotografie a colori, ventisei
pannelli di testo e due proiezioni di diapositive. L’opera si apre con il ruolo
centrale del mare nella moderna economia globale, riunendo le immagini delle
città portuali del mondo. In questo sfondo la critica si concentra sulla
ricerca capitalista di manodopera a
basso costo in tutto il mondo e il faticoso lavoro del marinaio: la poetica
idealizzata e romantica del mare e del marinaio-esploratore è così sostituita
da una cruda realtà.
Sekula si interessa dei processi produttivi e
distributivi delle merci, indagando dietro a ciò che il prodotto finito mostra
e che la pubblicità idealizza. E da questa indagine emergono le ombre, un
occultamento dei processi di distribuzione mondiale di materie prime che
stimola la coscienza dell’osservatore. Per lo storico dell’arte Benjamin
Buchloh, infatti, la rappresentazione del lavoro industriale ha lasciato il
posto alle fantasie di un mondo post-industriale. Il problema è che questo
mondo è valido solo (e comunque non in modo assoluto) per l’Occidente più
progredito, mentre l’industria continua ad esistere, ma delocalizzata in
ambienti e in condizioni dove si è ritenuto più utile non concentrare la
rappresentazione artistica e documentaria.
Per esempio, nel quarto capitolo, Seventy in Seven (completato nel 1994) si mostra il cambiamento
radicale nello stile di vita sudcoreano. Ci troviamo di fronte a pescatori
trasformatisi in operai, sullo sfondo di una città che vede crescere gli
ambienti industriali e commerciali a scapito dello spazio pubblico e
dell’ambiente naturale.
Sekula è stato uno dei primi a trattare questi temi e
ad avviare una sensibilizzazione in tal senso. Ad oggi, scegliamo ancora più
apertamente di ignorare ciò che si nasconde dietro i processi produttivi e
distributivi delle merci, e spesso rassegnazione e cinismo hanno il
sopravvento. Quello che però artisti come Sekula raccontano è una realtà che
esiste e avrà delle conseguenze con o senza la nostra partecipazione morale.
L'opera di B. Nauman |
Diverso invece è l’approccio di Bruce Nauman in Anthro/Socio (Rinde Spinning) del 1991:
si tratta di un’installazione video con tre coppie di monitor e tre proiettori,
che costituiscono una barriera sonora e visiva, in cui il soggetto percepisce
una scissione tra immagine e suono.
Nauman indaga appunto il rapporto perturbante tra
corpo e spazio: sui monitor si vede la testa di un uomo, e ognuno pronuncia con
toni diversi tre frasi: «Feed me / Eat me / Anthropology»; «Help me / Hurt me /
Sociology»; «Feed me / Help me / Hat me / Hurt me».
Per cogliere l’effetto dell’installazione bisogna
entrare in quello spazio: le frasi provengono da diverse direzioni, si
sovrappongono in modo confuso, irritante e persino macabro. Si ha come la
sensazione che l’installazione proietti all’esterno la sovrapposizione mentale
che si accumula nell’uomo contemporaneo. Quell’uomo travolto da ogni parte da
richieste semplici, primarie, ripetitive e condizionanti.
Un caos che non solo ci infastidisce, ma ci
destabilizza, perché racconta da un lato un nostro bisogno o una nostra
pulsione inconfessabile, ma dall’altro ci pone in conflitto con l’aspirazione
ad una vita più regolare, non contraddittoria e forse persino più virtuosa. Ci
viene invece mostrato come si crei il senso di isolamento di una persona e come
esaurirne ogni capacità cognitiva.
Ma al contempo si può prendere questa materia confusa
e trattarla alla stregua di una proposta polifonica, che pone al centro la
necessità di una congiunzione armonica tra le diverse parti, talvolta anche conflittuali,
di uno stesso individuo.
L'opera di A. Kapoor (Descension) |
Concludiamo infine con Descent into Limbo (1992) di Anish Kapoor, uno spazio chiuso con
una voragine al centro, che assorbe la luce naturale dal soffitto schermato.
Kapoor si concentra sulle opposizioni della scultura (pieno e vuoto, ombra e
luce, solido e liquido, etc.); crea una straniante sensazione di oscurità,
metafora della precarietà che separa il noto dall’ignoto.
L’ambiente circostante converge in un vortice nero, di
cui non conosciamo la profondità e le incognite. E noi siamo parte di
quell’universo e quindi coinvolti in quel moto inesorabile; siamo per questo
spinti ad esplorare l’ignoto, a superare l’apparenza e le facili soluzioni. E le
opposizioni della scultura, della materia, sono solo il primo passo nel cammino
di una “rifinizione interiore”, spirituale.
La voragine ha una doppia soluzione: un abbandono
passivo all’horror vacui o il
passaggio a nuove potenzialità dell’essere. Per coloro che scelgono la seconda
via, il reale si mostra non più come un elemento solido, ma come una struttura
a piani che rivela ciò che è oltre la caverna platonica. E il primo passo di
questa esplorazione è non a caso una voragine, un Inferno al modo di Dante, che
nella sua negatività e miseria condiziona la reazione umana nella direzione
della bellezza e del bene.
Il punto di arrivo di questa indagine di Kapoor è Descension (dal 2014), in cui il
dinamismo delle acque trasporta lo spettatore in un’esperienza interiore ancora
più coinvolgente. La voragine, il buco nero, il gorgo: si entra nello stato in
cui la materia perde forma e costituzione e mostra l’idea, il principio che
l’ha costituita. Ma ad un primo sguardo non c’è che il mistero e forse persino
la paura dell’ignoto: questa opera attrae e respinge a seconda della propria
volontà di indagare in senso verticale lo spazio. Al centro non c’è il vuoto,
ma un segreto che dal punto di vista umano appare oscuro e necessita di essere
svelato.
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